Gli squali e la ranocchia

Questo racconto risale all’inizio degli anni ’90 e costituisce uno dei miei primi tentativi di narrativa alpinistica. Quando ho composto la raccolta di racconti denominata La Mangiatrice di uomini (CDA Vivalda editori, Torino, 2011) decisi di non selezionare questo testo perché in quel momento storico lo giudicai troppo grezzo, seppur genuino. Negli ultimi dieci anni me ne sono completamente dimenticato (come capita spesso a molti miei scritti), ma poco tempo fa mi sono imbattuto nuovamente in questo racconto. A rileggerlo con gli occhi di “oggi” mi ha suscitato tenerezza e ho deciso di recuperarlo, mitigandone l’imberbe natura. In realtà non ho apportato chissà quali modifiche, solo qualche limatura qua e là, specie nella seconda parte, su cui oggi sono maggiormente consapevole per le mie ricerche storiche di più recente tempistica. Ho invece lasciato immutata l’impostazione strutturale che, a un certo punto, scombussola completamente l’asse temporale: fin dall’inizio della mia esperienza di narrativa mi affascinavano le scelte stilistiche un po’ ardite, come fossero delle sfide lanciate ai lettori (Carlo Crovella).

Gli squali e la ranocchia
di Carlo Crovella

C’era poco da stare allegri.
Gianluca e Andrea avevano bivaccato già per due notti, inchiodati su quella maledetta cengia.
La bufera si era scatenata all’improvviso, come spesso succede nel massiccio del Bianco: un attimo prima arrampichi in maglietta, nonostante i quattromila, poi ti trovi addosso un turbine di neve.
C’era poco da stare allegri, a pochi tiri dall’uscita del Pilone Centrale, proprio sotto la Chandelle.
“Scendiamo?” implorò Andrea al terzo mattino.

Gianluca non sprecò nemmeno il fiato per rispondergli e buttò giù le doppie, in mezzo alla bufera.
Un rombo lontano, ma avvolgente, sottolineò il pericolo delle scariche.
Gianluca iniziò a scendere e le corde gelate scorrevano a fatica nel discensore: uno zampillo saltava fuori dall’aggeggio metallico e lo colpiva in piena fronte.
“Pensa se fosse una pietra” ridacchiò sarcastico.

Ad una ad una scesero le lunghezze di corda che, pochi giorni prima, li avevano visti arrampicare con gioia.
Erano stanchi, bagnati, disgustati.
Andrea quasi piangeva: “Lo zaino è insopportabile”.
“Buttalo giù!” lo provocò l’amico.
E l’altro lo fece davvero.

“Ma che ti prende, sei impazzito!!!”.
Andrea sembrò sollevato: “Tanto c’era solo roba bagnata”.

Giunsero in vista del ghiacciaio: la nebbia si squarciava e potevano scorgere i grossi crepacci laggiù in fondo.
“Quante doppie ancora?”.
“Due, tre… non so”.
“Scendi tu, Gianluca. Io non ce la faccio più”.
“No, vai giù tu: dall’alto ti dirigo verso la sosta”.

Andrea agganciò il discensore e si lasciò scivolare tra le placche incrostate di ghiaccio.
Un rombo improvviso squarciò il silenzio siderale: “Pietre!!!”.
Andrea si appiattì il più possibile contro la roccia.
Gianluca vide tutto: vide i massi rimbalzare facendo scintille e vide un grosso sasso colpire l’amico in fronte.
“Come immergere gli asparagi nel rosso dell’uovo” pensò con un glaciale distacco da cronista.

Ma questa volta il rosso era rosso sangue.
“Andrea! Andrea! Andrea!!!”.

Tentò di recuperarlo a braccia, ma era troppo pesante. Montò una carrucola e tirò su il corpo dell’amico fino al terrazzino.
“Andrea!!!” dopo una fatica estenuante.
Le corde erano annerite dove le pietre le avevano colpite, dovette tagliarle in più punti e giuntare gli spezzoni.

I Piloni del Frêney. Foto: Rotpunkt/wikipedia.

“Ti verrò a prendere, te lo giuro!”.
Andrea era accasciato in assoluto silenzio.
Gianluca scese con estrema fatica fino al ghiacciaio.
Si perse tra i crepacci mentre calava l’oscurità. A notte fonda bussò alla porta del rifugio Monzino.

