Questo articolo è la sintesi di https://www.gognablog.com/arrampicata-sostenibile-una-questione-di-stile/ di Alessandro Gogna
(a cura di Pietro Lacasella)
Il 29 aprile 2017, a Trento (nell’ambito del FilmFestival), si è svolto un incontro sull’arrampicata sostenibile. L’organizzavano il Comitato Trentino della UISP e ASD Block and Wall. Dalle pareti alpine alle strutture di fondovalle, dai massi alle falesie affacciate sul mare, l’arrampicata sportiva sta vivendo un boom. Questo convegno intendeva essere una riflessione a più voci, tra opportunità di sviluppo territoriale e sostenibilità ambientale.
Moderato dal giornalista Renzo Moser, al tavolo dei relatori sono intervenuti Stefano Scetti (Melloblocco), Massimo Cappuccio (San Vito Climbing Festival), Umberto Martini (Dipartimento di Economia e Management, Università degli Studi di Trento) e Alessandro Gogna (alpinista e opinion maker su turismo e ambiente). Per gentile concessione di quest’ultimo, riporto qui di seguito alcuni passaggi della sua relazione intitolata Arrampicata sostenibile: una questione di stile.
Arrampicate, ferrate e stile
Gli organizzatori di questo convegno hanno saputo prendere in considerazione tre aree del territorio italiano che presentano tipologie di arrampicata assai diverse tra loro.
La valle di Mello e la valle dell’Orco sono due dei pochi luoghi dove il free climbing (inteso come arrampicata libera, contrapposta all’arrampicata libera sportiva) possa essere ancora largamente praticato. Sono il tempio attuale dell’arrampicata libera in Italia.
Poi è stato scelto un secondo grande centro di arrampicata, San Vito lo Capo, che invece si sta rivelando, crescendo sempre di più, un bellissimo centro di arrampicata sportiva. Possiamo assimilarlo, panorami e atmosfere a parte, a Finale Ligure, altro centro estremamente importante, o anche alle emergenti falesie di Amalfi.

Da ultima, la valle del Sarca, proprio dietro a Trento. Questa ha la caratteristica di avere entrambe le frequentazioni: vi si pratica abbastanza indifferentemente sia il free climbing che l’arrampicata sportiva. Lo testimoniano il migliaio di vie non attrezzate, o attrezzate solo in parte, assieme alle centinaia e centinaia di monotiri delle diverse falesie. Possiamo quindi prendere questi luoghi che ho citato come fulcri per la nostra discussione.
A parte Amalfi, ho personalmente avuto la fortuna e di viverli proprio ai loro inizi, quando le primissime vie venivano aperte, qualche volta anche da me. C’ero, insomma. E mi fa particolarmente piacere parlare dello sviluppo che c’è stato. Soprattutto m’interessa individuare quali di questi posti possono essere a rischio di crescita sbagliata.
Io credo che gli arrampicatori non siano dei turisti normali. Sono individui che a volte hanno un comportamento un po’ anarchico, caratteristica che talvolta sembra allontanarli dal classico amante della natura. Non sono dei bambini che bisogna seguire, cui occorra dare qualunque tipo di assistenza non richiesta e coccole a non finire. Di questo ai climber non importa nulla. Se togliamo loro un po’ di facilitazioni, non è che se ne vadano. In valle del Sarca c’è stato un breve periodo in cui il grande Heinz Grill – che ha aperto solo lì più di un centinaio di itinerari multipitch – dipingeva delle piccole freccette blu sulla roccia nei punti in cui c’era il rischio che qualcuno si potesse sbagliare, prendendo una direzione diversa dall’itinerario giusto. Qualcuno gli ha fatto notare che forse quella era una preoccupazione eccessiva e da allora niente più freccine blu. Era una facilitazione che non serviva. Un piccolo inserimento nella natura senza conseguenze estetiche, ma anche senza una reale utilità. Al mondo succedono cose ben peggiori di questa piccola invasività, ma è una questione di comportamento, di giudizio e di orgoglio. Non sono le freccine che devono indicare una direzione, ma è l’arrampicatore stesso che deve interpretare ciò che la roccia gli comunica. Già ci sono i chiodi…
Anche le strutture fisse (come le vie ferrate) possono essere deleterie e modificano radicalmente il terreno naturale di gioco.
