Sci estroso – 4

Sci estroso – 4
di Marileno Dianda
(pubblicato da CDA nel 2001)

(continua da https://www.sherpa-gate.com/grandi-storie/sci-estroso-3/)

Parte sesta

L’anno successivo (1988) cominciò alla grande. Già in gennaio, io e Marco Castellani scendemmo il canale più impegnativo (50° continui) sul versante sud-sud-est del monte Gomito. Lo chiamammo Canale della Solitudine. L’anno avanti, invece, avevamo sceso quello più a sinistra – guardando da Campolino (50°/45°) – battezzandolo Canale dei Filosofi.

Il Canale della Solitudine fu sceso di sera – veniva buio – dopo un’intera giornata trascorsa sulla Rossa di Campolino. Era gelato, da cima a fondo; e girare gli sci fu impressionante.

Quando l’addetto alla cabinovia – rimasto lì dopo l’orario di chiusura – ci vide spuntare, cominciò ad apostrofarci da lontano in un modo che, anche a distanza minore, non capimmo bene se voleva esprimere ammirazione o rimprovero. “Matti… siete matti…” – diceva.

Quel giorno rischiammo davvero molto, sia per la qualità della neve che per le rocce affioranti.

Alcuni soci fondatori del gruppo della Focolaccia

Le piste di Campolino e i canali del Gomito erano diventati la nostra palestra. Riuscivamo a fare anche oltre venti Rosse al giorno, abbinandole a entusiasmanti uscite nel bosco. In quel piccolo comprensorio sciistico non c’era mai affollamento. Le piste erano spesso mal battute e sulle gabbie bisognava saltarci all’arrembaggio. Là, però, ci conoscevano tutti: il Tavella, l’Enrica, gli addetti agli ski-lift. Ci coccolavano e ci consideravano fuori dei testa. Dal Campone si sentiva l’odore di nafta del motore che faceva andare i trabiccoli, mescolato a metà giornata con quello della cucina del rifugio, e ci si poteva rivolgere come a compagni verso i monti saliti in altre occasioni. La cabinovia del Sestaione, poi, ci portava quasi in vetta al Gomito da dove potevamo scendere i canali del versante sud-est.

Quello centrale – il più facile – (detto delle Streghe) l’abbiamo fatto anche diverse volte in una giornata. Il Canale della Solitudine, al contrario, è stato sceso da noi solo una volta, e non è stato ripetuto nemmeno da altri. Come molti nostri itinerari. Perché, oggi, se alcuni sono diventati classici, la maggior parte non ha più visto nessuno. Non è, evidentemente, che tra le nuove leve manchino elementi all’altezza; ma la riduzione della montagna a palcoscenico di un gioco ha finito per far considerare questo modo di praticarla, il confronto romantico col rischio e il disagio emotivo che ne derivano, qualcosa che non le riguarda.

Quell’anno eravamo diventati degli stakanovisti. Nelle settimane successive, scendemmo il canalino sud-ovest dalla vetta delle Porraie (lunghi tratti a 45°, poi 40° – Castellani, Costi, Dianda), oltre al canale ovest-nord-ovest e il versante nord-ovest del Vecchio (40°/45° – Dianda, Costi, Rinaldi e il suo scudiero Toti).

Sergio Rinaldi, fiorentino, è assai più anziano non solo di Marco Castellani e di Riccardo Simoncini, ma anche di me e Sandro Costi. A un’età in cui la maggior parte dei padri di famiglia circola per casa in pantofole, lui ruzzava sui monti come un puledro da domare. Pittore dilettante – nel senso che è un artista nel fare quadri e non nel venderli – in montagna adopera le mani come badili.

Gagliardo di vecchio taglio, Sergio è un alpinista di quelli d’una volta. Vanta un elenco nutrito di ascensioni sulle Alpi, anche di elevata difficoltà, e ancora oggi non ha paura di nulla. È difficile stabilire se in lui predomina il coraggio o la spensieratezza, perché prende i pericoli così come vengono. Refrattario a qualunque apprensione, pare che con l’esperienza abbia trasformato le molteplici insidie della montagna in forze al suo servizio, dato che, fino in fondo, non si potranno capire. Di origini genovesi, è noto per la ligure parsimonia. Si narra che, una volta, in piena bufera a bordo di un aereo, abbia cercato di rassicurare i compagni dicendo che, anche precipitando, non c’era da preoccuparsi “… perché tanto l’aereo non è mica nostro…”. Qualcuno però lo definiva “losco… tristo figuro”. Il fatto è che le sue battute e i suoi scherzi facevano inorridire i benpensanti. Una delle burle preferite era quella di stiracchiare la barba a tizi incontrati magari per la prima volta. O di circolare nei rifugi, la sera prima di cena, con due salsicciotti pendenti dall’apertura dei calzoni.

Le sue più rappresentative discese sono in Apuane, montagne adatte alla sua personalità: Canale Cambron al Cavallo, Canalino nord-est ai Denti della Pania Secca, Canale nord-nord-ovest agli Zucchi di Cardeto.

La prima volta che lo incontrai stava scendendo lungo le pendici del Cimone. Era l’inverno del 1977.

