di Marco Boldrini, pubblicato su Alpinismi in data 15 gennaio 2018
C’è evidentemente qualcosa che non va. Se siete appassionati della serie tv britannica Black Mirror, che racconta un futuro (neanche troppo, futuro) distopico, avete già un vantaggio per comprendere dove vogliamo andare a parare con le riflessioni che leggerete fra poco. Nel mondo della comunicazione succede che ogni tanto c’è un corto circuito fra quello che vorrebbe essere veicolato e il messaggio finale. È questo il caso di Ferrari, forse il marchio italiano più noto a livello globale. Due giorni fa, sul social media Instagram, la casa automobilistica di Maranello ha pubblicato una foto di una delle sue ultime creazioni, la GTC4Lusso, un bolide da quasi 270mila euro, nella configurazione base. Ma quello che ci ha fatto saltare sulla sedia non è tanto l’automobile, quanto il contesto. Alle spalle dell’autovettura in questione, invece di trovare il panorama di Dubai, o della Côte d’Azur, c’era una parete d’arrampicata sportiva.
Lungi dal voler essere degli oltranzisti dell’arrampicata, o della montagna, ci sono alcune considerazioni che possono essere fatte. Alcune positive, altre (molto) meno. La prima, abbastanza ovvia, è che difficilmente uno scalatore professionista potrà mai permettersi un’auto del genere. La seconda è che si sta arrivando a un punto cruciale per la crescita dell’arrampicata sportiva, la piena consapevolezza da parte delle società esterne al nostro mondo che questo mondo esiste, ed è vivo. E dato che è sempre più sulle pagine dei quotidiani nazionali, allora può essere un segmento da sfruttare a fini pubblicitari.
Qual è quindi il messaggio che vorrebbe veicolare Ferrari? Delle due l’una: o che uno scalatore può avere il capitale per acquistare e mantenere un tal veicolo oppure che il proprietario di una Ferrari è una persona dinamica. Ma se prendiamo per buona questa seconda ipotesi, quella più probabile, perché scegliere proprio l’arrampicata sportiva? Semplice. Perché è di moda. Lo abbiamo scritto poco tempo fa, in riferimento al rinnovato interesse generale alla montagna, alla ricerca della wilderness, all’avventura in generale. Ma in questo caso, secondo noi, si è arrivati a un punto ben più profondo. Perché Ferrari è un marchio di lusso, riconosciuto come tale in tutto il mondo. Le sue creazioni sono non soltanto tecnologicamente avanzate, ma sono soprattutto esclusive. E l’arrampicata è sempre stata l’antitesi del lusso e dell’esclusività. La scalata è – per antonomasia – una delle attività più inclusive che esistano. Se si esce dal mondo delle gare e dei super gradi, l’arrampicata è da sempre il regno della non competizione, ma del puro divertimento. Al contrario di altre attività sportive, è noto a tutti noi che alla stragrande maggioranza degli scalatori non interessa che grado fai, ma chi sei.
Ecco quindi che arriva la domanda successiva. Se perfino un marchio di lusso come Ferrari ha deciso di utilizzare l’arrampicata sportiva nel suo piano di marketing e comunicazione, quale sarà il prossimo passo? È possibile vedere Louis Vuitton che produce un set di borse porta-corda? O Yves Saint Laurent che commercializza pantaloni da arrampicata? O ancora Tod’s che lancia le sue scarpe da avvicinamento? Se consideriamo il numero di società, non outdoor, che si sta avvicinando al mercato dell’arrampicata sportiva, che è crescente, c’è da attendersi che da qui ai Giochi Olimpici di Tokyo del 2020 ci sarà lo sdoganamento di questa attività a tutti gli effetti. In Italia il caso più eclatante è quello di Intimissimi e di Stefano Ghisolfi. Ma all’estero questo genere di intrecci, all’apparenza impossibili, sono all’ordine del giorno. Basti pensare ad Ashima Shiraishi o a Sierra Blair-Coyle per rendersi conto che le contaminazioni tra l’industria del fashion e quella dell’arrampicata sportiva sono sempre più frequenti. Perché, specie sui social media che fanno della visualizzazione il proprio punto di forza, l’immagine dinamica di uno scalatore suscita emozioni intense. È cool, come si direbbe qui in America. Così come è cool un surfista a Huntington Beach o Maui, lo è un arrampicatore a Red River Gorge o Yosemite.
