Il pesce che mangiamo

Quasi la metà delle specie ittiche d’acqua dolce in Italia è a elevato rischio di estinzione (48%) e molte devono competere con specie esogene importate. Prevenire la distruzione di delicati ecosistemi e ripristinare quelli originari è possibile, ma occorrono progetti che assecondano la natura. Il ruolo dei consumatori è centrale.

Il pesce che mangiamo
(e il suo impatto sull’ambiente)
di Lorenzo Berlendis Davide Boni
(pubblicato su altreconomia.it il 5 maggio 2021)

I pesci non parlano. Non è una buona scusa per non metterci in loro ascolto. Ne va del nostro futuro, non solo alimentare. A livello globale, metà del pesce che mangiamo proviene da allevamenti e a breve supereremo la parità, in favore della piscicoltura. Attività spesso improntata su pratiche atroci, con ricadute pesanti sulla nostra salute, su quella delle acque, dei mari e non solo. Basta dare un occhio ai video che denunciano il “lato oscuro” della moda sushi come, ad esempio l’inchiesta di Animal Equality dedicata all’allevamento dei salmoni in Scozia: pesci estremamente richiesti dal mercato occidentale.

Il report “Dead loss” – curato dall’Ong britannica Just Economics – analizza i costi e le ricadute negative delle cattive pratiche di allevamento dei salmoni in Gran Bretagna. Nel corso degli ultimi anni la mortalità dei pesci è più che quadruplicata: dal 3% nel 2002 a circa il 13,5% nel 2019, solo negli allevamenti di salmone scozzesi. Circa un quinto di questi decessi è imputabile a infestazioni da pidocchi di mare, che si nutrono di pelle e muco di salmone, di fatto mangiando i pesci vivi.

Fattoria di allevamento dei salmoni in Tasmania © Rod Cuthbert, via Flickr

Ma una delle maggiori contraddizioni di questo sistema di produzione è che per nutrire i salmoni, pesci dalle innate abitudini migratorie, si utilizza un’enorme quantità di pesce selvatico, spesso pesce azzurro. Il sistema di allevamento del salmone sottrae così a virtuali acquirenti circa un quinto del pescato selvatico annuale mondiale, pari a circa 18 milioni di tonnellate l’anno.Il pescato viene utilizzato per produrre mangimi, principalmente farina e olio di pesce, di cui circa il 70% è destinato agli allevamenti ittici come quelli del salmone. La ricaduta sulla sovranità alimentare globale è drammatica: specie chiave come le sardine nell’Africa occidentale, indispensabile fonte proteica per gli abitanti dei Paesi affacciati sull’oceano Atlantico, sono ora in pericolo perché pescate principalmente per produrre mangimi. Inoltre, alimentandoci di specie apicali ancorché allevate, non facciamo altro che nutrirci di animali in cui le concentrazioni di inquinanti è altissima: la concentrazione di DDT in un pesce predatore, ad esempio, è oltre 40mila volte superiore a quella delle acque in cui vive.

Specie ittiche di acqua dolce a rischio estinzione
Tornando alle nostre latitudini ovvero alle acque dolci che ci sono più prossime, a proposito di equilibrio tra pesci selvatici, allevati o immessi ci confrontiamo con un problema nel problema: il ripopolamento ittico. Il nome è indice, di per sé, di una disfunzione: se vogliamo pescare e mangiare pesce dobbiamo immetterlo “artificialmente”. L’impronta umana sugli ecosistemi acquatici, compresi quelli interni, ha alterato equilibri millenari.

Nelle scorse settimane sono apparse sulla stampa -locale e non solo- numerose prese di posizione in merito al tema del ripopolamento ittico di singole specie nel Lago di Garda. Il punto di vista di enti gestori (Regione) è risultato spesso contrario a quello espresso dagli enti regolatori (governo). Mentre quello delle associazioni di pescatori (professionisti e sportivi) opposto vuoi a quello di Regione Lombardia, vuoi in altri casi a quello del ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali.

