di Benedetta Bruni
A febbraio 2024 Alex Bellini e Alessandro Plona hanno attraversato 1.800 km in bici in Alaska per portare l’attenzione sulle conseguenze che il cambiamento climatico ha sulle popolazioni native dei territori più remoti. Con una fatbike dal telaio in plastica riciclata e stampato in 3D.
Alex Bellini è un esploratore e climate advocate impegnato nella diffusione di una maggiore consapevolezza delle conseguenze del cambiamento climatico sugli ecosistemi, sulla biodiversità, su popolazioni che nei millenni si sono adattate ad ambienti spesso anche molto ostili, ma che di recente stanno facendo i conti con stravolgimenti che mettono a repentaglio la loro stessa permanenza in questi territori.
Nell’ambito del progetto “Eyes on ice”, che vuole dare voce alle comunità delle regioni polari circa tali effetti, insieme al suo amico Alessandro Plona è partito alla volta dell’Alaska, 1.800 km attraversati su una fatbike dal telaio stampato in 3D e composto interamente di plastica riciclata: un mezzo che apre a un altro tipo di fruizione della bici, circolare e accessibile.
Ma perché le regioni polari? Perché sono la sentinella di quanto può accadere anche a latitudini più basse, il canarino del minatore che, finché vivo, conferma che l’ambiente è ancora abitabile. Ma che, quando muore, è un allarme urgente di evacuazione. Ne abbiamo parlato con Bellini.
Tu e Alessandro Plona a febbraio siete partiti verso Nome, in Alaska, nell’ambito del progetto “Eyes on Ice”. Per farlo, avete utilizzato la bici riciclata Impact fatta su misura per voi. Qual è il suo verdetto finale?
Considerando che era un prototipo, il verdetto è stato buono. Abbiamo scelto i componenti sulla base della resistenza, mentre per il telaio, in effetti, ci siamo sentiti un po’ come i fratelli Wright quando hanno spiccato il primo volo: breve e con un atterraggio sportivo. Abbiamo avuto pochissimo tempo per realizzare la bici e per questo abbiamo dovuto eccedere nella quantità di materiale con cui è stata prodotta. E alla fine l’elemento critico è stato proprio il peso: a pieno carico arrivava a 68 kg, cosa che ha fatto una certa differenza con la neve molto alta. Il risultato comunque è stato buono, non abbiamo avuto alcun problema neanche nella risposta al freddo e alle condizioni atmosferiche, ma di questo eravamo consapevoli perché avevamo sottoposto il telaio a test meccanici presso il Politecnico di Milano. Ciononostante, se avessimo avuto tempo in più avremmo di certo sacrificato un po’ della capacità di sopportazione allo stress a favore di maggiore leggerezza.
Pensi che una bici realizzata con materiali riciclati possa aprire a un nuovo modo di concepire il mezzo?
Credo di sì. Penso che, aldilà delle applicazioni specifiche come la nostra, il viaggio ha dimostrato che realizzare delle bici in stampa 3D con materiale riciclato può essere un’alternativa alle più comuni tecniche di produzione. Tra l’altro, questo telaio può essere sminuzzato e ristampato fino a cinque volte, e questo indubbiamente allunga la sua aspettativa di vita e garantisce una certa flessibilità. Mi immagino che tra qualche anno un genitore potrà stampare autonomamente una prima bici al figlio e riadattarla mentre cresce. La plastica ha questa grandissima capacità di essere recuperata più volte, quindi può diventare un elemento aggiuntivo per un uso urban della bici che sappia al contempo abbattere i costi. E questa è la direzione che sta prendendo il team con questo progetto.
Quali sono state, per te e per voi, le più grandi sfide di questo viaggio?
Ci sono state due sfide, una del mondo esterno e una del mondo interno. Per quanto riguarda la prima, l’inverno di quest’anno in Alaska è stato molto rigido. Non ci aspettavamo tale abbondanza di neve, che infatti ci ha rallentato e talvolta impedito il normale andamento del viaggio – per quanto l’abbia reso anche più interessante. Per la seconda, è stato difficile gestire la componente emotiva in situazioni di crisi, anche perché ciò che colpisce una persona in un team di due genera inevitabilmente delle interferenze psicologiche su entrambi. Ogni tanto abbiamo faticato sulle motivazioni interne e la gestione di una sfida che sembrava impossibile.
Come cambia l’Alaska, quindi, quando cambia il clima?
Il clima impazzisce e i primi che ne subiscono le conseguenze sono proprio coloro che vivono lì da migliaia di anni e si sono abituati a un clima in costante mutamento. Ma il tipo di cambiamento a cui sono soggetti ora mina le basi di sopravvivenza della comunità, che vive con la caccia, la pesca, le bacche raccolte d’estate e conservate in inverno. Queste popolazioni devono fare i conti con l’incertezza sul futuro in modo molto più importante di noi e non possono fare altro che vedersi eroso giorno dopo giorno il terreno su cui vivono, in particolare nello stretto di Bering dove sono i più esposti a uragani e mareggiate. Il proposito del nostro progetto è di divulgazione, siccome nel dibattito pubblico il cambiamento climatico raramente dà voce alle popolazioni native delle regioni polari. Che pure sono la sentinella del climate change: ci avvisano in anticipo di quelli che potenzialmente potrebbero essere gli effetti più disastrosi anche ad altitudini medie e non così estreme. Il nostro obiettivo come esploratori è far vedere le “vecchie cose” da prospettive nuove, acquisendo una nuova sensibilità facendoci raccontare dai locali come si stanno adattando, le loro paure e i rischi a cui vanno incontro.