Gli vidi fare una cosa, sul momento incredibile. In fondo a una radura, c’era una recinzione di filo spinato, alta almeno un metro. Lui continuò in serpentina, come se l’ostacolo non esistesse. Quando gli fu vicino, puntò i due bastoncini e, ruotando sopra il reticolato con uno scavalcamento sci-ai-piedi, atterrò dall’altra parte. Può darsi che la mia scarsa tecnica di allora e il tempo trascorso abbiano dilatato il ricordo, ma le cose andarono più o meno così.

Fu nel Gruppo del Prado che, nel 1988, io e Alessandro Costi riuscimmo a realizzare una delle più importanti discese, non solo di quella stagione, ma di tutta la nostra carriera di sciatori sul ripido. In prima assoluta, il 13 marzo, scendemmo il Canale sud-sud-ovest del Castellino, concatenandolo nella stessa giornata con il Canale della Clessidra sulla parete nord-est del Monte Prado.

Il Prado è una montagna massiccia che s’alza in una zona remota e solitaria. Dalla Toscana viene raggiunto per valli abbandonate, tra le più isolate di tutta la Garfagnana. Il profilo, specialmente dalla vetta principale al Castellino, è tozzo, bloccato nelle spianate sommitali. Insieme a quello del Cusna fa pensare a una balena alla deriva ma con gli sfiatatoi ancora fumanti, se il vento solleva mulinelli di neve. In altre giornate, invece, le nuvole si sfilacciano sul dorso, fluendo e ricadendo come onde. Durante i non frequenti periodi di bel tempo, specialmente quando l’aria luccica immobile, queste montagne, simili a colossi privi di insidie, galleggiano dentro vastissimi silenzi. D’estate scampanii lontani di greggi ne traversano la malinconia che solo lo struggersi di un’anima può capire fino in fondo e non dimenticare.

I punti culminanti del Prado e del Castellino non sono facilmente localizzabili in caso di nebbia. La cima del secondo è una protuberanza di pochi metri sopra un largo tavolato. In certe zone, però, come se un terremoto ne avesse schiantato la mole, i versanti sprofondano con balze rocciose e canali. Il canale sud-sud-ovest del Castellino misura quasi 600 metri di dislivello. È mal definito, cupo e all’apparenza impercorribile. In basso, si perde tra fiumane e foreste dove, più o meno forte a seconda del freddo, scorre il fragore di molte acque.

Quando io e Sandro l’abbiamo sceso con gli sci non era stato mai percorso nemmeno a piedi. Lo chiamammo Canale del Poeta, in ricordo di Busti Luigi, pastore illetterato che, nel secolo scorso, scolpite su una pietra, lasciò parole dettate da Dio.

Giungemmo sul Prado per la via solita, scavalcando il Cella e il Vecchio. Raffiche di vento e nuvole gelide ci accompagnarono dalla partenza — la mattina alle 8.30 dal Casone di Profecchia – fino alla sommità. Nei giorni precedenti era nevicato in maniera tempestosa e il crinale si snodava rivestito di ghiaccioli e, nelle zone riparate, sotto estese “gonfie” di polvere. Ci trovammo in cima con tutto l’umido addosso e, nonostante la sgroppata, belli intirizziti. L’idea di fermarci a mangiare un boccone non ci passò neanche per la testa. Dalla vetta ci dirigemmo per pochi metri verso lo Sperone nord, fino all’imboccatura del canale più lungo e ripido della parete nord-est.

La partenza ci fece venire la pelle d’oca, per la nebbia e la presenza di una cornice aggettante su terreno molto inclinato (55° per più di 50 metri di dislivello).

“Quel giorno, mentre ci apprestavamo a scenderlo, un po’ preoccupati per la fitta nebbia che non ci permetteva di vedere ciò che seguiva il primo vertiginoso salto, due alpinisti, armati di ramponi e piccozze, avevano appena terminato di risalirlo in “piolet-traction”. Ci guardarono meravigliati e noi fummo certo lusingati dell’attenzione di quella piccola platea (22)”.

Scelsi il punto dove la cornice sporgeva di meno e cercai di demolirla un po’ battendo gli sci. Lì per lì mi parve di tirarmi dentro un pozzo. Poi mi lasciai andare ed effettuai la prima curva. Guadagnai molto terreno prima che le lamine “agguantassero”. Fu un tempo lunghissimo e credetti d’inabissarmi. Provai un’impressione simile a quella di quando, da un molo, ci si è appena tuffati nell’acqua. Subito mi fermai, e respirai; capendo che il più era fatto. Le altre curve non dettero il senso di sprofondamento della prima.

L’inclinazione si mantenne, poi, sempre a 50° fino a un restringimento che superammo con attenzione su terreno di nuovo molto ripido (55°). Qua e là cominciarono ad affiorare lastre di ghiaccio che non permisero di allentare la tensione. Incontrarne una senza esserci preparati, nascosta magari da uno strato di neve fresca, significava farsi a dritto e ribaltando tutto il pendio; ammesso e non concesso che prima non ci fossimo schiantati contro qualche roccia emergente o quelle laterali. Ecco perché l’attimo in cui s’intuisce dove, dopo la curva, dovrà derapare – e il meno possibile – lo sci a valle è decisivo.

