di Marianna Savarese
(pubblicato su Imperial Bulldog in data 10 febbraio 2021)
Secondo i sondaggi, i comportamenti virtuosi verso l’ambiente di alcune aziende hanno influenzato gran parte degli acquisti degli anni ‘90. Un fenomeno che, seppur lentamente rispetto ad altri, è andato aumentando fino a caratterizzare oltre la metà della richiesta di mercato.
Nel 2015 il 66% dei consumatori globali ha scelto di pagare di più per prodotti sostenibili; un dato che sale al 72% nella fascia dei millennial, ovvero la generazione nata tra il 1981 e il 1996. Tale tendenza ha portato sempre più aziende a mostrarsi sensibili alla tematica, per mantenere o aumentare il numero dei clienti, ma in troppi casi il modello di business di queste società non può dirsi compatibile con il messaggio trasmesso. Che vuol dire? Vuol dire che è una truffa, ed in particolare una pubblicità ingannevole chiamata greenwashing. Vista la specificità del tema, però, e visto l’elevato numero di frodi commesse, nel 2014 l’Italia ha scelto di classificarla come una categoria a sé, e regolamentarne i controlli aggiungendo un riferimento legislativo nel Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale.
Nella sua 58a edizione si legge: “La comunicazione commerciale che dichiari o evochi benefici di carattere ambientale o ecologico deve basarsi su dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili. Tale comunicazione deve consentire di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata i benefici vantati si riferiscono”.
Ora, prima di entrare nel vivo del discorso, facciamo un passo indietro e vediamo com’è nato questo termine, da quanto tempo esiste e cosa sta a rappresentare.
Un caso di greenwashing nelle Fiji
Nel 1986 una rivista letteraria di New York pubblicò il saggio di uno studente universitario, Jay Westerveld, il quale utilizzò per primo il termine greenwashing per riportare con ironia una strategia di risparmio del resort Beachcomber nelle Fiji.
La catena alberghiera più ricercata del Pacifico meridionale chiedeva ai suoi clienti di riutilizzare più volte gli asciugamani per ridurre l’impatto ambientale dei lavaggi superflui. Considerando la continua espansione dei resort in un ambiente prima incontaminato, l’ipocrisia della richiesta non poteva che risaltare, ma agli occhi di chi? Di una qualsiasi persona interessata all’ambiente e, quindi, predisposta a selezionare i giusti stimoli esterni, ragionarci su e vedere ciò che c’è oltre la facciata imbiancata. La parola “greenwashing”, oggi neologismo ufficialmente riconosciuto, è appunto la sincrasi dei termini “green”, colore simbolo dell’ecologismo, e “to whitewash”, l’azione di imbiancare o dare la calce, usato anche in riferimento al gesto di coprire o nascondere qualcosa. Una traduzione parafrasata piuttosto diffusa è “darsi una patina di credibilità ambientale”, ma la definizione più completa e attuale che preferisco è: «Forma di appropriazione indebita di virtù e di qualità ecosensibili per conquistare il favore dei consumatori o, peggio, per far dimenticare la propria cattiva reputazione di azienda, le cui attività compromettono l’ambiente».

