Il perdono della foca

di Chiara Baù
(pubblicato su imperialbulldog.com il 7 gennaio 2021)
Foto: Chiara Baù

Due lucidi occhi neri spuntano nel bianco accecante di un piccolo iceberg. È lo sguardo di una foca vitulina (Phoca vitulina ), detta anche harbour seal. A differenza di altre foche, molto più chiassose e socievoli, questa specie non emette versi rumorosi, dimostrandosi timida e riservata. Quando dalla sponda dell’iceberg scivola in acqua ha le movenze di una sirena, tale è la sua grazia in perfetta armonia con la quiete di un paradiso naturale apparentemente inviolato. Mi trovo nello stretto di Prince William Sound in Alaska, uno specchio di mare incuneato tra le impervie montagne che si affacciano sul golfo dell’Alaska e le acque antistanti racchiuse da una moltitudine di isole che lo separano dall’Oceano Pacifico.

 

Questa porzione di mare circondata da boschi che sembrano pietrificati, è stata ferita dall’oro nero della Exxon Valdez, una superpetroliera di proprietà della Exxon Mobil che il 24 marzo 1989 si è incagliata su una scogliera dello Stretto di Prince William, disperdendo in mare 40,9 milioni di litri di petrolio. Circa 2100 chilometri di costa sono stati devastati dall’inquinamento petrolifero, centinaia di migliaia di uccelli e animali sono rimasti imprigionati nella melma nera. Lontre, foche, aquile, cercavano invano di ripulire il corpo impregnato di petrolio, per poi morire intossicate. L’incidente fu causato dalla negligenza del capitano, sembra avesse bevuto cinque bicchieri di vodka prima di lasciare il ponte nel momento cruciale. Conseguenze devastanti anche per la filiera del pesce locale, sostentamento vitale dei nativi.

Agosto. Dopo diversi giorni trascorsi ad osservare orsi grizzly nella penisola del Katmai, in Alaska, atterro ad Anchorage con l’idrovolante e prendo il treno per Whittier, un centro abitato situato nel Census Area di Valdez Cordova, circa 120 km a sud-est di Anchorage. Decido di esplorare questa baia in barca a vela per capire quanto la natura sia riuscita a riprendersi dopo essere stata sommersa dal petrolio. Al porto di Whittier c’è lei, Durlindana, questo il nome leggendario della barca a vela, la cui linea elegante e slanciata si distingue tra le forme più tozze dei pescherecci locali. Durlindana nasce dalla penna dello studio di progettazione navale Sciomachen.

Si tratta di un ketch del 1982, una barca a due alberi, uno a poppa e uno a mezzana, cioè puntato più a prua dell’asse del timone. Lo scafo dell’imbarcazione è in ferro, idoneo ad affrontare l’eventuale impatto con gli iceberg, sì perché il ferro si deforma e non si buca. Un nome importante per una barca importante. La Chanson de Roland vuole che la spada Durlindana sia stata donata ad Orlando proprio da Carlo Magno, che l’avrebbe a sua volta ricevuta in dono da un angelo.

L’etimologia del termine Durlindana potrebbe derivare dal latino durus, cioè resistente. Forti, resistenti, caparbi, pronti a esplorare e avventurarsi negli angoli più inesplorati del mondo sono il capitano della barca e sua moglie. Capitan Andrea: i suoi occhi dicono tutto, azzurri con sfumature di grigi e blu che ricordano come il colore del mare cambi in ogni istante. Naviga da sempre, le miglia percorse a ogni latitudine non si contano. Ha dedicato la vita al mare ed è entusiasta di questa scelta e di condividere momenti ed esperienze per cercare di spiegare cosa ancora lo spinge a spartire la sua vita col mare. Ha all’attivo innumerevoli navigazioni su tutti gli oceani del mondo, venticinque anni di professionalità nel campo delle crociere e delle traversate intorno al mondo. Chicca, sua moglie, ha capelli lunghi e biondi, simili alla criniera di una leonessa, sì perché dotata di una forza e grinta capaci di sfidare i mari più impervi insieme ad Andrea. Laureata in lingue, naviga con Andrea dal 1999, ama vivere a bordo, conoscere persone e perdersi sugli abissi del mondo.

A bordo, oltre ad occuparsi della cucina, è un marinaio attivo, nei ritagli di tempo traduce dal francese e dall’inglese per il Frangente, la casa editrice che ha pubblicato i due libri di Andrea. Mentre le spiagge di tutto il mondo sono affollate di turisti, mi trovo con Andrea e Chicca, in Alaska, su questa barca pronta a salpare per scoprire i segreti di Prince William Sound. Sbrigate le ultime formalità presso la capitaneria, Andrea decide di salpare senza indugio. Non vuole dormire in porto, ma navigare prontamente verso le piccole baie nascoste di Prince William Sound. Il mare è talmente calmo che la barca sembra sospesa sull’acqua. In lontananza si scorgono numerosi puntini neri galleggianti. Sono le lontre di mare che con il loro corpo fluttuante emergono dalla superficie del mare.