Successivamente, oltre una nuova strettoia, le difficoltà diminuirono (40°) scemando sui pendii della Valle dei Porci. Il dislivello del canale è di circa 300 metri, come quasi tutti quelli fino ad ora descritti. Probabilmente, la nostra è stata la prima discesa sciistica ma, rispetto agli altri itinerari, ci mancano considerazioni e verifiche più precise al riguardo.

In seguito, raggiungemmo il Passo di Lama Lite e, nella nebbia, la vetta del Castellino. Continuammo da lì verso la Foce fino a trovare l’imbocco del canale sud-sud-ovest. Le conche della Bargetana erano arrotondate da tantissima neve. Le traversammo alla svelta; giù per una gobba e su per l’altra. La “calaverna” sugli alberi incrostava le boscaglie sottostanti, cancellandole insieme a una caligine che rabbrividiva nel gelo.

Noi, ormai, eravamo scatenati. Non avevamo mangiato quasi nulla ma avanzavamo come se qualcuno ci stesse inseguendo. Rompevamo la coltre inoltrandoci nell’aria fosca, simili ad anime erranti, quasi che un’apparizione o tormenti della nostra coscienza ci lusingassero perfidamente a procedere. Ci scambiammo alla bell’e meglio qualche parola fin quando non sbucammo sul canale individuandone la partenza tra una breccia rocciosa.

Affacciandomi, restai impressionato. Il vapore saliva lungo il pendio. Fumava, aprendosi e nascondendolo. Lì per lì mi ritrassi. Avevo visto qualcosa di repulsivo, uno squarcio tra balze sgretolate che si andava abbuiando. Ma fu per un momento. Non ci si poteva tirare indietro. Ormai, era giocoforza scendere da quella parte.

Dopo, mi calai dentro per qualche metro, con grande circospezione, mentre Sandro guardava non troppo convinto. Come nel caso precedente, lasciò a me il compito di saggiare il terreno.

Quella prudenza fu indispensabile, perché l’inizio non è più largo di due metri e mezzo, ripido (50°) e stretto da costole rocciose. Con gli sci arcuati per la sollecitazione contro i bordi, sentimmo il vuoto sotto di noi. Avevamo la sensazione di esserci sospesi.

Feci le prime curve arrestando le spatole sul limite delle rocce. Alleggerivo gli sci e saltavo. Era necessario bloccare con decisione gli spigoli e indirizzare le punte appena a monte per evitare di prendere velocità. La concentrazione era massima. Le fiancate coprivano parte del percorso rimanente. Continuammo così per un po’. Una curva, e ci si fermava.

Il canale, poi, si allargò di qualche metro diventando più facile (45°), chiuso, però, da barre e da guglie di roccia sfasciata. La sua discesa, comunque, è sempre molto impegnativa per l’esiguità dello spazio in cui girare e la pendenza continua.

Trovammo neve varia, con tratti incisi da rigole indurite di vecchie slavine. Numerosi macigni testimoniavano le frane dai muri laterali. Una si staccò proprio sotto di noi, e i sassi rimbalzarono nel solco.

Nell’ultimo tratto, l’acqua aveva cominciato a farsi strada sotto l’incavo nevoso riducendolo alla volta rovesciata di una catacomba. Nascosto dalla massa gelata, si sentiva un gorgoglìo impetuoso. Crepe aperte qua e là potevano essere scavalcate da ponti di ghiaccio vecchio e gocciolante.

Giungemmo al fiume che stava annottando. C’era da risalire con le pelli di foca fino ai Casini di Corte e, poi, proseguire a piedi all’Orecchiella dove speravamo in qualcuno venuto a recuperarci. Si sciacquettava nella neve residua. Mandando avanti uno sci dopo l’altro, dovevamo sembrare sonnambuli. Rigagnoli innumerevoli scendevano verso il torrente. Non si vedeva una luce. Erano scomparse anche le fiancate del Castellino, ritiratosi nell’angolo più buio della notte.

Almeno in quei momenti, Stromboli non era mai esistita. I tronchi più grossi dei castagni s’avvicinavano come fantasmi. La strada andava su lentamente. Si credeva che ogni curva fosse l’ultima. A un tratto, lontano, sì sentì ululare una bestia. Noi pensammo ai lupi. Ma chissà di chi era quell’urlo nei boschi.

Nelle settimane successive, ci spostammo in Apuane dove scendemmo la via Amery-Conti sulla Est del Pizzo d’Uccello (io e Sandro) e la Diretta nord-ovest della Pania Secca (io soltanto).