Spesso funziona che ci sono soldi da spendere e il modo più facile per farlo, considerando anche il costo della mano d’opera, è nella realizzazione di attrezzature. Così si vuole dimostrare che sono stati spesi per opere concrete. Io invece affermo che il denaro disponibile deve essere investito in modo assai diverso. Anzitutto si deve considerare un periodo più lungo (in luogo del “tutto e subito”), un periodo che vada oltre la durata della carica di quell’amministratore/amministrazione. Il punto che i nostri amministratori devono capire – per ciò che riguarda l’ambiente e in particolare l’arrampicata – è che i progetti devono essere decennali, anche ventennali e non esaurirsi entro le prossime elezioni. Devono essere progetti lungimiranti, non dei “mordi e fuggi” che vanno bene nell’immediato per fare bella figura, per concludere l’evento, e poi chi s’è visto s’è visto.

Non credo che si possa parlare di arrampicata sostenibile se nella progettualità che la riguarda non viene intrapresa una direzione ricca di creatività e di stile. Il rischio di crescita sbagliata è sempre in agguato. L’attenzione all’ambiente non è sufficiente in questa società che ha perso l’orientamento, occorrono creatività, fantasia, estetica ed arte: sono queste le chiavi per lo stile e quindi per la soluzione elegante nella progettualità.
Qui attorno esistono molte vie ferrate. Ci sono quelle per le quali i costruttori hanno seguito una logica (storica, bellica, tradizionale o geografica): penso alla via ferrata della Marmolada, a quella delle Mesules nel Sella, o al Sentiero degli Alpini nel Popera e a tante altre, come la Che Guevara sul Monte Casale. Poi però ci sono gli itinerari senza alcuna logica, costruiti per fare scena, per il vuoto, per la fatica atletica. Ne cito qualcuno, sempre tra i più vicini: la Pisetta al Dain, la Monte Albano a Mori e naturalmente l’ultimissima nata, l’obbrobrio della Paganella, dove non c’è stato rispetto per nulla. In questi casi, specialmente nell’ultimo citato, si è voluto soltanto spendere dei soldi: questo è il punto da combattere.
Io non sono aggressivo verso il fenomeno del ferratismo. Di sicuro, nelle mie conferenze e nei miei scritti, cerco di scoraggiarlo, cercando di avviare la gente ad altre attività. Credo sia nei diritti di un divulgatore. Ma è un fenomeno che c’è. Quando nel lontano 1991 Mountain Wilderness, di cui ero in quel momento presidente, voleva smantellare la ferrata Che Guevara a scopo dimostrativo, io ero assolutamente in disaccordo. L’azione fu intrapresa, furono smantellati i primi 150 metri, con il mio parere contrario. Perché non si può andare contro la volontà della gente. Anche il parere della maggioranza è sacrosanto, non solo quello della minoranza. Il muro contro muro non ha mai funzionato, e lo dico a chiunque s’interessi di ambiente. Affermo invece che occorre essere sempre più convincenti al riguardo, cercare di diffondere sempre di più le motivazioni che ci fanno contrari alle ferrate, in modo da deviare la progettualità verso altre direzioni. Rivalutare le vie normali, la creatività nel collegare sentieri… o l’idea di perdersi nel bosco: predicare il fascino di queste attività di ricerca, di emozione individuale indotta dalle proprie scelte e non da quelle altrui. Niente guerra di smantellamento, bensì portare cuore e sentimenti sulle cose semplici della montagna.
