di Massimo Bursi, pubblicato sulla Rivista della Giovane Montagna in data 1 Marzo 2019
L’asso di arrampicata del momento si chiama Alex Honnold, un talentuoso scalatore californiano di 33 anni che dal 2008 si lancia, dopo opportuna preparazione, in strabilianti arrampicate in “free solo”, cioè in solitaria, senza corda, senza imbragatura e quindi senza alcuna possibilità di rimedio al benché minimo errore di salita. Alex è comunque un alpinista completo, visto che ha compiuto imprese di altissimo livello, come ad esempio la prima traversata integrale del gruppo del Fitz Roy e la prima traversata in giornata del gruppo del Cerro Torre.
Nel 2016 esce in Italia il suo libro “Nel vuoto. Solo in parete”, che leggo avidamente e che apprezzo poiché mi consente di entrare nella psiche di questo scalatore estremo chiamato con il soprannome di “no big deal” cioè “nessun grande problema”. È un libro che consiglio a chi voglia cercare di capire l’arrampicata estrema degli anni 2000 – lontana anni luce dai classici resoconti di Bonatti! Nel 2017 Honnold compie una solitaria incredibile sul Capitan lungo la via Freerider (grado 7c+ ovverossia IX grado, per 1000 metri di lunghezza). È una salita preparata con estrema cura e coordinata con una troupe di operatori cinematografici sparsi lungo tutta la parete per riprendere ogni particolare. Col materiale raccolto viene prodotto un documentario premiato con l’Oscar a Los Angeles nel febbraio 2019: è la prima volta che un film legato all’alpinismo arriva al grande pubblico con tanto di tappeto rosso da Oscar… Alex Honnold ha successivamente ammesso che si trovava più a proprio agio in parete da solo che non sul tappeto rosso in mezzo a giornalisti e fotografi… e sì che il suo sponsor North Face si era prodigato di confezionargli uno smoking personalizzato in materiale tecnico per farlo sentire maggiormente a proprio agio!
Fatte queste debite premesse, dopo essermi già “saziato” vedendo diversi filmati di questa scalata, mi accingo, una domenica pomeriggio, a casa mia, a vedere questo documentario con lo stesso livello di attenzione e morbosa curiosità di quando trovavo nella cassetta postale le mie prime riviste di alpinismo. Sarà la stanchezza della mia scalata mattutina, sarà il fatto che alcuni spezzoni mi sembra di averli già visti, fatto sta che nella prima oretta del documentario dormicchio, tanto è noioso. D’altronde, l’anno scorso ho assistito ad una conferenza di Alex Honnold e, malgrado la mia eccitazione iniziale, pure lì mi ero addormentato, una serata veramente noiosa: un grande scalatore, ma una persona molto timida, molto introversa e che si trova evidentemente a proprio agio più fra le pareti che fra le persone. Beh, insomma, nella prima ora e venti di questo documentario si alternano interviste ad Alex, ai compagni di cordata, alla fidanzata, al regista e si scorrono le fotografie di Alex all’asilo, a casa con i Lego, alle prime uscite in falesia… fra un sonno ed uno sbadiglio finalmente arriva “la ciccia” dei venti minuti di riprese in parete di questa scalata fenomenale che Alex ha compiuto in poco meno di quattro ore.
Le riprese sono ovviamente super-professionali e di altissimo livello come raramente si era visto prima. Sono venti minuti di adrenalina in cui si rimane letteralmente senza fiato, mi ritrovo con le mani sudate per l’“effetto Carpenter”, e alla fine mi riguardo questi venti minuti di scalata per capire perché non mi sia complessivamente piaciuto. È un film spietato, che disprezza i valori della vita, è un film che morbosamente ci consente di osservare, dallo spioncino, la fatica di uno scalatore impegnato su una via estrema.
Lo trovo una irrispettosa intromissione nei confronti di Alex, così come trovo forzata la decisione della troupe cinematografica di riprendere lo scalatore durante quest’attività così personale e così intima.
Nel film ho visto molta, anzi troppa, spettacolarizzazione, che falsa il rapporto con la parete, poiché credo che una scalata in “free solo” sia una cosa molto intima, che fai e vivi solo per te stesso. Il racconto di quello che hai vissuto e provato in quella scalata deve essere un atto successivo. Quello che mi ha dato fastidio è stata la narrazione in vero “real-time”, cioè filmica, di quello che accadeva in parete, mentre la narrazione meditata, in un libro, la trovo come mezzo più naturale per trasmettere emozioni. Il mio non è un approccio moralistico del tipo “il film spingerà altri ragazzi ad emulare Honnold” oppure “Honnold effettua una sfida mortale che risulta immorale da vedere”, la mia è una sensazione complessiva di intromissione forzata dall’esterno – la troupe – durante una scalata che rappresenta il momento conclusivo di un lungo tormentato percorso interiore fisico e psicologico.
La mia memoria fa un salto nel passato, quando uscì il film “La vita sulle punta delle dita”, anni 80, con Patrick Edlinger che scalava “free solo” in Verdon. Allora noi giovani scalatori avevamo fame di fotogrammi estremi che ancora non erano disponibili e sui quali sognavamo ad occhi aperti. Quel film scatenò analoghe forti emozioni; anche in quel caso ci furono moltissime critiche per il rischio di emulazione, anche se poi in realtà, anziché spinte emulative suicide, quel film ha contribuito a far decollare l’arrampicata sportiva, che allora si chiamava ancora free-climbing.
Eppure mi è sembrato molto più leggero, spensierato, e alla fine entusiasmante, anche se Patrick, come Alex, danzava con la morte. Passati trentacinque anni, si è dovuto alzare l’asticella ad un livello veramente impensabile, e quindi si soffre assieme allo scalatore, addirittura ho pensato che questo film sia un po’ canzonatorio nei nostri confronti – “noi, gente normale per cui continuare a fare il solito 6a, nonostante gli anni, figli, acciacchi, lavoro, è un quotidiano successo” – ed alla fine le scene che ricordo maggiormente sono quelle in cui, nel back-stage, l’operatore alle riprese si allontana dalla telecamera nei momenti in cui Alex sale le sezioni più difficili e critiche dell’intera salita e ritorna rilassato alla telecamera quando lo informano che Alex, nonostante tutto, non è caduto.
L’eventualità di vedere e riprendere deliberatamente un uomo che può morire è ancora, per fortuna, difficile da accettare. Quale sarebbe stato il seguito se Honnold fosse caduto? Fare vedere la sua morte in diretta solo perché lo spettacolo deve comunque continuare? Immagino ora cosa dovrà inventarsi Honnold per far parlare ancora di sé. Io una piccola idea l’avrei e gli scriverò invitandolo a scalare in Marmolada la via del Pesce in “free solo”, giusto per contrapporlo con l’analoga impresa di Hansjörg Auer. Sono curioso di confrontare i due stili. Per chi non lo ricorda, Hansjörg Auer, nell’aprile del 2007, si è calato lungo la via del Pesce, ha studiato i passaggi più difficili e l’indomani l’ha salita in “free-solo”. Per puro caso una cordata che saliva sulla vicina via Don Quixote l’ha visto e fotografato, altrimenti questa salita sarebbe forse passata inosservata, a meno di una segnalazione da parte dello stesso Hansjörg. Quindi uno stile spontaneo e “artigianale” … beh, questo è lo stile che ci piace!