Oggi siamo quasi travolti dalla moltitudine di testi di narrativa ambientati in contesti alpinistici o montani in senso ampio. Ma non è sempre stato così. Fin dall’inizio l’alpinismo ha prodotto una montagna di letteratura, ma si è trattato di una letteratura imperniata sui resoconti delle proprie imprese. Resoconti più o meno tecnici, più o meno scientifici, più o meno emotivi, ma sempre resoconti di esperienze personali. La fiction (come iniziammo a chiamarla a cavallo fra Anni Ottanta e Novanta) vantava pochissimi titoli, erano una rarità. A tal punto che io, già allora, sostenevo che noi, noi “negletti” autori di narrativa alpinistica, eravamo tutti figli di Roger Frison Roch, cui si deve una delle pietre miliari del sub-settore (Primo di cordata, la cui edizione originale risale addirittura al 1941, ma tradotto in italiano solo negli anni Sessanta). A metà degli Ottanta, Mirella Tenderini, gran conoscitrice delle pagine di montagna, aveva però annusato che il sipario sulla fiction alpinistica stava per alzarsi del tutto, forse sarebbe stato strapparsi con violenza. Lo fa analizzando un testo francese del periodo e intervistandone l’autrice parigina. Parole profetiche (Carlo Crovella).
Per leggere un bel racconto di Anne Sauvy: https://gognablog.sherpa-gate.com/lexploit/.
Quale letteratura?
(recensione del libro di Anne Sauvy e intervista all’autrice)
di Mirella Tenderini
(pubblicato su ALP n. 17, settembre 1986)
«In un campo il fallimento della letteratura alpina è stato quasi totale: in quello del romanzo». Così scriveva nel 1950 Claire Eliane Engel nella sua ipercitata e ipercriticata Storia dell’alpinismo, nel capitolo dedicato alla letteratura. Aveva ragione la Engel, e a trentasei anni di distanza questa affermazione, almeno in Italia, può ancora essere considerata più che valida. Lo abbiamo detto altre volte e lo diremo ancora nel tentativo di individuarne le cause, indicarne le eccezioni (naturalmente ce ne sono), sensibilizzare un pubblico da troppo tempo disabituato alle rappresentazioni immaginarie della montagna. E questo perché la narrativa, più e meglio di altri generi letterari, esprime i bisogni, le tendenze, le idee dell’agire in montagna, ed è specchio della cultura e della mentalità che sottendono e alimentano tale agire.
La cultura alpinistica italiana, si sa, ben poche volte è stata capace di veri slanci innovativi dall’epoca del triste ventennio almeno fino al ’68 e dintorni. Nonostante i fermenti del movimento noto come Nuovo Mattino, i capisaldi culturali e letterari (parliamo sempre di narrativa) rimangono, tranne le solite e spesso esemplari eccezioni, imbrigliati in un tradizionalismo ormai improponibile per contenuti e modalità espressive.
Senza contare che il disordinato e rapido evolversi dell’alpinismo fa sì che alcuni modelli interpretativi fino a dieci anni fa considerati dissacranti e rivoluzionari, oggi possano sembrare scontati e retorici.
Così i lettori non credono più al prodotto letterario di narrativa, e gli editori si regolano di conseguenza. A scapito però di alcuni autori stranieri le cui opere meriterebbero maggior attenzione nel nostro Paese.
A differenza dell’Italia, infatti, in altre nazioni europee la situazione è abbastanza diversa. Forse perché al riparo delle influenze negative di un’egemonia culturale conservatrice, molti scrittori, specialmente di estrazione anglosassone e francese, riescono nonostante le difficoltà oggettive che impone il genere, a sfornare romanzi e racconti che, se non eccellono in valore letterario, sono almeno in grado di dimostrare una dignitosa capacità creativa e una certa mobilità stilistica. Torneremo sull’argomento.
Intanto, allo scopo di fornire al lettore uno strumento di comparazione diretta, ma soprattutto per provocazione, presentiamo in queste pagine un libro recentemente uscito in Francia per i tipi di Arthaud Montalba, Le jeu de la montagne et du hasard, della scrittrice e alpinista Anne Sauvy. Ci auguriamo che recensione, intervista all’autrice, e un racconto tratto dal libro, siano un sufficiente termine di paragone dal quale ognuno possa trarre le sue conclusioni.