Qual è il problema delle ferrate moderne, di tipo atletico-adrenalinico, come quelle sopracitate? Sono pericolose per come noi ci rapportiamo con l’ambiente. Non perché lo rovinino, l’ambiente dopo la costruzione rimane infatti più o meno lo stesso. Non credo che sia un ponte tibetano in più o in meno a deteriorare una località naturale. Parlo della ricerca della verticalità, perfino dello strapiombo, senza rispetto, nel più completo disinteresse verso le linee di debolezza suggerite dalla montagna. Sono convinto che sia la ricerca della sensazione del vuoto a basso costo a determinare la terribile omogeneizzazione degli itinerari. Stiamo andando verso la mcdonaldizzazione delle ferrate.
Prima parlavo di stile. È stile andare alla ricerca della difficoltà attaccati a dei ferri?
Queste ferrate moderne sono tutte uguali, come i supermercati o i luna park. I divertimentifici sono identici dalla Lapponia al Portogallo, dall’Australia a Los Angeles. Il giardino pubblico e i percorsi vita non sono la natura, sono un’altra cosa. Io non dico che la wilderness debba essere dappertutto, sostengo invece che esiste una natura e questa dev’essere conservata, con piani e progetti; non pensando “qui, adesso, abbiamo centomila euro, vediamo di spenderli”.
E’ vero che ci sono dei fruitori che vogliono proprio questo. Vogliono “fruire” di impianti ad uso e consumo. L’operatore turistico si adegua facilmente, cosa interessa a lui un cambio di rotta? Per lui i “fruitori” e gli “utenti” sono sacri e non li toccherà mai. Quindi è il pubblico che dobbiamo convincere, è su di esso che occorre agire culturalmente.
Senza stile non c’è eccellenza e ogni località rischia di diventare uguale all’altra. E’ questo che si vuole? E’ questo che vogliono le APT (aziende di promozione turistica)? Spero di no.
Come si potrebbero spendere le risorse economiche? La risposta deve indagare nel campo dell’educazione e della comunicazione, quella vera e incisiva (non il cartello sbattuto lì con il design del grafico di turno). Dicevo prima che il pubblico va educato. Anche se ormai c’è una certa attenzione verso l’ambiente, è anche vero che molti non hanno idea di quanto, anche solo con la propria presenza, contribuiscano a variare (più spesso ad avariare) un ambiente. La nostra presenza comunque ha un impatto.
La formazione dunque dovrà essere il nostro investimento, ciascun luogo dovrà occuparsene e l’obiettivo sarà quello di valorizzare le proprie caratteristiche, dunque il proprio stile.
Quando un luogo, che ha stile, riesce ad educare le persone, oltre a farle divertire e basta, allora abbiamo raggiunto veramente lo scopo del nostro stare assieme come società.
Nota
Dal 23 giugno 2017 è percorribile la variante Il volo dell’aquila alla Ferrata della Paganella, con la quale siamo definitivamente approdati al circo equestre. Si tratta di una scala di 24 metri con 4 rotazioni di 360°, a seguire brevi pareti veticali e una seconda scala a spirale di 15 metri realizzata a mano con cordino di acciaio.
Sono pienamente d’accordo anche se alcune ferrate sono parte della nostra storia è l’eccesso nella realizzazione di linee sempre più ardite con il concetto dello sfruttamento del territorio alla stregua di un luna-park Ecco così che a Finale tutti i sentieri vengono stravolti dai fruitori delle mountain bike soprattutto del Downhill crescono rampe salti curve paraboliche Nella stessa giornata si possono incontrare Bikers cavalli persone e famiglie tutti negli stessi percorsi… nessuno controlla naturalmente si lascia tutto al buon senso… che non sempre Abbonda nelle orde giovanili di bikers bardati per il Downhill.. Comunque anche gli arrampicatori sportivi di cui anch’io faccio parte per realizzare i loro siti di arrampicata hanno sbancato tagliato migliaia di alberi creato nuovi sentieri ovunque… senza pensare a l’impatto dei rifiuti naturali e non lasciati nei boschi
Bisogna riprendere coscienza di noi stessi nella natura imparare il rispetto la tolleranza, che anche noi purtroppo probabilmente negli anni ruggenti giovanili non abbiamo avuto a che ora però pretendiamo dagli altri c’è ancora speranza lo dobbiamo le prossime generazioni.