È un bene o un male? La risposta definitiva non c’è. Però c’è un aspetto che invece, da un punto di vista storico, si può considerare. Un vecchio adagio statunitense afferma che “ogni americano ha nel suo guardaroba almeno un capo di The North Face”. Empiricamente, mi sento di confermarlo. Ma The North Face è nata con l’intento di essere un marchio per esploratori e alpinisti. Da marchio esclusivo, votato a particolari esigenze di pochi individui, è divenuto un brand di culto prima e di massa poi. E così facendo si è perso di vista un concetto chiave della montagna, ovvero l’esistenza dei rischi, sia oggettivi sia soggettivi. Noi lo ripetiamo come un disco rotto. Qualunque volta si esce in ambiente bisogna valutare qualsiasi aspetto. La mitigazione dei rischi si può avere soltanto con la programmazione, che deve essere non solo fisica o mentale, ma anche ambientale. Vale a dire, sapere cosa si andrà a fare, e dove. Eppure, la nuova anima di The North Face, ma anche di altri brand, ha portato alla nascita dell’illusione che soltanto per il motivo di vestire in un certo modo, indossare un dato paio di scarpe, allora vuol dire che si può portare a compimento un’uscita. Questo fenomeno è l’over-confidence, cioè la troppa sicurezza dei propri mezzi, anche quando questi sono non sufficienti. La sopravvalutazione di sé stessi, lo sappiamo bene, è spesso fatale.
Ed è un concetto talmente noto che ci vengono in mente le parole scritte su La Rassegna Nazionale nel 1905: «Ma nulla potrebbe la natura inanimata contro l’uomo che nettamente ne conosce le minacce ed il modo di salvarsene, se l’uomo stesso per troppa fiducia in sé medesimo non ponesse almeno un istante in non cale quelle norme, da cui giammai non dovrebbe scostarsi, durante la lotta. Ecco come possono avvenire ed avvengono disgrazie agli alpinisti, i quali, se fossero sempre prudenti, dovrebbero sentirsi più sicuri sui ghiacci e sui dirupi alpini che non nelle vie di una città, dove può a chicchessia recare la morte un peso caduto per cause non naturali da un’alta finestra, o la disattenzione d’un conduttore tramviario, dove, in un deliquio che è incolga in cima di una scalinata, non siam trattenuti da robusta corda alpina legata ad un solido masso o sorretta dalle braccia di tre compagni bene aggrappati alle piccozze profondamente infitte».
Parole arcaiche, concetti intramontabili, spesso dimenticati.
C’è quindi il rischio che la moda dell’arrampicata sportiva possa fare dei danni? È possibile, perché se l’apertura alle masse non avviene secondo certi canoni di sicurezza, ovvero il costante ricordo che i rischi esistono anche a scalare in moulinette, allora entra in gioco l’overconfidence. È quindi agrodolce osservare ciò che sta accadendo, in Italia e non solo. L’impressione è che nei prossimi anni si assisterà a una progressiva maggiore presenza generale dell’arrampicata sportiva a livello globale, con la conseguenza che si creerà una ancora più marcata differenza fra l’arrampicata in ambiente e quella indoor. Traduzione: più discipline più accattivanti per i giovani come lo speed nel caso della plastica, più ricerca di pulizia e sostenibilità delle vie in ambiente. L’aspetto positivo, se questa tendenza si confermasse nei prossimi anni, è che si avrebbe un discreto numero di scalatori che si approccia alla plastica e poi, voglioso di toccare con mano la nuda roccia, passa all’ambiente. E c’è da gioirne, a patto che non venga mai dimenticato che la gravità è sempre e comunque più forte di noi.
Vorrei segnalare un errore di citazione nell’articolo sopra riportato : l’articolo già pubblicato in Alpinismi : Cosa centra la Ferrari ecc… è di Francesco Goria, io avevo aggiunto a commento un mio pezzo con apprezzamento di Goria stesso , che riporto di seguito :
IL FATTORE “M” – Una bomba ecologica!
