di Paolo Bursi
Marzo 2020. Emergenza Coronavirus. 15° giorno di isolamento. Le mie giornate si alternano tra studio, lettura ed allenamento. Sono riuscito a fare 1000 metri di dislivello sulla parete nord di casa mia. Faticosa, ma ne è valsa la pena per la crosta cementizia trovata nella seconda parte, un ottimo allenamento per la neve primaverile che probabilmente per quest’anno il Coronavirus non ci farà toccare. Per quanto difficile, questa è la cosa giusta da fare, preserviamo la salute per quanto possibile.
Riflettendo sulla situazione presente mi pare incredibile come la maggior parte dei politici, salvo alcuni più illuminati, non considerino minimamente i pareri degli esperti e dei ricercatori fino a quando non si trovano in “braghe di tela”.
Si tratta di una caratteristica che è sempre stato presente nell’uomo e, purtroppo, ci sarà sempre. Connesso a questo è il concetto dell’utilità della prevenzione e di quanto poco sia considerata dall’uomo.
Facciamo qualche esempio. Quante persone sono consapevoli che l’alcol e il fumo facciano male e, anzi, siano tra i fattori di rischio più influenti per la genesi di patologie cronico-degenerative (la piaga sociale più importante del nostro tempo)? Tantissime. Quante sono quelle che effettivamente riducono il loro consumo? Pochissime, soprattutto per motivi culturali.
È drammatico che molti medici, che dovrebbero essere i dispensatori di nozioni di prevenzione e di raggiungimento della salute, non solo motivano poco la popolazione alla riduzione del consumo, ma addirittura sono essi stessi consumatori di questi fattori di rischio.
Sia chiaro che non è un bicchiere di vino alla settimana che ti uccide, però se ascolti gli otorinolaringoiatri, nessuno di loro fuma e lo stesso dicasi in riferimento all’alcol per chi si occupa di trapianto di fegato.
In effetti, questi ultimi, vedendo ogni giorno cosa comporta l’uso e l’abuso di queste sostanze, sono scoraggiati al loro consumo. Essendo un problema che si manifesta nel medio-lungo termine, la popolazione non se ne può rendere conto direttamente e non si preoccupa delle conseguenze delle proprie azioni.
Per lo stesso motivo le amministrazioni sono spesso cieche e difficilmente riescono a vedere che le manovre che compiono non devono essere valutate per il ritorno economico nel breve termine, ma devono essere finalizzate e proiettate verso un’ottica nel lungo termine.
Non voglio scadere nel banale, queste affermazioni erano state fatte più di mezzo secolo fa da L. Einaudi.
Fa ribrezzo leggere in un articolo del 09-02-2020, edito su “La Stampa” e riproposto da “Gognablog” il 25-03-2020, che A. Corsini -assessore uscente al Turismo della Regione Emilia-Romagna- abbia affermato: “Non si è mai vista così poca neve come quest’anno, eppure le piste sono tutte aperte e questo weekend c’è il pienone. Secondo noi questo modello è sostenibile anche in prospettiva futura; negli ultimi cinque anni abbiamo investito 15 milioni per tutti gli impianti di risalita». Questo riferito all’area sciistica di Sestola (quota 1020m) la più grande area dell’Appennino.
“I climatologi sono concordi nel sostenere che bisogna fermare gli investimenti in stazioni invernali al di sotto dei 1500 metri, se non sotto i 1800. Tutto questo in un quadro che vede l’aumento costante delle temperature in misura doppia in montagna rispetto alla pianura” afferma a gran voce Legambiente da anni, in linea totalmente opposta.
Mi sorge spontaneamente la domanda su come faccia l’assessore ad affermare che il modello sia sostenibile, ma soprattutto come faccia una persona ad essere così miope da andare completamente controcorrente rispetto a quello che dicono gli scienziati del settore.
