Farfalle di neve

Prefazione a Farfalle di Neve
(il nuovo libro di racconti di Dario Bubola)
di Alberto Peruffo

Leggere i racconti di Dario Bubola, dopo decenni di militanza controletteraria (qualcuno tra i lettori ricorderà l’avventura pionieristica Intraisass, “dentro ai sassi”), è come ritornare a casa. Il sentimento primitivo della nostalgia, di una dimora e di un rifugio che manca, perché assediati dalla mediocrità mercenaria delle lettere, divenute oggi più che mai pane quotidiano dell’editoria italiana, si presenta enigmatico alla porta della nostra sensibilità ogni qual volta si apre un racconto di questa seconda raccolta. Già la prima mi aveva colpito. La seconda conferma quanto si intravedeva nella prima. 

La straordinaria capacità di ritmo e di concretezza narrativa, dei passi e dei misteri, sulle montagne dei nostri desideri, fisiche e simboliche, che non sono altro che gli scogli supremi delle nostre libertà e delle nostre relazioni di fraternità e sorellanza, di amicizia e di perdita degli orizzonti dovuti all’inesorabiltà dei fatti e della vita, alla violenza delle guerre e al respiro vorticoso sul vuoto di verticali pareti, affascina noi tutti, lettori libertari, legati a nessuno scopo, secondario, se non a sentire la voce di un amico che ha messo per iscritto le sue prove di libertà. Prove provate, vissute e toccate con mano.

Aperta la porta, tali racconti si leggono come fossero onirici suggerimenti per i nostri futuri cammini. La primitiva nostalgia – che è un richiamo dal profondo, dalla radice del nostro essere, che sarà prima o poi sradicato da questo mondo, dove abbiamo vissuto, patito e gioito – ha come controcanto il primigenio silenzio. Il silenzio carico di mistero, di ignoto e di stupore. Che spesso si fa dolore. Per il limite della vita. Per le torture della guerra. Per le ingiustizie del nostro vivere sociale, addomesticato e, a volte, scongiurato da inquietanti incubi.

Ecco il passo silente – per le vie fredde di Agordo – del maestro misterioso che lavora in una fabbrica di occhiali, per decenni, bussare alla porta di una chiesa, dove a parlare non è la divinità astratta dei nostri credi, ma l’incontenibile rigoglio creativo espresso battendo le dita sui tasti di un magnifico organo, di montagna. La musica inattesa, sull’omologazione della vita, sembra essere il fil rouge di tutti questi racconti: il corso del tempo e delle cose che giunge a noi grazie al racconto di qualcuno che sa far parlare le cose che tutti vedono, ma nessuno ascolta. Come il padre che rende animata alla giovane figlia una reliquia naturale offerta dal fiume Piave, un tempo Cordevole, e ancora prima Biois. O il battito del cuore di un giovane uomo prima di essere travolto da una valanga. 

Tutto intorno è silenzio, prima del nuovo risveglio. Se ci sarà un risveglio. Poiché il destino aspro dei monti potrà esserci rubato da qualcuno che ordirà qualcosa contro di noi, nascosto tra le trincee economiciste delle città. Siano esse cliniche psichiatriche o i viali luccicanti di una Milano buzzatiana, irta di campanili e guglie dolomitiche. Da scalare solo in sogno, perché la realtà è cruda, fatta di vetri riflettenti e arido cemento.

A mio modo di lettura, Bubola scrive come pochi tra i “rifugiati” tra i monti, dove il rifugio non è una via di fuga o di salvezza, ma è il luogo dove si resiste a se stessi e alle dicotomie del mondo. Alle incomprensioni, alle banalità, alle mezze verità che i signori della cultura usano per distrarre le nostre esigenze di amore, relazione, mistero. Il mistero dei monti e tra i monti – cantato dal trittico, da me molto amato e studiato, Rudatis-Franceschini-Dal Bianco, in un altro racconto – è qualcosa di esoterico non per questioni di studio, preparazione, classe sociale, ma per un sentimento simbiotico che solamente chi ha percorso con i propri piedi e toccato con le proprie mani le scoscese rocce delle pareti dolomitiche – specie Bellunesi, come la Grande Civetta, il maestoso Pelmo, gli abissi di San Lucano – sa per così dire cum-prendere, prendere con sé e porgerlo agli altri. Quale interpretabile suggerimento che poi ognuno dovrà realizzare a modo proprio.

Questo sentimento di liberazione, di rispetto e di silenzio carico di abisso, di stupore e di meraviglia – «arrivo in prossimità della mia meta curioso di vedere aldilà!» – è il respiro profondo e costante di questo libro. Solo per questo respiro sovversivo la letteratura ha un senso. Solo su questo respiro di oltranza enigmatica l’alpinismo nacque. Per questo vi invito a leggere le pagine che l’autore, con molto rischio e notevole premura, ha voluto porgere in anteprima sotto la mia attenzione. Terribile attenzione, perché sa di terra e di sassi, di ferite e di sconquassi, vissuti da uno dei rifugiati “politici” che tra i monti – tra i sassi – è stato più volte ricercato e condannato. Condannato a non abbassare la guardia contro gli imbonitori della cultura. Complici primari della distruzione delle nostre montagne. Reali e immaginarie.

