di Flavio Ghio
(pubblicato su Le Alpi Venete, aut-inv, 2023-24)
Quello che segue è l’introduzione a un testo più lungo, che tenta di riempire, quarantatré anni dopo, la pagina bianca più famosa della storia dell’alpinismo: quella del controverso articolo di Gian Piero Motti: Zero the Hero.
Il ragionamento su cui ruota l’intero scritto si può così riassumere.
Il nostro approccio alla montagna è caratterizzato dalla cultura e, siccome montagna e cultura sono realtà diverse, la loro unione è problematica.
Da un lato, i crolli di vie che hanno fatto storia e le vicende di chi non ha fatto ritorno, evidenziano la durezza e la refrattarietà della montagna; dall’altro le gioie vissute lassù ci fanno sentire in debito con lei. Poiché il nostro sentimento verso la montagna non segue il bilancio del dare e dell’avere, abbiamo cercato di risalire alle origini della positività e della negatività della nostra esperienza per non consegnarla interamente al caso e alla fortuna.
Abbiamo esaminato i desideri che ci muovono verso i monti, realizzati e interrotti, trovando nel tempo la loro radice comune. Così è stato possibile vedere l’arrampicata come il risultato della sintesi tra desiderio – che è tempo – e la parete che è spazio. In cima questa unione si scioglie.
Il desiderio da un lato si sente soddisfatto, ma dall’altro la tensione temporale, che lo costituisce, non trova più uno spazio verticale in grado di sostenerla.
Il desiderio non può temporizzare la statica ieraticità della cima. Così deve cancellarla dal suo presente, collocarla nelle Antiche Sere del ricordo, frequentarla solo con la mente. Assieme al suo corpo, invece, inizierà a cercare un Nuovo Mattino, che assumerà la forma della Cima del Giorno Dopo.
Quella che viene chiamata discesa, che normalmente è ritenuta la conclusione del ciclo, in realtà è l’inizio della salita alla cima che verrà.
Così la vita di un alpinista si basa sulla ripetizione di due temi, la salita e la discesa, la cui esecuzione risulta tanto più difficile quanto più spinto è il tentativo di azzerare la distanza tra il soggetto e l’oggetto del desiderio, immaginato presente e mai raggiunto realmente.
La cima è la pietra di confine tra due territori, la natura che si può conoscere attraverso una salita e la natura estranea all’alpinismo.
Per la sapienza orientale la cima è un ponte verso una conoscenza superiore o illuminazione.
Per noi occidentali la cima è una ferita che il desiderio può suturare rincorrendo nuove cime.
La cima è uno specchio da attraversare, davanti il piacere di essere arrivati, dietro il dolore di non essere accolti. Il nostro destino si svolge sotto questo cielo.
Per spiegare l’alpinismo, parliamo delle nostre salite.
Salite e montagne sono sinonimi. In montagna ci sentiamo più liberi, anche se portiamo i segni della nostra cultura che sono diversi da quella precedente e da quella che verrà.
La natura, invece, è refrattaria alla cultura. Il crollo di un pilastro o di un diedro mostrano una distanza dall’alpinismo, sganciandosi anche dal linguaggio, dalla storia delle salite. Ci rende perplessi sapere di salite che hanno fatto storia, come il Pilastro Bonatti al Dru e il Diedro Livanos alla Su Alto possano avere l’incipit delle favole: C’era una volta…
Ci crediamo giocatori, ma siamo giocati e poi cancellati dalla natura.
Vorremmo avvicinare, per quanto possibile, il punto zero di questa asimmetria, sentire il respiro di questo buco nero, capire come si lega alle gioie e ai dolori di cui è costellata la frequentazione della montagna. Questa è una possibilità dal momento che parlare direttamente della gioia e del dolore, quando ci superano, è impossibile.
Andando in montagna cerchiamo di orientare il nostro transito verso qualcosa di più forte e duraturo. Giunti in cima troviamo uno spazio inafferrabile. Possiamo stringere la mano del compagno, non quella della cima. Crediamo di aver saziato un nostro desiderio, ma dentro siamo più affamati che mai.
Le cime sono la discarica dei desideri placati. Il tempo, passando, se li riprende e li porta nell’Ade dei ricordi, dove lo spazio non può entrare e restituire loro la primitiva tensione. Possiamo rivederli con l’anima, lasciando fuori il corpo. Questo abbandono del corpo, che per il mistico è ascesi, per noi è amarezza.
Per fortuna il Medioevo è lontano. Secondo Dante, l’aver nostalgia per la carne porta alla dannazione; verremmo collocati nel secondo cerchio dell’inferno fra «i peccator carnali, che la ragion sommettono al talento».
In cima, la nostra tensione desiderante non può rimettere in circolo la corrente del desiderio, perché senza un salto verticale la turbina del desiderio non può girare. Così dobbiamo scendere e riprendere il nostro ciclo fatto da mete che non sono una meta. Uscirne è impossibile.