L’assessore continua: «I contributi pubblici sono decisivi» e quando viene domandato se c’è qualche progetto anche per il turismo estivo, l’attenzione viene riportata subito su quello invernale: «Nei prossimi impianti, le seggiovie saranno attrezzate per portare le biciclette, in modo che servano anche per il turismo estivo, ma continueremo a potenziare l’innevamento artificiale: grazie a ciò, sia a Sestola sia al Corno alle Scale quest’anno riusciamo a limitare i danni di una stagione finora senza nevicate».
Dopo aver letto questo intervento non ho potuto che rabbrividire e la situazione è simile in altre aree non solo dell’Appennino ma anche dell’arco Alpino, italiano e non.
Fino a quando le amministrazioni saranno di così corte vedute a pensare che l’unica attività che si possa fare in montagna in inverno sia lo sci “da discesa”?
Io adoro sciare, ma se non ce n’è la possibilità non ci si deve intestardire nel volerlo fare ugualmente, andando a creare un danno ambientale e uno spreco di investimenti.
Che l’innevamento artificiale sia dannoso è grandemente confermato dalla letteratura scientifica, questo consumo è insostenibile sia dal punto di vista ambientale che dal punto di vista economico; basti pensare che quasi il 100% dei comprensori riceve fondi pubblici per garantire il bilancio positivo delle strutture. Uno degli unici impianti di risalita attualmente in positivo è la “Funivia di Malcesine”, che è aperta tutto l’anno, ma raggiunge il suo picco di attività durante la stagione estiva.
Legambiente ha calcolato che per innevare una pista di 1600 m di lunghezza sono necessari 20.000 metri cubi di acqua e 136.000 euro per ettaro di pista. Al consumo energetico e di risorse idriche, deve essere sommato anche l’inquinamento acustico e l’inquinamento atmosferico diretto, provocato dall’azione dei mezzi spazzaneve e dei camion per il trasporto della neve.
La neve artificiale crea danni ecologici non indifferenti: infatti è più pesante di quella naturale e ha una minore capacità di isolamento termico, determinando congelamento e asfissia del suolo, con conseguente deterioramento dell’attività vegetativa e maggior suscettibilità all’erosione da parte del pendio.
La sintesi della neve rende anche necessario l’utilizzo di una serie di additivi che servono per rendere la neve più facilmente producibile ma vanno a discapito della flora sottostante che, dagli studi effettuati negli anni, ha dimostrato una progressiva perdita di biodiversità.
Lo scombussolamento climatico, dovuto sicuramente anche all’azione antropica, è la causa principale della produzione di neve artificiale e il continuo innalzamento della temperatura globale non può far altro che rendere progressivamente sempre più inutile anche l’innevamento programmato, che non fa altro che contribuire ad alimentare il circolo vizioso del danno climatico-ambientale.
È chiaro che il gioco della neve artificiale non è sostenibile, non lo è mai stato. I professori di Economia dell’ Università di Trento dicono che da quando c’è l’innevamento artificiale i costi dello skipass sono aumentati di più del 40% e questo ha ridotto progressivamente gli utilizzatori degli impianti, con un calo annuale pressochè costante.
Dall’altra parte però, questo ha fatto crescere sempre più il numero degli sci-alpinisti, sciatori che vogliono godere le bellezze della neve vera, disposti ad immergersi completamente nella dimensione montagna.
A proposito di questo, bisogna riuscire a cambiare il proprio comportamento anche nel vivere la montagna. Ormai è dimostrato da numerosi scienziati e climatologi che siamo ad un punto di non ritorno per quanto riguarda il clima.
Un paragone efficiente potrebbe essere la situazione di un malato di BPCO (Broncopneumopatia Cronico Ostruttiva) a cui viene caldamente consigliato di smettere di fumare e cambiare il proprio stile di vita, non per arrestare la patologia, ormai presente ed in continua evoluzione, ma per rallentare il più possibile il decorso della malattia, migliorando la qualità della vita e allungandone la speranza.