“Andate a prendere il mio amico: è alla terz’ultima doppia”.
“Come sta? E’ ferito?”.
“Non so, non risponde”.

Al mattino successivo il tempo era ancora nebbioso e l’elicottero non poteva volare. Alcuni alpinisti si offrirono di andare a recuperare Andrea e a mezzogiorno lo depositarono su un tavolo, dentro al rifugio.

Nel frattempo era uscito uno sprazzo di sole e non fu facile allontanare i curiosi: molti escursionisti erano saliti al Monzino per andare a vedere i ghiacciai da vicino.

I Carabinieri avevano avvertito il padre di Andrea e lo si attendeva da un momento all’altro. Il custode teneva chiusa la porta, ma quando arrivò il padre, dovette aprirla e una ressa di gente entrò senza controllo.
Fra questi c’ero anche io.

Il padre di Andrea non capiva quasi cosa fosse successo, urlava e piangeva disperato.
Tre anni di Resistenza non gli erano sufficienti per padroneggiare la disperazione. Trent’anni di sala presse a Mirafiori si arrendevano davanti a quel visino innocente, là sul tavolo.

Non ce la facevo più ad assistere a quella scena straziante e scappai fuori.
Il sole stava riconquistando il dominio del cielo e i ghiacciai scintillanti, nel loro essere attraenti, risultavano quasi blasfemi, di fronte al dramma che si consumava dentro al rifugio.
Anch’io volevo piangere.
Potevo farlo davanti a tutti: in fondo nessuno si sarebbe stupito a veder piangere una giovane ragazza, scioccata dalla brutalità della montagna.

Invece corsi verso l’Aiguille Croux: volevo prendere le distanze da quella massa di stupidi curiosi. Era morto un alpinista, per me era morto un eroe.
Uomini così ne esistono uno su un milione ed io andavo in giro a cercare il mio.
Piangevo per quei ghiacciai così scintillanti e così beffardi.

Poco sopra al rifugio, ma nascosto da un grosso masso, c’era un tipo sdraiato supino sull’erba: era appoggiato sui gomiti e guardava verso la Noire.

Pilone Centrale del Frêney: la Chandelle. Foto: Dino Rabbi.

Sembrava emerso da altri tempi. Indossava pantaloni scuri alla zuava ed un maglione anch’esso scuro, che copriva una camicia di flanella. A fianco, fra i sassi, aveva appoggiato un cappello di feltro a tesa larga.
Calzettoni di lana spessa e scarponacci di cuoio, consunti dall’uso.
Aveva i capelli corti attorno alla nuca e più su crespi e vivi. Due occhi profondi e vivaci in un viso schietto e franco.
Masticava un filo d’erba ed osservava una cordata impegnata sulle torri della Cresta Sud.
Il sole del pomeriggio li illuminava in pieno e, da sotto, era facile distinguere i due alpinisti colorati contro il profilo grigio delle torri.

Mi sedetti a fianco dell’uomo e lui mi degnò appena di uno sguardo.
Dopo un po’, commentò: “Dalla cima di quella torre non puoi far altro che scendere”.
Lo incalzai: “E perché, allora, ci andate?”.
“Sono le nostre urla”.
“Quali urla? Le urla di chi?” incalzai un po’ stupita.
“Di noi uomini… anzi di noi esseri umani” si corresse, guardandomi di sottecchi.
“E perché mai dovremmo urlare?”.
“Perchè non riusciamo a salire più in alto”.

Guardai meglio questo individuo che iniziò ad affascinarmi, con quel suo non so che d’altri tempi.
Ripresi: “Potreste starvene sempre giù!”.
“Non ci riusciamo: c’è uno squalo che si agita dentro di noi”.
“Uno squalo???”.
“Ciascuno ha i suoi talenti. A volte i talenti sono una maledizione, uno squalo che ti si agita dentro”.

Capii la sua condanna e, soprattutto, che non la rinnegava: sapeva, sicuramente meglio di me, che il padre di Andrea non avrebbe mai accettato di tirarsi indietro. Non avrebbe imprigionato il figlio pur di non vederlo, un giorno, disteso sul tavolo di un rifugio.