La legittima vis polemica, ancorché molto spesso smaccatamente partigiana, degli interventi ha finito però per nascondere il merito ecologico del tema centrale di tutto questo discorso, quando si parla di stock ittici, ripopolamenti ed ecosistemi acquatici. Tema che va ben al di là delle sorti di un singolo progetto riguardante l’alborella, la trota, il coregone-lavarello o altro. Si sta parlando della sesta estinzione di massa, in corso sul Pianeta; la cui prima e quasi unica causa è l’approccio umano alle risorse limitate del Pianeta.

Lo stato di conservazione dei pesci autoctoni in Italia, secondo quanto indicato nella “Lista Rossa” dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN) è particolarmente negativo e peggiore rispetto alle altre classi di vertebrati. Quasi la metà delle specie ittiche d’acqua dolce è a elevato rischio di estinzione (48%), mentre le percentuali sono del 36% per gli anfibi, del 19% per i rettili, del 29% per gli uccelli e del 23% per i mammiferi. I pesci, inoltre, presentano anche la maggiore percentuale di specie già estinte in Italia, pari al 4% del totale. Per la fauna di acqua dolce si prevede un tasso di estinzione del 4% per decennio a fronte di un tasso di estinzione dell’1% previsto per gli ecosistemi marini e terrestri. I laghi ed i fiumi lombardi, il Garda in particolare, sono parte integrante di questo terribile scenario.

Argomentare quindi a favore o contro il destino di un singolo pesce target e del progetto a sua tutela è irrilevante laddove si prescinda dalla valutazione complessiva degli impatti che ciascun progetto ha su ciascun ecosistema -in questo caso il Garda- alla luce di conoscenze scientifiche effettivamente validate.

Fiumi e laghi, ricchi di biodiversità e fragilissimi
Delle quasi 63mila specie di vertebrati censite sulla Terra, ben oltre la metà sono rappresentate da pesci (circa 32mila specie attualmente descritte). Le acque dolci coprono meno dell’1% della superficie terrestre, ma ospitano circa il 35% delle specie note di vertebrati. Nei sistemi d’acqua dolce lo sviluppo della biodiversità è favorito dall’elevato grado di isolamento che li caratterizza: un lago o un bacino imbrifero sono delle vere e proprie isole ecologiche. Fiumi, laghi, stagni e paludi siano ecosistemi fondamentali per la vita sulla Terra.

Ma questo relativo isolamento espone laghi e fiumi a notevoli rischi: sono gli ambienti al mondo più minacciati dai vari fattori di impatto antropico e il declino della biodiversità è in essi molto più rapido. Per questi motivi la gestione delle immissioni è un tema assai delicato e le recenti deroghe concesse dal ministero competente al divieto di “reintroduzione, introduzione e popolamento in natura di specie e popolazioni non autoctone nel territorio italiano” (all’art.12 del DPR 357/1997) rappresentano un rischio che potrebbe essere fatale per equilibri fragili, già abbondantemente minati. Non si tratta in questa sede di puntare il dito contro gli interessi dei pescatori sportivi, tantomeno di quelli professionisti che sulla pesca fondano le loro speranze di reddito. O sui decisori che subordinano le loro emanazioni al gradimento di questo o quel bacino di elettori.

Si tratta di dare alla complessa e delicata natura del tema risposte che guardino lontano, che facciano tesoro dei grossolani errori del passato e siano coerenti con qualsivoglia transizione ecologica che punti al ripristino della biodiversità, degli equilibri negli ecosistemi, per conservare la peculiarità specifica dei sistemi lacuali e fluviali subalpini frutto di una particolare vicenda geologica e biologica che ha assegnato loro un tasso di specificità assolutamente unico nel panorama europeo.

L’impatto delle specie invasive sui nostri laghi
La frammentazione dei bacini idrografici dettata da morfologia e grado di salinità, che oggi rende sommamente vulnerabili le acque interne, è il fattore che nel corso delle epoche geologiche ha favorito il pullulare di specie ittiche nelle acque dolci: in Italia, su 55 specie autoctone censite, ben 27 risultano endemiche o sub-endemiche nel bacino padano-veneto. Accanto a questo ingente patrimonio di biodiversità, nelle acque interne d’Italia vivono altre 62 specie alloctone ormai acclimatate. Sono insomma ormai di più le specie immesse negli ecosistemi italiani che quelle che negli stessi si sono sviluppate durante l’intero arco della storia della vita sulla Terra.