Che il Pizzo d’Uccello potesse essere sceso con gli sci praticamente dalla vetta, mi passò per la testa qualche anno prima, proprio sulla Pania Secca. Arrivati in cima, sci ai piedi, quasi alle nove di sera, Sandro, io e Leone Tombini aspettavamo che la luna rischiarasse i pendii fino al Rifugio Rossi. Il versante ovest-sud-ovest della via normale, dove eravamo saliti a zig-zag, era già dentro il buio. Due giorni dopo sarebbe venuta Pasqua e noi ce ne stavamo lassù assaporando una soddisfazione adeguata davvero all’imminente festività. Sotto, nella vallata, si accendevano le luci dei paesi, separati gli uni dagli altri come strani ideogrammi; mentre quelle delle città in pianura e delle località sulla costa brillavano in un unico sfolgorio. Verso il mare, acuminate e nere, le cime settentrionali avevano ancora definizione sotto le stelle.

Il Pisanino no… – pensai – ma, trovando le condizioni, sarebbe una ganzata scendere con gli sci dal Pizzo d’Uccello…

Il Pizzo d’Uccello è un rilievo formidabile e isolato. All’estremità della catena, si erge superbo come un ultimo cavaliere. Dalla Lunigiana, però, insieme alle altre due cuspidi solitarie del Sagro e del Pisanino, forma una soprannaturale Trinità slanciata e imbizzarrita. Famoso per la parete nord, una muraglia rocciosa alta più di 700 m, viene chiamato il Cervino delle Apuane. Anche sugli altri lati ha linee orgogliose ed è costituito da pilastri e lastroni, intersecati da fessure. In precedenza, a nessuna persona ragionevole era venuto in mente di considerarlo una vetta sciistica. E, invece, nel canale che scendemmo – una delle prime vie invernali dei pionieri – si trova un’opportunità per lo sci. Un itinerario logico e semplice, fatto di rispetto ma anche di una certa scaltrezza, sul versante più conosciuto della montagna; tanto conosciuto da far pensare davvero come il noto sia sempre il più difficile da conoscere. Ormai è un’eccezione non esserne vittime: coi sensi indeboliti da eretismi e bulimie, raramente riusciamo a soffermarci su quanto si trova vicino e a prestare attenzione a ciò che è evidente.

“Versante E. – È un breve versante triangolare sul lato di Orto di Donna con dislivello sui 200 m. Il primo percorso probabile è di Leopold Stennett e Harold Amery con Giovanni Conti, Angelo Zaccaria Pompanin e Domenico Zagonel nel 1912.

“… Si sale senza percorso obbligato incontrando brevi salti rocciosi. Piacevole, erta salita in inverno (23)”.

“Il versante est del Pizzo d’Uccello si presenta con una faccia triangolare che sovrasta l’Orto di Donna. In inverno, questo lato della montagna è generalmente ben innevato soprattutto in corrispondenza di un ampio canale situato nel settore meridionale, in prossimità della Foce di Giovo. Il canale sbuca sull’anticima e alterna ripidi pendii a brevi passaggi di roccia che, in alcune condizioni, possono presentare difficoltà. Per questo motivo la salita non è del tutto elementare… [PD] Si continua in un ampio canale che sale in direzione dell’anticima Sud: lo si percorre senza particolari difficoltà (pendenza

media sui 45°) se non nel superamento di alcuni affioramenti rocciosi… (24)”.

Noi non incontrammo problemi. La neve era buona e la giornata bellissima. Dopo essere saliti per guadagnare tempo (!), ficcandoci, sci sullo zaino, su per le roccette e le strettoie della via normale, toccammo la vetta. Tornati sull’anticima, calzammo gli sci e li togliemmo alle cave sopra il Rifugio Donegani. Frusciammo giù fino alla Torre del Diavolo, e poi nella faggeta, nella santità di un calmo stupore, come se la scoperta di quel che avevamo avuto per tanto tempo davanti annodasse fili misteriosi tra noi e le cose.

Sulla nord-ovest della Pania Secca, invece, le cose non si svolsero in modo così tranquillo. Fu lì che rischiai di fracassarmi tutte quante le ossa e di andarmene a chissà quale altra vita con l’anima. Non me ne resi conto subito, ma da quella volta persi sicurezza. I voli su neve sono sempre troppo lunghi e c’è tempo di pensare. Certe immagini rimangono anche in seguito, ingigantendo qualcosa che non dovrebbe esserci. Talvolta ragionare è aggiungere in eccedenza. Quando riflettiamo significa che una sapienza primordiale s’è indebolita. Non sarà facile sentire che l’unica cosa importante è quella che stiamo facendo.

Tutto avvenne su una delle montagne che ancora amo di più.

Arcigna sentinella sulla Garfagnana, da dove si presenta col suo inconfondibile profilo, la Pania Secca cade quasi dovunque con alte barriere articolate e rocciose. Specialmente da Trassilico o dai boschi di San Pellegrinetto, le linee a sud-est la fanno apparire inviolabile e nuda. Soltanto il versante nord-ovest si alza meno dirupato, simile a un provocante mammellone sostenuto da un piedistallo di lastroni calcarei. Osservandolo dal rifugio Rossi, sul culmine si nota perfino il capezzolo. In estate, il pendio è d’erba, placche marmoree e detriti, e può essere salito senza grossi problemi. Quand’è tutto di neve contro la vallata, somiglia, invece, a un sorbetto con un candito sulla sommità. Con gli sci, si parte dalla cima e si continua sul paginone cercando di individuare l’impluvio poco marcato che consente di superare la fascia basale. Il dislivello è 300 m e l’inclinazione media 45°.

