Ex membro delle forze speciali, Luca Fois ha intrapreso l’impresa di scalare le 86 vette oltre i 3000 metri delle Dolomiti in un’unica progressione documentata, per una sfida fisica e mentale.
di Sara Canali

Una sfida personale che unisce l’aspetto umano a quello documentaristico: è questa l’avventura, e insieme l’impresa, che sta tentando Luca Fois, con l’obiettivo di scrivere una nuova pagina nella storia dell’alpinismo dolomitico. Dopo 20 anni nelle forze speciali, Luca si è posto l’obiettivo di salire tutte le 86 cime oltre i 3.000 metri delle Dolomiti in un unico push, un viaggio che rappresenterà il primo tentativo integralmente tracciato e destinato alla registrazione ufficiale come record, nel rispetto dei criteri di documentazione e continuità richiesti dal Guinness World Records. Oltre alla sfida fisica, l’idea è anche quella di raccogliere dati e racconti legati alle cime e al territorio. Fois affronterà le 86 cime con un piccolo team a rotazione, formato da ex commilitoni, alpinisti e amici: persone che, come lui, hanno vissuto un cambiamento e vogliono contribuire a qualcosa di collettivo. L’obiettivo è rimanere quanto più possibile in quota, concatenando le vette in successione e adattandosi con flessibilità alle condizioni, dormendo in rifugi, bivacchi o anche all’aperto, sempre nel pieno rispetto della montagna e dei suoi ritmi. Al suo fianco, o meglio, ai suoi piedi, ci saranno le scarpe di Asolo, che ha deciso di sposare l’impresa. Abbiamo intervistato Luca Fois in un giorno di pausa, causata dal maltempo durante il tentativo di ascesa alla Marmolada.
Ci racconti che progetto è “86 Dolomites”?
È un progetto con cui voglio raggiungere tutte le 86 cime delle Dolomiti superiori ai 3.000 metri nel minor tempo possibile. Ora sono alla quindicesima vetta conquistata (era mercoledì 9 luglio, ndr), anche se il meteo incerto di questa estate ci sta costringendo a cambiare i programmi in corsa. Altre persone prima di me le hanno conquistate tutte e 86, ma nessuno in one push, ovvero in un’unica stagione. Se le cime sono vicine, ovviamente, non torniamo a valle, ma le concateniamo il più possibile. Attualmente sono io a concludere tutte le cime, ma con me ci sono altri ragazzi che mi seguono come team logistico e mi accompagnano quando il grado supera il terzo, per questioni di cordata.

Come è nata questa idea?
Ho 40 anni e per 20 ho lavorato nelle forze armate. Sono stato congedato a causa di lesioni riportate e non volevo trovarmi a lavorare nell’ambito della sicurezza, nelle scorte o all’estero. Desideravo restare vicino alla famiglia. È stata mia moglie a spingermi a prendermi del tempo per fare qualcosa che mi piacesse davvero. Sono sempre stato un grande appassionato di montagna e di outdoor, quindi mi sono ritagliato una sfida. Sicuramente non facile, anche perché queste cime, per me, sono tutte una prima volta.
Quanto conta per te il raggiungimento dell’obiettivo Guinness?
Questa impresa resta un mio obiettivo personalissimo, per dimostrare a me stesso che tutto ciò che abbiamo pianificato e testato durante quest’anno e mezzo, ma anche gli allenamenti e gli sforzi, hanno avuto un senso. Che venga registrato, riconosciuto, accettato o meno, o che piaccia alle persone, mi interessa poco. Quello che mi gratifica è la comunità che abbiamo creato per fare tutto questo, i ragazzi che si danno il cambio per venire a supportarci, l’ambiente che ne è nato. Non siamo atleti, siamo appassionati che, per amicizia e per amore condiviso della montagna, stanno provando a fare qualcosa di importante, insieme.
Quanto misurate il rischio?
Esiste un’equazione precisa tra il valore della missione e il rischio del personale, e quest’ultimo prevale sempre: nessuna cima vale un infortunio. Non essendo Guide Alpine, appena abbiamo il sentore che qualcosa non va, non rischiamo. Ho dei figli a una moglie a casa che mi aspettano! E devo dire che stare lontani da loro, in fondo, è la parte più difficile di tutta la spedizione.