Fra tutti i vertebrati italiani, quello dei pesci d’acqua dolce è il gruppo che comprende più specie minacciate: ben 25 sulla cinquantina di quelle censite in totale. I pesci d’acqua dolce italiani perciò sono, loro malgrado, tra i maggiori protagonisti della richiamata sesta grande estinzione, estinzione causata direttamente dall’uso dissennato di suolo e acque da parte dell’uomo sommato all’introduzione, deliberata o involontaria, di specie alloctone che esercitano enorme pressione sugli ecosistemi.

L’introduzione di specie invasive negli ultimi cent’anni ha cambiato a fondo il paesaggio faunistico dei nostri laghi. Alcuni pesci, come il lavarello (un salmonide introdotto da fine 1800 nei laghi lombardi), sono naturalizzati e considerati ormai al pari degli autoctoni. Altri sono funzionali alla lotta biologica o economicamente rilevanti in acquacoltura, ma l’impatto delle specie aliene, la cui progressione si è accelerata, risulta alla lunga devastante.

Ripristinare gli equilibri è possibile: il “Progetto Lacustre”
Il più grande bacino italiano, il lago di Garda, fa parte di quell’imprescindibile 1% di acque dolci in cui è disseminata una storia naturale che ha generato e serbato una biodiversità straordinaria. Ne è esempio e simbolo il Carpione del Garda (Salmo carpio): salmonide di fondale ritenuto in passato pressoché estinto, è specie endemica per elezione, per quanto specie ad alto rischio di scomparsa. Pochi anni or sono, ha saputo ancora stupirci (è stato intercettato un magnifico esemplare in frega nel fiume Toscolano) ma in negativo perché trovare un carpione in fase riproduttiva, in un posto dove assolutamente non avrebbe dovuto essere, è un fatto gravissimo.

Se il carpione è passato indenne dalla “forca” dell’ibridazione e dell’inquinamento genetico da parte di altri congeneri immessi è grazie alla sua autoecologia che prevede strette barriere riproduttive che di fatto gli impediscono di entrare in contatto con altre specie del genere “salmo”. Si tratta a nostro avviso di un altro aspetto connesso a comportamenti aberranti derivanti dal processo in corso di addomesticamento della specie.

Il Toscolano, torrente tributario del Garda, è destinatario del “Progetto Lacustre” che, con un intervento di “ridotte” dimensioni anche finanziarie, ha mostrato inoppugnabilmente quanto sia a portata di mano il processo di ri-naturalizzazione e inversione di tendenza. Grazie alla convergenza di soggetti diversi: pescatori e decisori, associazioni e titolari di concessioni, consorzi e cittadini tout court sono state realizzate le scale di risalita che stanno permettendo alla trota lacustre di riprodursi naturalmente in misura numericamente considerevole.

Milioni di avannotti (i piccoli dei pesci che hanno superato la fase larvale, ndr) che costituiscono e costituiranno un pezzo del futuro del lago, dei suoi equilibri ecosistemici, delle economie dei pescatori e dei gardesani. La prepotente rigenerazione di cui sono ancora capaci gli ecosistemi merita di essere intesa e sostenuta. L’incremento, misurato e verificato in quasi un decennio di ricerca applicata, della riproduzione dei selvatici senza ricorrere ad attività ittiogeniche, ma “assecondando” la natura e ripristinando corrette condizioni ambientali è la prova che altre strategie possono essere attuate per il supporto degli stock ittici. E, di converso, che fornire alimenti di alta qualità organolettica ma anche ambientale e sociale è assolutamente possibile. Approvvigionarci di ottimo pesce pescato, che dia economie a pescatori e all’indotto, che permetta i cicli di rigenerazione agli ecosistemi è tutt’altro che una pia speranza.

La comunità di pratica che si è costituita nel corso del “Progetto Lacustre” ha fissato un approccio di successo: cogente nei modi, coerente e concreto nei risultati. Con la stessa modalità, ossia la costituzione di una nuova comunità di pratica, è nato il successivo progetto “Gardiian”, teso a replicare ed estendere progressivamente i benefici effetti dei servizi ecosistemici a tutta l’area subalpina lombarda, cominciando da processi di rinaturalizzazione operati con successo su tributari, a torto ritenuti “minori”. Entrambi i progetti hanno avuto impulso dai fondi messi a disposizione da Fondazione Cariplo.