Quel giorno (4 aprile), a metà della discesa affiorava una cortina di rocce, alta 6-7 m. Le difficoltà non erano superiori al II. Arrivato in prossimità del bordo, chiesi al Prode (sceso dopo di me) di tirare fuori lo spezzone di corda per approntare una doppia. Come pattuito alla partenza, doveva averlo lui nello zaino. Siccome non c’era, dovetti scendere senza.

La logica di quella dimenticanza mi apparve subito chiara, ma non dissi nulla. Se lui non si sentiva in grado di effettuare la discesa non avrei dovuto farla nemmeno io. Il suo piano l’aveva congegnato in tal modo. Per la mia mente non c’erano alternative. Era dalla partenza che avevo dovuto rintuzzare certi disfattismi. Ma lì il Prode s’impuntò e non volle proseguire, mandando grida acute dal pianerottolo di sopra.

Dal basso gli urlai che mi tirasse gli sci. L’operazione, però, non ebbe gli effetti sperati perché s’incastrarono a due metri o poco più dal bordo. Risalii allora fino agli sci e, tenendoli in una mano e poggiandomi con l’altra, ripresi a scendere.

Fu a quel punto che scivolai per più di 150 m. La velocità divenne subito spaventosa: fronte al vuoto e poi girato di schiena, raschiando con gli scarponi e aggrappandomi con le mani per frenare. Annaspai in qualche maniera per impedire il rovinio, senza riuscire ad arrestare la caduta. Ormai, non potevo fare più nulla. Evitai tre o quattro macigni e, dopo alcuni rimbalzi – nell’ultimo mi si sganciò lo zaino che continuò a cadere più in basso – un tratto di neve profonda mi fermò prima dei faggi.

Guardai intorno, pesto e sbigottito, restando gattoni un po’ prima di rialzarmi; incredulo per la fortuna avuta. Devo aver gridato qualcosa. Poi, una febbre nervosa scaturì da quello stupore e, inviperito, in uno stato di eccitazione tornai al punto in cui ero precipitato e dove ancora poggiavano gli sci. Lo raggiunsi in poco tempo. Non so che avrei potuto fare se mi fossi trovato il Prode tra le mani, ma dal minuscolo terrazzino non scorsi né sentii nessuno. Pensai – non sbagliandomi – che fosse risalito in cima per scendere dalla normale a vedere cos’era successo. Rimasi lì un attimo. Dopo, calzai gli sci e terminai la discesa.

L’indomani, prima di cena, m’imbattei ancora nel Prode. Mi trovavo nella sede del CAI e stavo descrivendo la via sul libro delle prime. Oltre a noi due e a Marcello Pesi, nelle stanzette della Sezione non c’era nessuno. La sera prima il Prode aveva dato spiegazioni confuse. Mentre con l’auto si apprestava a tornare per conto suo in città — al mattino c’eravamo incontrati lassù casualmente – aveva sostenuto che lo spezzone era, in effetti, nello zaino, ma di lunghezza insufficiente per la calata in corda doppia.

Quando il Prode lesse quello che stavo scrivendo, allora sì che si mise a strillare, battendo i pugni sul tavolo e i piedi sull’impiantito di legno. Disse che il mio non era scialpinismo, ma sci-rambismo e che Hitler, i filosofi, faceva bene a gasarli tutti.

Io lo guardai; chiusi il libro dopo aver terminato la relazione, e me ne venni via lasciandolo alle sue invettive.

In seguito, le eminenze al governo della Focolaccia scomunicarono la pravità dell’eretico che pretendeva di attribuirsi una prima non meritata. O meglio, non lo scomunicarono ma ancora una volta versarono veleno dall’anello della mano che serviva il vino. A loro avviso, la discesa non era omologabile perché non avevo percorso, tenendo gli sci, i due metri che separavano la sommità della fascia rocciosa dal punto in cui gli sci s’erano incastrati. In quel tratto, anche se breve, non c’era stata unione tra gli attrezzi e il corpo dello sciatore.

Specialmente un paio di quelli che passavano buona parte del tempo libero su vie di palestra deturpate da centinaia di spit, mi gettarono la croce addosso argomentando che era contro i fondamenti di ogni morale alpinistica arrogarsi una via realizzata in tale maniera. Quando lo venni a sapere, per un po’ ne soffersi.

Da allora, ogni volta che passo sotto quel versante, guardo la linea di discesa e provo orgoglio per averla tracciata. Rattristato, però, dalla coscienza di quanto poco sia raccomandabile il consorzio degli uomini. E di come, per viverci, si finisca per farsi imprigionare da ingranaggi perversi, presi anche da quelle finalità parassite che mi hanno impedito per tanti anni di godere la montagna ubbidendo unicamente ai miei desideri.