La cima è un punto apicale, non sta nel mezzo come un ponte, mentre noi siamo sempre in mezzo al tempo. Sulle cime siamo morti «mille volte, senza mai morire», come il Velasquez cantato da Roberto Vecchioni.
Forse la cima ci invita a cambiare, ma bisognerebbe avere orecchie per intendere ciò che non possiamo capire. Fermare la corrente del desiderio è l’obiettivo di altre culture. Per queste, la nostra visione è intorbidita dalla presenza di quel velo di Maia che ci fa perdere tra i molti invece di perderci nell’Uno.
E siccome il movimento è tempo, il tempo ci rende erranti, nel duplice senso di mancanti e vaganti. Dovremmo uscire dal tempo?
I ragionamenti ultimi sulla fine del tempo sono un azzardo, è sufficiente la semplice copresenza del tempo a smentirli.
Per sfuggire a questa situazione, si afferma che il tempo è un’apparenza ed è temporaneo.
Dire che il tempo è temporaneo è una negazione che non nega, ma afferma la sua qualità fondamentale.
La circolarità del ragionamento non si scioglie spostando la sua fine nel futuro, perché il futuro è uno dei modi del tempo. E anche ammettendo che questa fine arrivi, allora dovremmo aspettarci che il tempo, un istante prima esista e un istante dopo non esista: il che è contradditorio, perché l’istante dopo è una misura di tempo, partecipe di quella sequenzialità di cui si predice la scomparsa. Perché questo accada, la scomparsa del tempo dovrebbe essere accompagnata dalla scomparsa della ragione. In questo caso, non ha senso parlarne.
Per alcuni, la nostra cultura è una casa che brucia, ma è un’opinione, un punto di vista; se per sostenerla si chiama in causa una religione, allora è una questione di fede, ma è stato detto: date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio.
Eraclito (VI-V secolo a.C.) afferma che “la Natura ama nascondersi”, e l’alpinismo che la rincorre da una cima all’altra non è il miglior Dharma per pervenire all’illuminazione. Quanti lo ritengono una pratica per arrivare alla realtà ultima, favoriscono il suo contrario: la trasmigrazione del desiderio da cima a cima, versione alpinistica del mito platonico di Er, il guerriero ritornato dall’aldilà per raccontaci il momento in cui le anime scelgono le loro future reincarnazioni, mescolando casualità e destino.
Un altro aspetto del nostro approccio alla montagna riguarda la sordina messa ai desideri interrotti. Come i vangeli apocrifi sono espunti dal canone alpinistico, i cui riti celebrano il memoriale di quelli andati a buon fine. Per gli amanti della perfezione, i desideri interrotti offuscano la nostra immagine e la storia dell’alpinismo non se ne cura.
Se li analizziamo, scopriamo, non senza imbarazzo, la loro parentela con i desideri realizzati. Entrambi sono caratterizzati da ritorni e da ripartenze da e verso i monti; questa pendolarità rivela che sono figli del medesimo padre, il tempo. È chiaro che il desiderio interrotto ha rinunciato alla cima o non completato la discesa, che è la stessa cosa poiché siamo all’interno di un ciclo. Più difficile è cogliere la criticità di un desiderio appagato, dal momento che ha raggiunto il suo obiettivo. Perché il loro è un movimento pendolare?
In alpinismo, l’accordo del nostro desiderio con la realtà esterna dello spazio si realizza con l’arrampicata, dove il tempo del desiderio s’intreccia con lo spazio della montagna.
Osservando i rari alpinisti dotati di stile perfetto, ci accorgiamo che la progressione verso l’alto – che ai mistici evoca l’ascesi – si appoggia a qualcosa di più originario.
Questi alpinisti dimostrano che andare verso l’alto sarebbe impensabile, se fin dal suo inizio l’arrampicata non unisse due realtà diverse: il desiderio, che è movimento, con lo spazio della parete, in quiete e immobile.
Platone diceva che solo le anime liberate dal corpo possono contemplare le idee, ipotizzare che tra le idee vi sia anche l’idea di arrampicata, la pietra che ci permette di riconoscere cosa sia l’arrampicare.
Invece, far partecipare delle anime legate alla carne all’idea dell’arrampicata – che unisce l’alpinista, che è desiderio-tempo, alla montagna, che è parete-spazio – è un prodigio che riesce a pochi, ma così evidente che anche quanti non hanno mai arrampicato ne colgono il senso.
Che questa non sia una descrizione iperbolica della realtà ordinaria lo ha dimostrato Enzo Cozzolino, che arrampicava con uno stile da stupire non solo Messner e noi, suoi mediocri compagni di corda, ma anche i tanti che, passeggiando nei pomeriggi sotto le rocce della palestra Napoleonica, lo vedevano all’opera. Dopo la sua scomparsa una signora, che non conosceva nemmeno il suo nome, chiedeva: «Non vedo più quel giovane che trovavo qui spesso e che arrampicava così bene… Qui arrampicano bene in tanti, ma nessuno era come lui». Come mai una signora anziana e non-alpinista ha potuto cogliere questa differenza? Perché noi eravamo le brutte copie di quell’idea ed Enzo Cozzolino era la copia che rasentava la perfezione del modello. Così riusciva a toccare le anime allo stesso modo in cui Platone, tra lo stupore dei presenti, ha fatto dedurre il teorema di Pitagora a uno schiavo digiuno di geometria.