Le responsabilità dei consumatori per la tutela degli ecosistemi
Grazie alle tecnologie genetiche siamo oggi in grado di apprezzare differenze fra specie che anche solo 15 anni fa non sarebbero nemmeno state rilevate. Riteniamo che questa accresciuta capacità di discernimento scientifico che connota la contemporaneità debba accompagnarsi una proporzionale capacità di discernimento in ambito gestionale. Se un tempo, infatti, una trota era solo una trota, oggi abbiamo il dovere di saper distinguere fra una trota alloctona di provenienza atlantica come la Fario, Salmo trutta, e le popolazioni naturali di trote mediterranee ovvero i ceppi nativi italiani, su tutti la Marmorata, Salmo marmoratus, pregiata specie autoctona dei bacini subalpini Nord italiani e sloveni.

Le massicce introduzioni di campioni di origine atlantica sono state eseguite in tutti i fiumi europei. Questa pratica ha modificato profondamente la struttura genetica delle popolazioni autoctone di questo complesso di specie, rendendo estremamente difficile l’individuazione di ceppi indigeni autoctoni o il naturale areale di distribuzione. Altro considerevole aspetto problematico rappresenta l’introduzione della Trota Iridea, con buona pace dei pescatori dilettanti e no, specie californiana a rapido accrescimento che spopola in fiumi e banconi dei supermercati. Qui il tema è la competizione ecologica, di genere diverso dai “salmo” non si ibrida con essi, ma interferisce pesantemente con la loro possibilità di sopravvivenza e perpetuazione. La trota mediterranea, Salmo ghigii, è considerata una specie vulnerabile in Italia ed in pericolo di estinzione, inclusa nella lista rossa come “prossima alla minaccia” a causa di prelievi d’acqua, pesca eccessiva e introduzione di trote non autoctone, con conseguente ibridazione e competizione.

Introdursi nell’estrema inestricabilità della materia rischia, quali consumatori, di farci perdere la bussola. Riconoscere e distinguere però, di fronte a un pescatore o sul banco di una pescheria, una trota selvatica da una allevata, è importante. Interrogarsi sulle condizioni nelle quali è avvenuto il processo di accrescimento soprattutto in riferimento all’alimentazione e qualità delle acque, è fondamentale. Determinare una domanda maggiore di pesci autoctoni e pescati o allevati in condizioni ottimali è parte della soluzione del problema della transizione ecologica e del ripristino di habitat ed ecosistemi, diversamente i nostri comportamenti diventano parte del problema.

Il discorso su trote e salmoni(di) vale per qualsivoglia specie che non può essere reintrodotta con criteri che nulla hanno a che vedere con ciò di cui siamo ormai consapevoli. Non esistono “colpe” passate a carico di singole categorie o singole istituzioni. Nessuno ha il dovere di redimersi, poiché gli strumenti del passato non consentivano di apprezzare ciò che siamo oggi invece in grado di comprendere in modo abbastanza agevole. Ma se non esistono “colpe passate” esistono tuttavia responsabilità presenti che ogni soggetto ha il dovere di assumersi nel proprio ambito (sia esso ente, istituzione, associazione) per evitare che la superficialità o l’interesse di parte si trasformi, stavolta sì, in colpa futura, morale, politica o giuridica che sia. La resilienza degli ecosistemi non può quindi diventare la scusa in grado di alimentare sciatterie o propaganda il cui prezzo verrà pagato dalle generazioni future. E da queste dobbiamo partire con progetti educativi specifici e diffusi per creare nuova consapevolezza e accresciuto senso di responsabilità a lungo termine. Responsabilità verso tutto il vivente di cui siamo parte integrante.

Lorenzo Berlendis, docente in pensione, si è occupato di progetti di rigenerazione territoriale, anche come dirigente di Slow Food Italia. È socio fondatore di Generazioni Future Mi. Movimento per i Beni Comuni.

Davide Boni, attivista gardesano.

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