Parte settima
Sulle Apuane, tuttavia, era il Pisanino la montagna che, più di tutte le altre, volevamo scendere con gli sci. Da due o tre anni avevamo preso a studiarlo. Dapprima, buttammo là ipotesi. Poi, cominciammo sul serio a cercare un possibile itinerario di discesa; e provammo a raccordare – scrutando dai paraggi e dalle fotografie – le zone dove il monte pareva offrire minori resistenze. Ma, guarda di qua e guarda di là, almeno per le nostre forze, non venivamo a capo di nulla.

Esaminando il Pisanino, ci pareva di essere tornati molto indietro nella storia dell’alpinismo. Agli anni delle astuzie valligiane o forestiere che, prima di salire una montagna, consentivano di capirla. Alla costanza nel provare di nuovo con quell’intelligenza trasgressiva ma contenta del possibile, ritenuta superflua dalle prepotenze dell’attrezzatura. Possono sembrare strane queste considerazioni per un monte di neanche duemila metri di altezza. Eppure non è così. Il Pisanino non è soltanto la vetta più alta delle Apuane ma, nei mesi invernali, ne esprime come nessuna la pericolosa alterigia. La sua struttura singolare incute timore da ogni lato e lo fa incombere gigantesco, benché non possieda pareti compatte e verticali. Non è il picco più appariscente della catena, anche se considerandolo da qualunque parte risulta il più ostile da affrontare. Già durante l’estate, toccarne il culmine obbliga a muoversi con cautela su terreni impervi ed esposti dove l’ambiente apuano viene avvertito nella sua severità. Vi sale chi ama le creste affilate e le emozioni aspre, pur se diverse da quelle dell’arrampicata su roccia. Anche in quella stagione è una cima che seleziona. D’inverno, diventa una montagna tremenda e inebriante e, in certe giornate, scintilla come una fortezza irraggiungibile.

Noi scartammo il versante ovest, ovviamente, e il grande scivolo della Bagola bianca. Embricati con precipiti liscioni di pietra, dove la neve gela o scarica di continuo, e, in certe zone, sospesi all’improvviso come gronde, non erano alla nostra portata. In quei pendii, simili a grandi tegole, le placconate incombono su cenge ed erbe a picco, o si addossano l’una all’altra con la superiore talvolta aggettante sopra quella di sotto. Pure da sud-est, il lato più facile almeno fino alla Foce dell’Altare, non andava bene. Se volevamo partire dalla cresta sommitale, bisognava scendere il Canale delle Rose che, per l’esposizione a sud, non si trova quasi mai in condizioni. Non restava che il versante nord, un’erta faccia erbosa, inframmezzata da lastroni e barriere di roccia. La più alta, tronca un canale che sbuca a pochi metri dal punto culminante.

La cosa non pareva proprio tranquilla; ma anche Rinaldi era del parere che da quelle parti poteva esserci un passaggio. Gli altri, di Lucca, sapevano del nostro progetto ma non ci dicevano nulla. Un nostro insuccesso sarebbe stato per loro motivo di celestiale soddisfazione.

Anche in seguito, a discesa compiuta, dopo che fummo intervistati dai giornalisti e che Simone Fini ci spedì un telegramma con i complimenti della Scuola Tita Piaz del CAI di Firenze, continuarono a considerare la cosa come mai avvenuta. Ci furono solo battute sarcastiche su qualche imprecisione dei giornali. Se – almeno a sentire La Rochefoucauld – nelle disgrazie dei nostri migliori amici c’è sempre qualcosa che non ci dispiace affatto, figuriamoci quali paradisiache gioie avrebbe dato loro un nostro fallimento.

Noi ne eravamo consapevoli. Eppure, anche per il Pisanino, la forza che ci spingeva non era diretta contro qualcuno. Certe cose non si possono fare a dispetto. Sono pochi i bisogni, quantunque i desideri e le speranze siano molti di più. Per mantenere a se stessi le proprie promesse, senza che ci sia una ragione per sacrificarsi, bisogna lasciarsi guidare soprattutto da una sorta di fede nel proprio agire, da quella che, nelle diverse vicende della vita, dovrebbe essere, anzi, l’unica e vera fede, senza indagare più di tanto nei garbugli delle proprie pulsioni.

“È da qui, dal Bacino di Piazza al Serchio, che [il Pisanino] si presenta in piena vista nella sua mole dominante, con gli altissimi versanti nord-orientali ove la neve si attarda fino all’estate… La stagione delle nevi lo trasfigura; i suoi erti e altissimi scivoli lo rendono affascinante per l’appassionato di alpinismo invernale che qui come in altre montagne apuane può trovare la neve dura più adatta alla presa…

[Con questo versante] il Pisanino appare nella sua veste invernale più maestosa… La neve rimane in gran copia sul pendio interrotto da caratteristiche fasce rocciose oblique; il tratto sommitale, inciso da canali, è ertissimo ma non molto alto, sui 100 metri circa… (25)”.