Mutazioni genetiche irreversibili in alcune specie alpine. Si discute animatamente ad ogni livello del c.d. “buco nell’ozono” e dei rischi che il suo accrescersi determina per l’ambiente in generale, per le condizioni di vita animale e vegetale e per l’Uomo in particolare. Il bombardamento di particelle cosmiche, ma in particolare di raggi UV non filtrati dalla fascia di ozono pare possa causare un aumento di rischi tumorali. Potenzialmente l’incremento dell’irraggiamento potrebbe indurre mutazioni genetiche, quantomeno a livello delle forme di vita più semplici. La comunità scientifica è ancora discorde sulla questione ma comunque allertata, le associazioni ambientaliste sono in agitazione, l’opinione pubblica ormai è a conoscenza della situazione. Desta quindi meraviglia come siano passati sotto silenzio gli effetti pur evidenti, ed ormai irreversibili, di un altro fenomeno che ha inciso in profondità sull’ambiente alpino determinando la modifica dell’habitat e, conseguentemente, di areali di tradizionale insediamento di specie autoctone, con la sostituzione progressiva di queste con altre di provenienza esterna, in alcuni casi del tutto nuove, frutto di un processo di selezione naturale, di progressivi adattamenti evolutivi o addirittura di mutazioni dalle conseguenze imprevedibili per il futuro dell’ambiente montano. Per la disamina del fenomeno può essere utile una ricostruzione storico-naturalistica di quanto avvenuto ed ancora sta avvenendo. Limiteremo lo studio all’ambiente montano ed alle modificazioni di alcuni areali tipici delle specie interessate da tali mutamenti, con particolare riguardo e attenzione a quelle ormai destinate alla estinzione. Fino a quindici-venti anni fa la montagna era meno affollata e frequentata. Escludendo gli stanziali, per quanto qui ne occupa si può affermare che l’ambiente montano era popolato soprattutto da una specie di bipedi, irriducibili appassionati, che si aggiravano per monti e valli nell’indifferenza dell’Uomo Comune (Homo sapiens) di cui costituivano una diramazione evolutiva secondaria parallela. Per natura migratori, vivevano in piccoli gruppi, riunendosi alle grandi mandrie delle pianure dopo una sorta di periodica transumanza comunemente definita “vacanza”. La convivenza con i grossi branchi di migratori costieri, che determinavano enormi flussi di migrazione stagionale verso spiagge e località balneari (allora erano ancora allo stato embrionale le specializzazioni in migrazioni aeree e transoceaniche) era da questi appena tollerata. Al di fuori della ristretta cerchia di convinti montagnardi, e di caritatevoli associazioni venivano visti con una certa compassionevole condiscendenza. Sotto l’aspetto della comunicazione e della relazione di gruppo, nei soliti conciliaboli al ritorno dalle vacanze, timidamente cercavano di inserirsi tra il racconto delle follie riminesi ed il resoconto del viaggio nell’est, ma difficilmente i racconti delle loro fatiche trovavano interesse, salvo se, talvolta, condite da episodi di “vera avventura”, come l’incontro con le due ragazze francesi, o quella tedeschina… ! Così coltivavano la loro tantalica passione, incomprensibile ai più, salendo pendii, scendendo chine, girovagando per sentieri, con i loro pantaloni alla zuava, adattamento di un paio di pantaloni di velluto smessi, zaini a pera, spesso residuati militari, scarponi o pedule rigorosamente in pelle, giacche a vento tuttofare e berretti di lana. Con abnegazione sputavano sudore su crode e ghiacciai. L’attività era poco specializzata e le sottospecie si suddividevano in alpinisti ed escursionisti, che occupavano i due areali tipici rispettivamente dell’alpinismo e dell’escursionismo. Areali collocabili in ambiente montano ma che si distinguevano tra loro soprattutto per la quota e/o asprezza dell’ambiente. L’arrampicatore puro era una figura rara, e qualche esemplare si osservava su crode anche di media quota. Ma frequentemente si trattava di alpinisti in allenamento, tant’è che l’areale “arrampicata” non era facilmente distinguibile dall’alpinismo, e