Leggere questi racconti è come diventare farfalle, di neve, prima del silenzio eterno delle cose. Farfalle che ci voleranno attorno al momento della nostra dipartita se avremo osato sollevarci oltre le parole che gli altri urlano, e che Bubola inanella in frugale prosa. Lo capirete dal meraviglioso racconto omonimo che dà il titolo all’intera serie. Buona lettura e ringraziamo Dario per la sua dote di scrittura. Ci renderà la vita ancora più preziosa e unica

La biblioteca
(estratto da Farfalle di neve)
di Dario Bubola

Vicenza, settembre. Ritrovarsi a passeggiare per il centro di Vicenza in un caldo pomeriggio di metà settembre, tra i palazzi color seppia, a respirare un’aria polverosa. La gente che cammina frettolosa creando un labirinto in movimento, le vetrine che ti strattonano magari solo per uno sguardo, spezzoni di frasi a caso che costruiscono un racconto insensato, tutto ti distrae. Solo i tuoi passi ritmati provano a creare un po’ di ordine almeno per ricordarti quale è la tua meta.

Martina, Enrico, Paolo e Marco, dopo aver seguito una tediosa lezione pomeridiana di Analisi Due, escono assieme dal complesso universitario. Scherzano, sorridono spensierati, i loro discorsi si intrecciano. Scendono gli scalini di marmo bianco, ancora vicini tra loro. Si fermano un po’ prima di dividersi. La loro amicizia è iniziata da un anno. Casualmente vicini di posto nelle prime lezioni si sono subito trovati bene. Quattro ragazzi giovani e simpatici, stessa avventura da percorrere, compiti da condividere, equazioni da risolvere, teoremi da capire. Martina e Paolo vanno verso la stazione dei treni, Enrico prende la bicicletta. Martina si gira un attimo e Marco fa lo stesso. I loro sguardi si incrociano, accompagnati da un sorriso. Marco prosegue a piedi verso il centro. “A domani!” dicono quasi all’unisono. E un po’ di tristezza li accompagna. Tristezza settembrina!

Marco si allontana velocemente e in un attimo si fa serio e scuro. Il suo pensiero vola all’esame di Fisica Uno che deve affrontare di lì a qualche giorno. Meglio andare in appartamento, dove sicuramente i suoi compagni che non hanno esami lo disturberanno, conoscendo il loro carattere festaiolo, o in biblioteca, in quello stanzone silenzioso circondato da migliaia di libri? Vada per la biblioteca.

Solitamente si reca a quella di Palazzo Costantini. Il palazzo austero non aiuta sicuramente l’umore, ma l’orario di chiusura fino alle 21 la fa prediligere rispetto alle altre. Qualcosa da mangiucchiare se l’è portato sullo zaino e comunque quando tornerà in appartamento almeno troverà la cucina libera e silenziosa.

Fisica Uno, un esame che sicuramente non si fa per passione. Marco trova un tavolo libero. Tira fuori dallo zaino, che usa solitamente anche in montagna, il libro da studiare e il quaderno degli appunti. Cerca nella tasca le cuffiette che collega subito al cellulare. Trova la sua playlist di musica metal salvata, abbassa il volume quasi al minimo e inizia a ripassare i vari teoremi sulle forze conservative ed energia potenziale.

Il suo sistema di studio è quello di riassumere l’argomento in schemi semplici cui associa disegnetti o parole chiavi per meglio ricordare il concetto. Ne esce un quaderno pieno di animaletti, oggetti, nomi di persone, cose, montagne, verbi e colori. A sfogliarlo sembra quello di un bambino delle elementari più che di uno studente universitario.

Dopo un’oretta, quando fuori il cielo inizia a virare verso il tramonto, si alza in piedi per sgranchirsi e fa due passi attorno agli scaffali. Matematica, chimica, anatomia, … viaggi, sport, montagna. Per un attimo tira dritto, ma subito torna sui suoi passi. Montagna, guarda lo scaffale riconoscendo tanti libri solo dal dorso. L’estate scorsa era stato con gli amici a fare qualche escursione sulle Dolomiti, in particolare avevano trascorso una notte al rifugio Pradidali nelle Pale di San Martino. E dopo la cena, con la Cima di Ball a fargli da quadro alla finestra, avevano deciso assieme che il prossimo rifugio, probabilmente l’anno venturo, sarebbe stato il Mulaz. Quindi perché non distrarsi qualche minuto per dare un’occhiata al percorso?