“In inverno, il Pisanino si trasforma completamente divenendo il terreno ideale per il ghiacciatore: ripidi scivoli e aerei fili di cresta fanno di questa montagna la più affascinante e impegnativa nella stagione invernale. I dislivelli sono sempre notevoli e si avvicinano ai 1000 m; l’isolamento è accentuato in ogni versante e le salite non sono mai facili…

Su questa più che su altre cime, è indispensabile buona preparazione tecnica ma soprattutto “senso della montagna “… Il lato più consigliabile per la qualità della neve e la grandiosità dell’ambiente è quello nord che inizia dai prati di Pianellaccio, poco sopra il paese di Gorfigliano… (26)”.

Noi, nel 1987, avevamo provato a salire il versante nord-est — attualmente è valutato AD – ma non eravamo ancora pronti. L’anno successivo, alla fine di marzo, la settimana prima della mia caduta sulla Secca, tentammo invece dal versante sud-est. Anche quella volta non combinammo nulla, pur se scesi da solo il canalino che inizia dalla selletta sopra la Foce dell’Altare (50°).

A volte, mi veniva l’idea che calcolare più di tanto ci portasse dritti all’insuccesso. In altri momenti, invece, mi confondevo in un indagare eccessivo, come se ignorassi che chi vuoi tenere tutto sotto controllo viene sempre sconfitto.

Il 16 aprile, però, Marco, Sandro e io partimmo da Lucca sicuri di farcela.

Pernottammo in una locanda sulla riva del lago di Gramolazzo. Prima di andare a dormire, rimanemmo qualche minuto vicino a un pontile. Vi si trovavano anche dei remi e una barca capovolta. Sopra di noi, il Pisanino dominava vertiginoso e pareva di vetro. Si rifletteva nell’acqua come uno spettro a braccia aperte, trasparente nelle tenebre che rendevano la valle un nero sepolcro. La sagoma terribile delle sue creste, della Forbice e della Mirandola, si stagliava contro il cielo, perdendosi in basso dentro i boschi immersi nel buio. Il nostro itinerario era illuminato da un chiarore evanescente e qua e là sembrava vi tremolasse un brillio. La neve rappresa sugli scivoli dava l’idea d’essersi trasformata in durissimo marmo. Da qualche parte venne la musica di una canzone. Ma smise subito. Poi si sentì un uccello notturno verso la chiesa abbandonata. Tra poche ore avremmo tentato il colpo.

La parete nord-est del Monte Pisanino

Ci alzammo prima ancora di esserci addormentati. Mangiammo qualche schifezza energetica, silenziosi e senza appetito, in linea con la severità dell’impegno. Alle tre, quando partimmo, c’erano stelle nel cielo. Qualcuna aveva traversato la finestra accompagnando la nostra attesa. Una striscia di luce se ne andò verso Orto di Donna, e si spense. Potevamo vedervi un presagio. Nessuno, però, disse nulla. Non ci furono parole nemmeno dopo. Ognuno combatteva una lotta con le sue contraddizioni, aspettando che un indizio qualunque venisse a chiarirgli ciò che sentiva. Il corpo ancora freddo e la volontà indebolita dal torpore erano in cerca di motivi per rinunciare. In quei momenti niente sembra al proprio posto e occorre fingere e starsene zitti. Ma era una simulazione più chiusa e cupa di altre volte; diversa da quella che, in circostanze simili o prima di scendere un pendio impegnativo, ci aveva fatto dire di trovare la cosa facilissima. Io, come alla partenza di certe salite sulle Alpi – quando ci si deve alzare mentre in valle vanno a dormire — cercai d’immaginarmi che, al ritorno, ci sarebbe stato di nuovo caldo e ci saremmo fermati a bere la birra.

Salimmo per la strada di cava nel bacino marmifero nero e sconvolto. Poi, sotto la dorsale sud-est e, più su, nel Canale delle Rose. Era ancora duro da ramponi nella striatura incastonata. Ormai non restava che adattarsi a quanto avevamo deciso.

Sbucati sulla cresta, la Garfagnana ci si parò davanti nel mattino di primavera. S’era appena svegliata e si stirava nel sole. I paesi brillavano sulle balze e lungo il corso del fiume. Veli di foschia rimanevano qua e là prima di dissolversi.

Le case di Gorfigliano si spargevano sotto, 1300 metri più in basso. Sembrava di finirci a capofitto. Si aveva l’impressione che gli spigoli della montagna piombassero sull’abitato senza soluzione di continuità. Alla nostra destra s’intuiva il vuoto del fianco est coi suoi precipizi selvaggi.

Noi eravamo lassù con le sofferenze e la felicità di quei giorni. Marco e io ci sentivamo commossi anche per altri pensieri. Quella discesa era venuta a caricarsi di molti significati e a Marco passò per la mente cosa poteva accadere a chi amavamo se uno di noi ci avesse lasciato la pelle. Io gli risposi che ci saremmo aiutati, senza però rivedere la mia caduta di due settimane prima sulla Secca. Solo Sandro pareva essere completamente lì. Resteranno per tutta la vita momenti indimenticabili.

Il canale, in sé, non ci sembrò niente di particolare (45°). La neve era buona. Avevamo sceso ben altre pendenze. Era il salto roccioso a preoccuparci. Mozzava la prospettiva, preceduto da un rigelo e da qualche placca affiorante. Non si doveva assolutamente sbagliare.