conseguentemente l’arrampicatore non lo era dall’alpinista. La specie, nelle sue due diramazioni principali, appunto alpinisti ed escursionisti, sopravviveva a sé stessa nelle riserve dolomitiche, soprattutto, e sui grandi massicci occidentali. Era questione di tempo, ma l’estinzione era certa. Si poteva forse fare ancora qualcosa se non fossero intervenuti fattori nuovi improvvisi e…mutageni. Tutto ad un tratto la montagna grigia, faticosa, dura scuola di vita, ecc. ecc. si colorò. I nostri alpinisti ed escursionisti, così legati all’ambiente ed ai loro areali di riferimento, persero improvvisamente la loro protezione mimetica. Apparvero improvvisamente evidenti, brutti, grigi, anacronistici, facili prede esposte agli antagonisti. In breve si innescò un fenomeno simile a quello che nell’ottocento vide la scomparsa delle farfalle bianche, e l’affermarsi di quelle nere, prima mai viste, nelle aree carbonifere delle isole Britanniche. Cosa era accaduto? La montagna si era popolata di una moltitudine di esseri colorati, vocianti e agitati. Maglioni sgargianti in fibre tosate a greggi sintetiche, zaini variopinti dalle forme anatomiche, ergonomiche, atomiche. Scarponi, scarponcelli, pedule traspiranti, assorbenti, deodoranti, semoventi. Bandane piratesche, fasce cefaleiche, berretti sepolcrali. Le due sottospecie primordiali, l’alpinista e l’escursionista vennero pian piano allontanate e soppiantate dalle nuove. L’alpinista, specie più ipsofila, sopravvisse un po’ più a lungo, vivendo a quote più elevate in ambienti più selvaggi e meno accessibili. Spinto dalla pressione di branchi provenienti dal fondovalle e dalle pianure dove un virus aveva colpito larghi strati delle mandrie delle grandi pianure. Sì, perché di un virus si trattava, un virus mutageno che nelle due sottospecie consentì la sopravvivenza dei soli mutanti, determinando la progressiva scomparsa degli archetipi rimasti. Anche se per ragioni diverse dall’interesse alla conservazione delle due sottospecie, vennero comunque effettuati studi approfonditi ad ogni livello, finché fu isolato il fattore mutageno. Un fattore che agendo sull’habitat tipico delle due sottospecie determinò, oltre al mutamento di questo, la mutazione genetica di alcuni individui. La selezione naturale ha poi fatto il resto dato che gli archetipi si riproducevano con minor facilità dei mutanti. L’ambiente scientifico una volta identificato il virus come elemento mutageno, individuandone anche gli effetti congiunti e sinergici sull’ambiente e sugli individui, lo definì “fattore M”.* Le mutazioni più evidenti sull’ambiente si ebbero con la scomparsa immediata dell’escursionismo, tradizionale definizione del tipico areale dell’escursionista, sostituito dal trekking, che definisce un areale apparentemente simile, ma le cui caratteristiche intrinseche, non rilevabili se non dagli strumenti, sono letali per l’escursionista. A questo sconvolgimento ambientale seguì per successive mutazioni, il crearsi di areali sempre più ristretti e specialistici quali l’hiking o, addirittura, lo zompering. Dall’alpinismo, per varie mutazioni, ebbero origine il climbing, più o meno free, il bouldering e così via. Caratteristiche delle sottospecie mutanti distribuite nei suddetti areali sono in parte comuni le une alle altre, in parte specifiche per l’adattamento alla specifica area di distribuzione. Possiamo a questo punto affrontare un’analisi comparata tra una sottospecie primordiale e la sua più diretta mutazione. Ad esempio possiamo esaminare il tipo endemico dell’areale escursionismo, l’escursionista, del quale possiamo trovare traccia in buoni e documentati musei, e la sua mutazione, il trekker, tipico del trekking. Orbene all’esame visivo le differenze sono evidenti. Milioni di anni sembrano correre tra l’aspetto dell’escursionista, così arcaico, ed il look del trekker, così trendy. In primo luogo il colore. Come abbiamo avuto modo di dire, l’escursionista ha caratteristiche mimetiche del camaleonte, assume il colore dell’ambiente in cui si muove. Quindi le tinte variano dal grigio