Così la popolazione – tutta ed in particolar modo chi vive e frequenta la montagna – deve fare il grosso sforzo di cambiare il comportamento che ha avuto fino ad adesso nei confronti dell’ambiente naturale, non tanto per farlo guarire, ormai missione impossibile, ma sicuramente per rallentare la prosecuzione dell’alterazione climatica. Le conseguenze, nel caso non venissero cambiati gli atteggiamenti sarebbero tra le più varie, ma conducono tutte alla morte dell’ambiente e dell’uomo.
Riflettendo su questi argomenti mi viene in mente il libro “Metà della Terra” di E.O. Wilson, un entomologo premio Pulitzer che ha studiato gli insetti in giro per tutto il pianeta; egli nota come tutti gli animali riescono a vivere in equilibrio con l’ecosistema in cui si trovano, a parte uno: l’uomo. La soluzione dell’autore è di dedicare metà della Terra alla natura e la restante parte agli uomini.
Umilmente, immagino che dobbiamo riuscire a fare perno sull’educazione delle persone; d’altronde se i livelli di prevenzione e cura in medicina sono di molto migliorati, idealmente si possono migliorare anche quelli ambientali. Il miglioramento non si può vedere subito, come è logico che per dimagrire non basti una settimana, così per risolvere la problematica ambientale bisogna modificare progressivamente le abitudini.
Per quanto riguarda lo sci, si deve entrare nell’ottica che ormai lo sci a bassa quota non è un’attività sostenibile da nessun punto di vista. Non si può più garantire la stagionalità dell’attività perché ormai le nevicate e il clima non sono tali da garantire questa possibilità.
Bisogna capire che la montagna nei mesi invernali non vuol dire solamente sci. Prima si accetta questo e prima si potrà gioire per il cambiamento avvenuto, per la possibilità di poter essere non più dipendenti da fondi pubblici e per un graduale di ripristino di un ecosistema meno sofferente nella flora e nella fauna montana.
In generale, l’innevamento artificiale deve essere bloccato per gli irreparabili danni che crea. Bisogna cominciare a considerare che lo sci, come lo si conosceva nel vecchio secolo, sia una cosa da dimenticare.
Un obeso in terapia non può pensare di poter mangiare le stesse cose che mangiava prima di entrare in cura. Se si vuole guarire, qualsiasi sia il malessere, occorre fare delle rinunce, ma le rinunce ”ambientali” non sono e non devono essere dolorose, ma al contrario permettono di godere di altre esperienze e altre avventure. Se si vuole guarire, sparare la neve equivale a mangiare senza tenere conto della dieta terapeutica prescritta dai curanti; se non cade la neve molto semplicemente non si scia. Come se piove non si può stendere in giardino.
Il non sciare non limita la possibilità di poter andare in montagna, ma permette anzi di viverla in altra maniera, forse addirittura più piena: penso, tra le tante attività, alle camminate, al trekking, alle ciaspolate, alle pedalate, alle arrampicate… Questo ideale di montagna porterebbe con sé anche una garanzia per tutta la popolazione che vive con lo sci in inverno di poter lavorare ugualmente con le altre attività.
Riuscendo ad attivare questi comportamenti si può preservare al meglio l’ambiente montano e, spero, non solo quello. Per potere mettere in azione questo sistema serve un’azione incrociata sia dalle amministrazioni che dal pubblico, altrimenti si è paralizzati con il rischio di cominciare a muoversi troppo tardi.
Se la storia di questa quarantena ci può insegnare qualcosa è che la prevenzione è la migliore cura e, nonostante sia un concetto detto e ridetto, comunque non è mai abbastanza presente nelle nostre vite. Quindi è meglio agire fin da subito con piccole azioni, ma costanti, che dover agire in un secondo momento con azioni durissime e difficilmente risolutive. Le piccole azioni nel giro di poco tempo diventano la normalità.
Sono sicuro che sarebbe sufficiente un piccolo passo al di fuori della propria zona di comfort per riuscire a godere ancora delle bellezze che ci offre la natura.