Il Beachcomber, comunque, non era certo il primo ad abusare di queste tecniche di comunicazione green per proprio tornaconto; negli anni ’60 imperversavano gli spot del settore nucleare della Westinghouse che esaltavano lo scarso tasso di inquinamento atmosferico prodotto dalle proprie centrali, tralasciando i dettagli relativi allo stoccaggio delle scorie prodotte e delle due fusioni del nocciolo avvenute solo tre ed otto anni prima.
Allo stesso modo, negli anni ’80, la compagnia petrolifera Chevron si autocelebrava con gli spot dal titolo “People do” nei quali si raccontava dei programmi ambientali portati avanti dalla società, tra cui un piano di tutela delle farfalle finanziato con 5000 dollari e pubblicizzato con annunci da milioni di dollari. Lo stesso anno in cui veniva lanciata la campagna “People do”, che gli valse il premio pubblicitario Effie advertising award nel 1990, la Chevron violava ben due leggi federali degli Stati Uniti, il Clean Air Act e il Clean Water Act, e rilasciava petrolio in rifugi dedicati alla fauna selvatica. Come è possibile che la gente non capisse immediatamente che si trattava di bugie? Oggi abbiamo sicuramente una maggiore consapevolezza di questo nuovo genere di truffa, eppure continuiamo a caderci…
Greenwashing in Italia
Il primo caso di greenwashing multato in Italia è quello della pubblicità ENI Diesel+, circolata tra il 2016 e il 2019, e sanzionata a gennaio 2020 per soli 5 milioni di euro. La sentenza cita la “diffusione di messaggi pubblicitari ingannevoli utilizzati nella campagna promozionale, sia relativamente all’affermazione del positivo impatto ambientale connesso al suo utilizzo, che alle asserite caratteristiche di tale carburante in termini di risparmio dei consumi e di riduzioni delle emissioni gassose”. Il cosiddetto biodiesel, infatti, di bio non ha nulla, né di rinnovabile, poiché contenente HVO (Hydrotreated Vegetable Oil) ed in particolare olio di palma grezzo, responsabile dell’inarrestabile deforestazione che sta distruggendo Indonesia e Malesia.
I marchi San Benedetto e Sant’Anna hanno pubblicizzato delle eco-bottiglie che di ecologico avevano solo il nome, così come fece la CocaCola con la sua linea Life alla stevia, o come la striminzita collezione in cotone bio di H&M e i tanti altri marchi della fast fashion, o il Mc Donald’s da quando ha deciso di non utilizzare più cannucce di plastica per il bene dell’ambiente… Incredibile, no? Eppure tutto ciò ha funzionato.
In quale modo queste società sono riuscite a suscitare interesse positivo in così tante persone? Vero o no, il messaggio arriva al pubblico grazie all’efficacia delle comuni tecniche di marketing, ovvero sfruttando il potere dell’attenzione selettiva. Si tratta della capacità della mente umana di scegliere quale dei numerosissimi stimoli seguire in modo inconscio, ovvero totalmente passivo; questo meccanismo deriva dal fatto che il nostro cervello è costantemente bombardato da infiniti input e, quindi, necessita di un filtro. Le scelte sono il risultato di molti fattori differenti tra cui cultura, formazione e interessi che caratterizzano una persona; in altre parole, formano dei target. Una campagna pubblicitaria vincente non fa altro che lanciare un messaggio semplice e accattivante al giusto target di persone, usando le loro emozioni.

Ma cosa succede quando emergono le bugie? La fiducia del cliente sensibile alla tematica crolla, come un palazzo senza fondamenta. Da un lato abbiamo una reazione positiva che si manifesta con l’abbandono del prodotto e, nei casi più gravi, con il boicottaggio del responsabile. Tutti possono scegliere di non acquistare più prodotti impattanti come quelli contenenti olio e grassi di palma (oggi provano a cambiare dicitura in etichetta, come se cambiasse qualcosa), così come tutti possono firmare petizioni e sostenere le battaglie portate avanti dai più motivati. Legambiente, ad esempio, lo fa ogni giorno e lo ha fatto anche contro la Eni, ma non sono certo i soli.

Nel caso DuPont, un’azienda chimica che per decenni ha inquinato tanto e impunemente, si è poi scontrata con la tenacia dell’avvocato Robert Bilott che in una battaglia legale decennale li ha costretti ad accettare una class action con un risarcimento danni di 671 milioni di dollari. Nel 2010, invece, gli attivisti dell’associazione The Yes Men hanno risposto al nuovo spot ambientale della Chevron “We Agree”, creando una finta versione della stessa campagna con un sito che comunicasse la verità.
Una nuova forma di intervento dei consumatori più attivi è quella del cosiddetto azionariato critico, ovvero divenire azionisti di grandi società con quote simboliche che, tuttavia, danno il diritto di partecipare alla vita delle società; in quanto comproprietari, quindi, si ha la possibilità di sottoporre all’attenzione del consiglio di amministrazione qualsiasi questione ambientale o sociale, come ha fatto l’organizzazione Follow This con la Shell, e di ottenere risposte.
Non tutti i consumatori, però, reagiscono positivamente alle verità nascoste dal greenwashing: una delle conseguenze più preoccupanti è che possa innescarsi una sfiducia diffusa nel vero settore green del mercato, arrestandone la crescita. Come fare, quindi, a sapere chi dice il vero o chi no?
In linea generale possiamo dire che basta documentarsi a fondo, non soffermandoci alle chiacchiere del venditore; oggi la facilità con cui possiamo trovare informazioni ci spiana la strada a ricerche approfondite. Ma qualche trucchetto, comunque, esiste e può facilitarci nella ricerca della verità. Innanzitutto è probabile che le categorie di servizi e merci che sono per definizione in contrasto con le basi della sostenibilità, abbiano qualche scheletro in più da nascondere; un altro campanello d’allarme è la trasparenza del marchio: quante informazioni sono fornite al consumatore? Per il settore della moda esiste una piattaforma online, anche in versione di app, che valuta la sostenibilità di un grandissimo numero di marchi, considerando l’impatto del prodotto su Pianeta, Persone ed Animali.