Due bici in bambù, un continente da attraversare e la curiosità di vedere l’Africa da vicino. Così Dino Bonelli racconta il suo avvicinamento ai Mondiali di Kigali, tra la povertà dignitosa dei popoli locali e le emozioni di un viaggio autentico
di Dino Bonelli – Foto di Dino Bonelli e Roberto Cravero

“Non sono gli uomini a fare i viaggi ma i viaggi a fare gli uomini”. Questa citazione mi gironzola silenziosa nella testa da parecchi anni, e salta sempre fuori ogni volta che una differente valigia mi accompagna in aeroporto, e ogni volta, questo aforisma, si fa sempre più pesante e nel contempo veritiero.
Lo scorso settembre, per sfruttare l’occasione tanto unica quanto rara dei campionati del mondo di ciclismo su strada assegnati per la prima volta al continente africano a Kigali (capitale del Ruanda), con l’amico Roberto Cravero, ottimo viaggiatore ed esperto cicloturista, decidiamo di fare un viaggio un po’ differente. Per raggiungere la rassegna iridata (di cui abbiamo già dato un ampio resoconto sullo scorso numero), infatti, optiamo di atterrare a Bujumbura, la città più importante del Burundi, e proseguire via terra, in bici. La bicicletta si sa, unisce la bellezza del contatto diretto con il mondo che ci circonda tanto quanto una camminata a piedi, e una velocità che permette di macinare chilometri e chilometri ogni giorno.
Il Burundi, unanimemente conosciuto come lo stato più povero del mondo, grazie alla dignitosa quotidianità del suo popolo non mostra questo triste primato, e si rivela a noi come estremamente tranquillo e decisamente sorridente. Le strade principali, larghe e ben asfaltate, sono deserte in quanto c’è una grossa crisi energetica e non si trova benzina se non nei pochissimi distributori aperti, dove per fare un pieno ci vogliono anche due giorni di coda. Strade semi vuote quindi, con qualche camion, tante moto e una miriade di biciclette che da queste parti sono il mezzo di trasporto preferito. Sulle bici portano sacchi di carbone, bombole del gas, porte, materiale edile, frutta, sacchi di ortaggi, animali e ovviamente persone. Di modelli a uso sportivo nemmeno uno, se non le nostre gravel.

Noi, per un viaggio comodo all’insegna dell’ecologia, abbiamo optato per due bici BAM con telaio in bambù. Leggere e resistenti le nostre gravel Made in Italy hanno entrambe il mono corona da 40. La mia monta un gruppo Shimano RX600 a 12 rapporti con 42 denti, mentre quella di Roberto un Campagnolo Ekar 13 v con la cassetta 10-44. A ogni bici abbiamo agganciato otto borse della linea gravel della TAAC, dove abbiamo stivato il completo d’abbigliamento casual con cui abbiamo viaggiato in aereo, un outfit da corsa comprensivo di scarpe, in quanto siamo entrambi dei runner e qualche sera andremo anche a correre, il beauty con un po’ di farmaci, una borsa di cavi e cavetti per ricaricare orologi, telefoni e ciclo computer e una buona scorta di prodotti d’integrazione alimentare della Cetilar Nutrition, per ovviare a eventuali carenze di cibo.
Sulle strade c’è poco traffico e la cosa ci piace, ma non appena si può, ci infiliamo nelle magnifiche strade sterrate che fanno di questo continente il paradiso del gravel. Strade più o meno larghe e quasi sempre rosse, di una terra che trasuda la fatica di un popolo indigente ma orgoglioso. Ogni tanto ci perdiamo in sentieri che si infilano in bananeti o coltivazioni di caffè, ma in qualche modo, senza dover mai tornare indietro, ritroviamo sempre la giusta via. Al grido Mzungu Mzungu, uomo bianco nella locale lingua Swahili, la gente del posto ci indica, ci saluta, ci chiama, se siamo fermi ci circonda, qualcuno tenta anche un’improbabile dialogo che favoriamo con gesti e sorrisi.

Molto probabilmente la gente di queste zone remote, perse sulle montagne che abbiamo scelto di attraversare, non ha mai visto un uomo bianco. E anche noi, nell’intera attraversata del Burundi, ne abbiamo visti solo due che, per una fortuita coincidenza, erano all’ingresso del Santuario dei tamburi, in attesa di altri eventuali fruitori per raggiungere il numero minimo di quattro affinché potesse esserci la tanto conclamata esibizione corale. Uno spettacolo di una quarantina di percussionisti che con una sobria coreografia di salti, hanno suonato ritmi intensi altamente coinvolgenti. Bello e, per fortuna, ancora molto autentico. Particolare anche il siparietto post esibizione, dove i percussionisti, scoperte le nostre bici in bambù, increduli, hanno iniziate ad accarezzarle, auto convincendosi che le avessimo fatte noi. Ovviamente, e anche per la solita incomunicabilità linguistica, non li abbiamo contraddetti.

In questo viaggio, dove abbiamo dormito dove capitava ma sempre in strutture ricettive di una certa decenza e pranzato e cenato a base di riso in bianco e banane fritte o bollite, con qualche pezzo di pollo ogni tanto e frutta comprata nei mercati, non ci siamo mai dati una distanza da percorrere, ma solo una direzione da tenere. Il nostro scopo non erano i chilometri da macinare, le medie da tenere o altro, ma un girovagare esplorativo che ci ha fatti perdere più volte, scoprendo ogni volta qualcosa di nuovo. Poi, l’ennesima salita con pendenze oltre al 15% che, con bici cariche dal peso iniziale di 24 kg, non sono uno scherzo, e in cima la prima delle frontiere da attraversare. Al di là dei controlli c’è la Tanzania, tappa indispensabile per raggiungere il Ruanda, ma il prosieguo di questo viaggio ve lo racconteremo nella prossima puntata.