Il gioco della montagna e del caso
Il gioco della montagna e del caso: il titolo, chiaramente derivato dalla famosa commedia di Marivaux Il gioco dell’amore e del caso è indovinatissimo per la novella che intitola questa raccolta di sedici racconti di montagna.
Due amici hanno in programma una salita al couloir Gervasutti, ma per una serie di contrattempi e di coincidenze fortuite perdono l’ultima teleferica per l’Aiguille du Midi e devono rinunciare. Il giorno dopo, una caduta di seracchi che spazza il couloir, farà sei vittime invece di otto grazie al gioco del caso, e la delusione e il rancore reciproco del giorno prima si trasformerà per i due in stupefatto sollievo. Il caso gioca anche in altri racconti, come in Candore-sur-Nant nel quale un albergatore, per attirare l’attenzione della stampa e quindi dei turisti sul suo paesino, si augura un incidente spettacolare sulla montagna che è l’unico modesto richiamo di Candore-sur-Nant: vent’anni dopo vedrà il suo unico figlio morire proprio su quella montagna. O nel racconto bellissimo Mon ami inconnu (Il mio amico sconosciuto) che inizia con «Si parla di premonizioni…» e continua così sommessamente attraverso una concatenazione di casi che il finale, ovvio a tutti gli effetti del racconto, giunge invece come una sorpresa. Anche in Le collectionneur (Il collezionista), il protagonista, un alpinista che ha provato una volta l’amarezza di non essere creduto si rifà collezionando sistematicamente prime salite solitarie in tutte le Alpi, fatte di nascosto e descritte minuziosamente in diari nei quali indica anche le tracce lasciate in parete a provare la veridicità delle sue imprese, sarà tradito dal caso, dopo la sua morte, e nessuno saprà ma niente di lui.
La vena predominante della Sauvy è quella del racconto fantastico: terreno insidioso, percorribile solo con la sicurezza di una tecnica impeccabile.
La Sauvy possiede questa tecnica, sia nell’impianto delle trame che nell’uso del linguaggio. È una scrittrice vera, insomma, e i suoi racconti di fantasia si staccano nettamente dai tentativi maldestri che ci capita di leggere di quando in quando. Le temps chevauché (Il tempo accavallato) è il meglio costruito di questi racconti fantastici. Il più divertente è La cordée de bronze (La cordata di bronzo) che narra una scappatella di Balmat e De Saussure, o meglio delle loro statue nella piazza di Chamonix, che approfittando del paravento di una palizzata eretta per ripulire il monumento e di quattro giorni di sospensione dei lavori, rifanno la loro salita al Monte Bianco duecento anni dopo, tra mille sorprese. Altri racconti rivelano un attento studio psicologico: l’alpinista che invecchia e non si rassegna al calo delle forze, l’ex-alpinista che trova mille scuse per non confessare il fatto molto semplice e umano che ha smesso di andare in montagna perché così gli è capitato nella vita… In tutti i racconti c’è una grande attenzione ai dettagli dello sfondo. I luoghi sono descritti con molta veridicità (si capisce che la Sauvy li conosce bene) e tutte le azioni sono verosimili. C’è qualche tentazione di sentimentalismo per fortuna sempre superata, e un senso dell’umorismo molto particolare, con il gusto per il paradosso e l’iperbole che ritroviamo nella breve novella L’exploit.
Anne Sauvy, una signora minuta con un gran sorriso
La narrativa di montagna ha una grande tradizione in Francia. Chi sono gli autori di questo raro ma affascinante genere, o meglio, come sono? Colgo l’occasione di un viaggio a Parigi per telefonare ad Anne Sauvy: «Conosce ALP?»: «Sì». «Vorremmo pubblicare un brano dal suo libro». «Che piacere!». «Vorrei anche intervistarla…». «Ma certo!».