Questa sua lezione non scritta non è entrata, fortunatamente, nella storia dell’alpinismo. Sarebbe stata solo un aneddoto per incrementare il nozionismo imperante, non un vettore indirizzato verso quel centro della montagna che non viene mai indagato, anzi evitarlo è ritenuto una dimostrazione di saggezza di buona lega.
Nell’era della comunicazione bisogna rinunciare alla visibilità, se si vuole lasciare ai posteri il vero nella sua purezza originaria. Potrebbero non scoprirlo, ma è un rischio da correre, perché al ricordo di maniera è preferibile il silenzio. In cima il desiderio si scopre insoddisfatto quanto il desiderio inappagato. Entrambi ritornano a valle, alla loro quotidianità, per poi riprendere la via verso le cime.
In cima si scioglie l’intreccio tra la trama dello spazio e l’ordito del tempo. Un tema presente nella nostra cultura fin dalle origini. Penelope, per non legarsi a nessuno dei pretendenti, disfaceva di notte la tela che tesseva di giorno, così l’alpinista non si lega a nessuna cima e, come la regina di Itaca, chiede altro tempo.
Certamente sulla cima c’è gioia, ma dura un attimo, e dell’attimo il signore è il tempo. In cima scompare la dimensione spaziale con cui il tempo del desiderio era in sintonia, quella verticale. Questo significa che raggiunta la cima, l’unità si sgretola.
Il desiderio, non sopportando questa separazione, per ritrovare l’unità perduta si rivolge a nuove cime, prende nuovi appuntamenti che saranno rinviati perché cima e desiderio non possono incontrarsi.
Le cime sono ostiche, un tempo erano abitate dagli dei che, essendo eterni, le comprendevano, a differenza degli uomini che non abitano le cime, ma abitano il tempo.
Gli incontri sono una pagina bianca con una frase che ci riguarda. È di un monaco di Rongbuk. L’ha detta a Mallory e compagni, diretti all’Everest: «Le divinità dei Lama negheranno, a voi uomini bianchi, l’oggetto della vostra ricerca». Il monaco riteneva che gli uomini bianchi possono raggiungere una quota, non la cima. Per noi 8.848 m o 29.035 ft sono la cima, per i Lama la nostra è la cima bestemmiata a quota.
Eraclito aveva espresso a suo modo questa negazione: «Di loro è testimone il detto: pur essendo presenti, sono assenti». Una presenza-assente significa che dell’unità una parte è presente e l’altra assente. L’assenza è una presenza che non viene riconosciuta, come scrive Arthur Rimbaud in Una stagione all’inferno: «Quelli che ho incontrato possono non avermi visto».
Un buon frontespizio per un libro di vetta.
L’oggetto della nostra ricerca è la cima che per noi è una sfinge. Non risolvendo il suo enigma, dobbiamo tornare indietro. L’arrampicata non finisce con un trionfo, ma con una cacciata.
Non potendo dir nulla delle cime, dirottiamo la nostra energia in discussioni sul modo di arrivarci: con il trapano o by fair means, con o senza guida, con o senza ossigeno, da soli o in fila per tre…
Per il monaco di Rongbuk siamo prigionieri del tempo. Sono cambiate le idee, i termini, le mode, le pratiche ma il nodo della cima è rimasto.
E più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un alpinista realizzi in cima l’unità che sperimenta in parete.
Ogni volta che giungo in cima all’Etna provo emozioni che sono estranee alle mie peregrinazioni a bassa quota. Non so se sia il fatto di non poterci andare sempre e comunque – soprattutto per via dell’attività vulcanica – ma mi sembra mi venga concesso un dono speciale.
L’unità con il creato, invece, la vivo giorno per giorno, momento per momento, senza necessariamente aver esaudito particolari desideri, oppure perché il mio desiderio più grande – che è quello di sentirmi accolta dall’Unità e di farmi custode e giardiniere della Terra – è costantemente raggiunto.
Lao Tze disse: “Chi sa non dice. Chi dice non sa”. Zero the Hero non necessita di spiegazioni; la sua pagina bianca deve restare tale, ci si allontana da essa tentando di interpretarla, o peggio di riempirla. Ogni glossa è uno sfregio. Ogni passo è fuori via. Eraclito sosteneva che i più, sia la gente comune, sia i cosiddetti filosofi, i famigerati Polimateis, tentano invano di afferrare il Logos che sempre sfugge. Un giorno chiesi al maestro Engaku Taino (L. Mario): “Cos’è lo zen?” Non mi diede la canonica bastonata di Rinzai. So che l’avrei giustamente meritata, ma il colpo che non c’è stato m’ha lasciato il segno.