al verde, al marrone, con qualche concessione al rosso. Il Trekker è variopinto e sgargiante, coerentemente con l’areale suo proprio. L’escursionista è bruciato dal sole, riconoscibile per le macchie bianche di crema sul naso e gli zigomi ed il colorito disomogeneo nelle varie zone del volto. Il trekker è solitamente uniformemente abbronzato, dotato com’è di filtri solari di varia gradazione. L’escursionista è coperto con pantaloni alla zuava in velluto o lana, calzettoni colorati, camicia di cotone, maglione di lana. Il trekker indossa pile in fleece, underware in transipertex, pantaloni stretch, tessuti ultraresistenti, traspiranti, idrorepellenti. L’escursionista invece è repellente per il trekker. Questa la differenza più rimarchevole e l’elemento determinante la scomparsa dell’escursionista e il parallelo successo evolutivo del trekker, in quanto influisce direttamente sulla riproduzione. Infatti, come noto, l’escursionista suda, e puzza, il trekker traspira. Nessuna femmina, salvo qualche sieropositiva al test della PPM (passione per la montagna), avrebbe mai accolto l’invito a partecipare ad un’escursione di più giorni con pernottamenti in tenda o all’aperto con un escursionista. Come, dormire all’addiaccio!? Follia! Vuoi mettere la proposta di trekking del trekker: che affascinante esperienza out-door! (n.1) Analoghe osservazioni possono farsi per gli altri areali e per le specie ad essi legate. L’arrampicata ha subito mutazioni progressive assumendo le caratteristiche ormai note del free-climbing. L’etologia ci insegna che l’arrampicatore è essere solitario, schivo, concentrato sui propri obiettivi, poco socievole. Qualora socializzi assume un immediata connotazione negativa (arrampicatore sociale) che non si riscontra nel climber (climber sociale!?), il quale si è insediato nei pascoli migliori, di più facile e comodo accesso (pareti di fondovalle, falesie marine, muri artificiali) che attirano molto di più rappresentanti dell’altro sesso. Ciò facilita quindi, come nel caso del trekker, l’accoppiamento e la riproduzione, a scapito dell’arrampicatore classico, confinato su pareti che richiedono lunghi avvicinamenti e abbondanti sudorazioni, in zone dove pascolano poche femmine rispetto alle mandrie che si osservano nell’areale climbing. Destinato alla totale estinzione è poi, come dicevamo, l’alpinista, specie ipsofila per eccellenza. Se ne possono osservare ormai rari esemplari in remote regioni alpine ed extraalpine, comunque sempre lontane e distanti dalle zone di maggior richiamo turistico. Una richiesta di aiuto ad associazioni ambientaliste internazionali sembrava aver sortito un qualche esito. In effetti una grande organizzazione mondiale per l’ambiente (WWF), ha adottato come proprio “logo”, abbinandolo al modello di una nota casa automobilistica (Fiat Panda) che ha sponsorizzato l’operazione, l’immagine dell’alpinista classico, in abbigliamento pesante, ghette, guanti e passamontagna bianchi. Ma gli sviluppi non lasciano ben sperare: l’opinione pubblica lo ha confuso con il più noto Ailuropoda melanoleuca cinese! Note: n.1 : c’è chi teorizza l’esistenza di un nesso tra il termine anglosassone ed il suo richiamo letterale alla gitarella fuori porta, più nota come “camporella”, come ulteriore contributo alla spiegazione del successo riproduttivo delle neospecie in esame.
* PS: il fattore M in ulteriori studi è stato meglio descritto e quindi definito: Marketing. I suoi effetti si notano in numerosi altri settori e ambienti. Il contagio è dato da sovraesposizione a MM (mass media). E’ altresì accertato che ormai è pressoché impossibile rimanerne immuni. Non è stato ancora individuato alcun vaccino.
Nelle pianure e nei fondo valle il fattore M ha imperversato sviluppando in tempi più recenti la sindrome del nordic walking, anomalia evolutiva che implica il trascinamento di prolunghe degli arti superiori, che forse ha impedito il ritorno alla classica deambulazione dei primati con appoggio delle nocche della mano.
Marco Boldrini
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