Preso un volume sulle Pale di San Martino, Marco torna silenzioso al suo posto. Mentre consulta l’indice dimentica argomenti e programmi di studio. Già sente il profumo del muschio semplicemente sfogliando le prime pagine. Arrivato al capitolo sul rifugio Mulaz i suoi occhi, e la sua fantasia, cadono sulla foto del rifugio di pietra chiara con i balconi azzurri e lo sfondo di roccia viva! Vista qualche altra immagine relativa alla cima del Mulaz inizia a leggere la guida:” Partendo da Molino (Falcade) si attraversa il Torrente Focobon (sulla strada che conduce al Camping) e si sale lungo una mulattiera che parte alla fine della strada. Verso la fine della mulattiera, sulla sinistra, c’è il segnavia n. 722 con indicazione: “Rifugio Mulaz”. Il sentiero sale in mezzo al bosco con tratti anche ripidi, fino ad arrivare nella Valle del Focobon. Superato il ponticello si prosegue lungo la sinistra idrografica del torrente, fino alla “Casera Focobon. Si gira quindi a sinistra …” il sentiero si fa ripido, dapprima tra l’erba alta bagnata di rugiada per poi proseguire per stretti tornanti dove la vegetazione si dirada presto. In alto fanno da compagnia le argute cime del Focobon, incredibili castelli che si innalzano al cielo. Il suo sguardo si perde per un attimo a seguire i pinnacoli appuntiti. Ma visto l’orario meglio proseguire.

“Dai Martina che manca poco!” Marco si gira e aiuta Martina ad affrontare un passaggio dove un paio di rocce ostruiscono il passaggio.
“Me lo hai già detto sotto, alla casera!” Sospira Martina, sudata ma con quel suo sorriso sensuale.

Ancora pochi passi e il sentiero si trasforma in piccoli salti di roccia, divertenti dice Marco, ma che presuppongono un po’ di impegno. E subito dopo aver aggirato un grosso masso si scorge il tetto del rifugio.

“Siamo arrivati!” dice soddisfatto Marco.
“Anche perché tra poco sarà buio!” aggiunge Martina.

Prima di entrare si guardano attorno. Un selfie con la porta d’entrata alle spalle e subito dentro. Il gestore li accoglie e dopo le formalità li accompagna nella camerata in parte occupata da un gruppetto di tedeschi che si cambiano. Scelto il letto a castello libero si preparano e scendono affamati.

La sala che li accoglie è calda, sia nella temperatura che negli arredi. Ricca di ricordi, foto di scalatori, pareti a strapiombo. Si siedono ad un tavolino coperto da una tovaglia di quadrati bianchi e rossi e un paio di tovagliette del rifugio. Che bello mangiare in un rifugio di sera! Martina emozionata gira la testa a destra e sinistra a cercare un oggetto non ancora visto. Tutto le piace, tutto l’appassiona. Marco guarda fuori verso il Mulaz, la loro meta di domani. Una cima facile ma affascinante. Un punto panoramico invidiabile. Un “quasi tremila” si usa dire, pochi metri sotto i tremila di altitudine.

Minestrone, spezzatino con polenta e alla fine un piatto di Kaiserschmarren, quella specie di frittata dolce spezzettata con la marmellata di mirtilli! Non c’è pranzo di matrimonio o ristorante stellato che lo possa lontanamente avvicinare.

Velocemente a prendere la giacca e subito fuori, a far due passi e vedere il tramonto tra le rocce. L’aria è fresca, quasi fredda. Marco abbraccia Martina. Si tengono stretti e si guardano negli occhi. Occhi di due giovani innocenti, lucidi e innamorati.

Un ultimo sguardo verso le cime e decidono di rientrare, magari per un ultimo thè caldo prima di andare a letto. Ritornano al tavolo, ordinano e prendono la mappa per ripassare il percorso dell’indomani.

Sono stanchi entrambi. Mano nella mano i loro occhi si fanno piccoli. Sorridono e decidono di salire in camerata. Di lì a pochi minuti si trovano nel letto a castello cigolante. Marco sopra, si gira un paio di volte e si addormenta felice.

“Svegliaaa”, sussurra delicatamente una voce di donna.
Marco alza lo sguardo. Non capisce bene. Fuori è buio.
“Scusa, ma dobbiamo chiudere. Sono quasi le nove!” continua la bibliotecaria.

Marco, un po’ stordito, spegne la musica, chiude i libri e quaderni che ha sul tavolo e li infila nello zaino. Si alza barcollando ed esce dal palazzo. Percorre il centro storico svuotato di gente. Silenzioso, quasi triste.

Arriva in appartamento e riscalda l’acqua per una pasta. Mentre aspetta svuota lo zaino e sotto il libro di Fisica trova Guida ai rifugi delle Pale di San Martino. Una smorfia, Martina…

“Domani lo riporterò in biblioteca!”.

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