Aiguille Noire de Peutérey, parete ovest e cresta sud

Mi venne di nuovo da piangere e l’uomo mi abbracciò per consolarmi.
Mi rincantucciai nell’incavo delle sue spalle: mi proteggeva e mi sentii a casa. Odorava di lavanda, di biancheria ben pulita, di serena franchezza.

Improvvisamente, ma sembrava la cosa più naturale, ci baciammo.
Prima con paura, poi sempre più avidamente ed era come per il desiderio di fissare un punto fermo in un infinito così nebuloso.

Non ricordo chi dei due approfondì il desiderio. Tuttavia ricordo che una sua carezza mi fece trasalire: era determinata e pungente e non ammetteva repliche.

Tentai all’ultimo momento di resistere, di scappare, di ritornare alle torri della Noire.
Ma lui era lì, arrogante e crudele come uno squalo verso la sua preda. Tentai ancora, e poi fu una liberazione sentirlo padrone della situazione.

Aiguille Noire de Peutérey, le guglie della cresta sud. Foto: www.gulliver.it.

Aveva il fiato caldo sul mio collo, poco sopra la spalla, ma sapeva di pulito anche quello.
L’erba ci cullava insieme ai massi che ci nascondevano, mentre le guglie della Noire si stemperavano contro l’infinito del cielo.
Mi sciolsi di nuovo in un lento, irresistibile pianto.
“Ecco, così! Piangi. Sì, piangi”.

Ma non piangevo per te, mio sconosciuto cavaliere. E non piangevo neppure per Andrea o per suo padre: piangevo per la ranocchia sul greto del torrente, una sera di quindici anni fa.

Io ero lì, bimbetta, a passeggiare e tirai un sasso a casaccio in mezzo alle pozze sulla riva: il sasso squarciò il fianco di una ranocchia, che si rovesciò sulla riva, annaspando in un urlo, tremendo anche se muto.
“Perchè l’hai fatto?” mi rimproverava la ranocchia senza emettere suono, roteando impazzita i piccoli occhi.

E adesso piangevo disperata al ricordo di quegli occhietti saettanti.
Oh, povero il mio cavaliere: crede che io stia piangendo per lui!

Foto: CaiSeregno.it.

Il suo respiro rauco si è fermato: mi accarezza i capelli, ma non osa guardarmi. Allora gli prendo il viso tra le mani e gli urlo con forza: “Chi prova rimorso per aver tirato le pietre?”.
“Le pietre? Quali pietre?”.
“Quelle addosso ad Andrea!”.
“Ma che c’entra, è stata una disgrazia”.
“C’è sempre qualcuno che tira le pietre addosso agli altri”.
“La vita è spietata, la natura è spietata” mi rispose il cavaliere sconosciuto.

Iniziava a far freddo e un brivido mi fece cercare di nuovo il calore della sua spalla, in un silenzioso turbamento.
Fu lui a rompere il silenzio siderale: “Scendi a valle?”.
“Sì.” Dopo un attimo lo tentai: “Vieni anche tu con me?”.

Non rispose e nei suoi occhi leggevo un velo di imbarazzo.
Insistetti: “Dai… nei prossimi giorni potremmo arrampicare insieme…”.
“No, ho un appuntamento dalle parti del Tacul… dovrei già essere al rifugio Torino”.

Lo guardai di traverso e più era distante e più mi appariva bello: il destino gli aveva nascosto i suoi talenti, lassù dalle parti del Tacul, e lui voleva andare a riprenderseli.

Poi la porta della cucina si aprì e ne uscì il custode. Non era lo stesso delle ore precedenti, anche questo era vestito alla moda passata, indossava sabot di legno ai piedi. Ci cercò con lo sguardo e ci trovò facilmente, sapeva dove potevamo essere.

“Ehi! E’ pronta la cena. Sbrigati, che si fredda!”.

Ma lui, il cavaliere misterioso, guardava me e forse, per un attimo, ebbe la tentazione di poter cambiare il corso delle cose.

Il custode si spazientì: “Ehi, Giusto!!! Dai, che poi devi spostarti al Torino, non ti ricordi?”.

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