Il sole e la valle che invitava come un giardino, tuttavia, ci avevano rinfrancati. La prima curva ci dette la sicurezza che la neve teneva. Sciammo uno dopo l’altro fin dove si poteva approntare un ancoraggio per la doppia. Prima Marco – che ne aveva individuato la possibilità da molto lontano — poi Sandro e dietro io. Realizzare la sosta, autoassicurarci e togliere gli sci furono operazioni tremebonde. Al pari delle altre successive. Avremmo potuto scendere ancora un po’, ma Marco volle usare prudenza. Ci sarebbe stato anche un passaggio tutto sciistico sulla destra, ma il pendio era impressionante, senz’altro intorno ai 60°, e non ci venne neppure l’idea di provare. Se qualcuno di noi ci pensò, se ne astenne alla prima occhiata.

Il Pisanino ci pesava addosso. Ci condizionava con la sua anima. Lo avvertivamo simile a una nube che porta il terremoto, minaccioso come un dio che fa tremare al suo cospetto. Pareva che, qualora si fosse svegliato, avrebbe potuto stritolarci con l’ottusità di un gigante muto. Non potevamo liberarcene, insieme ai pensieri di chi avevamo contro.

Dopo, ci calammo per una ventina di metri, con gli sci a capanna sullo zaino. Il muraglione cadeva verticale, frastagliato da scanalature a strati. Mentre la corda sfregava sul discensore, vidi la roccia scura passarmi davanti e sentii l’odore d’erba che hanno le Apuane.

Sotto, riprendemmo a scendere (48/50°) disegnando curve ormai senza problemi; per cenge inclinate, collegate da corridoi pensili, e da ultimo nel bosco. Nonostante la perdita di quota, la neve si era mantenuta accettabile. Fendendola, le tracce delle nostre evoluzioni restavano sugli scivoli bianchi. Ci fermammo soltanto qualche volta per dominare il respiro, venendo giù in un delirio infiammato.

Sugli ultimi pendii e nelle radure tra gli alberi gridammo la nostra esaltazione al ritmo delle serpentine. Liberati dagli altri e dal mondo, che pure spumeggiava e si quietava dentro quanto faceva il sangue. Come già avvenuto, provammo qualcosa che non si può esprimere a parole perché, se fosse possibile, non ci sarebbe stato bisogno di sciarlo. Forse il Pisanino ci aveva aspettati dato che la discesa l’avevamo già fatta; e prima ancora che quelle scarpate fossero emerse ultimamente dal mare. Soltanto allora ci sembrò che noi e la grande montagna, il cielo e la neve fossimo diventati la medesima cosa.

Lungo lo sterrato di Pianellaccio, proseguendo a piedi verso Gorfigliano, capimmo che il nostro periodo era finito. Ne fummo tutti e tre consapevoli, anche se non fu necessario parlarne. L’Appennino, scolorito sull’altra sponda della Garfagnana, chiudeva l’orizzonte con le sue chine a meridione, chiazzate da macchie e rigole ancora biancheggianti. Senza voltarci indietro, guardavamo laggiù; quasi che su quelle distese, incupite da nuvole a cavolfiore, si stampasse la nostra stanchezza.

Avremmo continuato a sciare sul ripido, ancora in cerca di itinerari nuovi, ma un’esperienza stava terminando proprio in quei minuti perché giunta al suo compimento. Chissà se quella mattina il Pisanino ci fu dato perché eravamo pronti? Avevamo trasgredito o ubbidito alla Legge?

Nei prati, tra l’erba già alta, spuntavano fiori senza nome e bottoni d’oro. Il vento li muoveva. Del polline volava come una nevicata fuori stagione. Qualche rondine passava e si tuffava all’intorno. L’aria odorava, come se da qualche parte avessero tagliato il fieno. Per un po’ rimanemmo in silenzio. Sandro aveva caldo e “male agli scarponi”. Durante la discesa era stato il più tranquillo. Poi Marco parlò di mare e di vela. Io dissi che mi sarebbe piaciuto vedere il deserto.

“… quella che possiamo considerare la nostra impresa di maggior prestigio: una discesa a lungo studiata, a più riprese tentata e poi finalmente compiuta il 17 aprile 1988, oltre che dal sottoscritto, da Marileno Dianda e Marco Castellani. Si tratta del Pisanino per la parete nord-est… La discesa del Pisanino rappresenta il nostro fiore all’occhiello… (27)”.

Note
(22) Alessandro Costi, Vent’anni sul rìpido, cit., p. 49.
(23) Euro Montagna, Angelo Nerli, Attilio Sabbadini, Alpi Apuane, cit., pp. 168-169.
(24) Giorgio Perna, Fabrizio Girolami, Apuane – Salite invernali. cit.,p. 199.
(25) Euro Montagna, Angelo Nerli, Attilio Sabbadini, Alpi Apuane, cit., pp. 271-272, 278.
(26) Giorgio Perna, Fabrizio Girolami, Apuane – Salite invernali, cit., p. 159.
(27) Alessandro Costi, Vent’anni sul ripido, cit., pp. 49-50.

FINE

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