Ed eccomi al quarto piano di una vecchia casa in Rue Stanislas, a due passi da Saint-Germain. Mi accoglie una signora minuta con un gran sorriso. Lo stesso sorriso mi rimbalza dalla parete di fronte moltiplicato da una serie di fotografie scattate in alta montagna. Sono immagini in allegro contrasto con le file di libri severamente allineati lungo le altre pareti. Anne Sauvy è una specialista di storia del libro, e tiene alla Sorbona lezioni sull’argomento. Ma è anche un’alpinista, e quando parla di montagna riesce a rappresentarla nei suoi aspetti più profondi e incisivi. Oltre Le jeu de la montagne, Anne Sauvy ha già pubblicato un altro volume di racconti di montagna, Les flammes de pierre, che le è valso due premi, in Francia e in Germania.
«La narrativa, il racconto di fantasia, è un mezzo che permette a volte di descrivere più efficacemente situazioni o emozioni che non la narrazione storica o persino autobiografica. Partendo da un archetipo di pura fantasia e aggiungendo descrizioni verosimili, si può arrivare a costruire immagini più “vere” per il lettore di quelle trasmesse col racconto di fatti realmente accaduti. Del resto nei libri storici o biografici si parla quasi esclusivamente di alpinisti e di salite, mentre nella narrativa si possono introdurre altri elementi… Il dolore di una madre che ha perso un figlio in montagna, per esempio, o l’ansia di una moglie che attende il marito impegnato in una salita… Sentimenti reali, che fanno parte del mondo complesso dell’alpinismo, ma che di solito non si descrivono».
Chiedo ad Anne Sauvy di parlarmi dei suoi modelli. A parte Frison-Roche, che è stato tradotto anche in Italia «e che non andava di moda citare, in Francia, perché non era considerato abbastanza intellettuale… Eppure i suoi romanzi sono costruiti ammirevolmente e ben scritti e il successo che ha avuto è più che meritato. Primo di cordata ha avuto moltissime traduzioni ed è ancora in libreria…», il suo scrittore preferito è Étienne Bruhl, mai tradotto e poco conosciuto anche in Francia. Mi dice che Bruhl ha scritto un romanzo poliziesco, Accident à la Meije, in cui l’ambientazione alpinistica gioca un ruolo primario; poi Pierre Moustier, che ha avuto un enorme successo con un libro intitolato La Paroi «però in questo caso si capisce che l’autore si è servito della montagna ma non è un alpinista perché vi sono degli evidenti errori di psicologia e persino di geografia e geologia che non sfuggono agli alpinisti».
E Bernard Amy, che è conosciuto anche da noi perché alcune sue novelle sono state tradotte e pubblicate sulle riviste italiane?
«Sta per uscire un suo libro di racconti, intitolato Le meilleur grimpeur du monde, dal titolo di un racconto già comparso sulle riviste (anche in Italia). È un caro amico, tra l’altro, e mi piace molto come scrive in modo completamente diverso da me. Io cerco di costruire degli intrecci, mentre lui, che è un poeta (ha scritto e pubblicato delle poesie) ha un approccio piuttosto descrittivo al racconto, di atmosfera… Direi che è un genere di narrativa che si avvicina alla poesia e alla filosofia».
«Io credo che la narrativa alpinistica debba avere un pubblico più vasto che non la classica letteratura sull’alpinismo, quella delle prime salite e delle spedizioni extraeuropee con le descrizioni ormai un po’ scontate della successione di avvenimenti fatalmente ripetitivi. In un romanzo o in un racconto sarebbe fuori luogo un linguaggio costellato di termini tecnici e persino un alpinista si annoierebbe a lunghe descrizioni di manovre di corda… Invece gli stati d’animo, le sensazioni e le emozioni di un alpinista possono essere benissimo comprese da un pubblico profano… Voi avete avuto un grande scrittore che ha ambientato in montagna alcuni dei suoi racconti più belli… ».
È vero, ma chi si sognerebbe mai di relegare Dino Buzzati nel novero ristretto degli “scrittori di montagna”? Mi pare di poter concludere che mentre per scrivere dei libri tecnici o storici di alpinismo occorra essere alpinisti (che sappiano scrivere), per scrivere della buona narrativa di montagna sia indispensabile essere scrittori (che sappiano di montagna).