Enhydra lutris è un mammifero appartenente alla famiglia dei Mustelidi, sterminato un tempo per la sua pregiata pelliccia e poi reintrodotto. È proprio la pelliccia che lo vede detenere il record del mammifero con più peli al mondo, ben 800 milioni, una specie di giubbotto di salvataggio. La mamma tiene il cucciolo sul ventre come fosse una culla, mentre sta a galla sull’acqua. Ad un certo punto però occorre procacciarsi il cibo e, non essendo il piccolo ancora in grado di galleggiare, la madre, soffiando, riempie d’aria il pelo del cucciolo, come fosse un palloncino, così che il piccolo fluttua come una boa sul mare riuscendo a rimanere a galla.

La caccia per la madre è fondamentale per il nutrimento, dato il consumo del 30 per cento del suo peso ogni giorno. Le lontre pescano pesce e vongole, immergendosi fino a 75 metri di profondità. Hanno il pelo più fitto di qualsiasi altro mammifero, perché sprovvisto dello strato adiposo di cui sono invece dotati altri mammiferi marini. La coda viene usata principalmente come timone e per conservare l’equilibrio. Usano rimanere sulla schiena tutto il giorno, come a guardare il sole, dopo che il nero del petrolio ne ha fortemente ridotto il numero. Andrea, il capitano, mantiene la barca lontana da questo animale, cambiando la rotta a seconda della direzione di nuotata delle lontre. La precedenza è un loro insindacabile diritto.

L’estesa escursione della marea fa emergere per poche ore numerosi piccoli isolotti dove la lontra di mare non si fa sfuggire le rocce emerse su cui allestisce una sorta di piccola spa. È qui infatti che mamma lontra porta il cucciolo e ne striglia le ciocche di pelo come fosse nello studio di un veterinario. Una volta ripulito il cucciolo si rituffa in mare. La madre si allontana per pochi attimi, il cucciolo è estremamente fragile e a rischio di inserirsi nel menu delle aquile dalla testa bianca. Ma le madri sono molto premurose e tengono d’occhio i cuccioli anche quando sembrano impegnate in altre faccende. Ci vorranno almeno 6 mesi prima che i cuccioli diventino indipendenti.

Ci ancoriamo in baie che sembrano appartenere a romanzi d’avventura, in effetti queste piccole anse d’acqua limpida sembrano far parte di un incantesimo, come se la natura devastata dal disastro petrolifero, si sia rigenerata per magia in luoghi ancora più suggestivi. È di questi ultimi anni un neologismo, la solastalgia, a significare una forma di disagio emotivo o esistenziale causato dal cambiamento ambientale, una sorta di nostalgia ambientale. Meglio descritta come l’esperienza vissuta di un cambiamento ambientale percepito negativamente. Eppure con tutto quello che la natura ha subito in questa baia, avverto il potere rigenerante come uno stimolo a credere che l’uomo, conscio del proprio insano agire, voglia rimediare e operare in modo diverso. Persino i salmoni non esitano a mostrarsi con i loro salti acrobatici, esprimendo una naturale e incredibile forza di vita .

A conferma di un nuovo atteggiamento dell’uomo, giunge una notizia recente con l’annuncio da parte delle autorità tedesche di sospendere i lavori della fabbrica Tesla di Grunheide per tutelare una lucertola (Lacerta agilis) che ha in quel luogo il suo habitat naturale. Piccoli segni che fanno ben sperare, anche se la natura è la prima a saper badare a se stessa. Basti pensare alla ghiandaia che osservo dalla barca ferma in rada in una delle innumerevoli insenature della costa. Tutti gli uccelli hanno l’abitudine di prendersi cura del proprio piumaggio, ciascuno a modo suo. La ghiandaia vi provvede col cosiddetto bagno di formiche: si accovaccia sopra un formicaio e distende le ali, in modo che le formiche vi si possano arrampicare, spesso aiutandole col becco e deponendole sulle penne: le sostanze tossiche emesse dalle formiche uccidono i parassiti dannosi per l’uccello, che vengono successivamente eliminati con l’acqua e la lisciatura delle penne. Gli animali non hanno bisogno di alcun vaccino, tanto è la genialità con cui viene escogitata una soluzione per ogni minimo problema.

Ogni sera Durlindana approdando in una baia diversa, getta l’ancora in rada e ogni volta la nuova insenatura sembra darci il benvenuto. Il profumo intenso del bosco si confonde con quello del mare. Dato che da un momento all’altro sulla costa potrebbe far la sua comparsa qualche orso, trascorro le ore col binocolo fisso sul naso prestando la massima attenzione, speranzosa in qualche avvistamento improvviso. Andrea, il capitano, compiute le manovre di ancoraggio, si premura di accendere per breve tempo il motore per scaldare l’acqua e permettermi una doccia calda; in realtà di fronte a paesaggi così coinvolgenti, la doccia è l’ultimo pensiero, tanto più che nei giorni precedenti trascorsi in mezzo alle foreste in un accampamento mobile, dovevo provvedere a lavarmi negli stessi torrenti frequentati dai grizzly per pescare salmoni.

Ogni tanto non manca il tentativo di sbarcare con un piccolo gommone per esplorare la costa, ma l’accesso ai boschi è praticamente impossibile. La vegetazione è molto fitta, non esistono sentieri e un’aura sacra sembra avvolgere l’immensità di queste foreste, anticamente luoghi nativi delle popolazioni indigene Chugah. Una forma di rispetto frena la voglia di esplorare luoghi che appartenevano ad antiche popolazioni sterminate purtroppo, nel passato, dall’uomo.

Lungo tutta la navigazione Durlindana si trova circondata da  ghiacciai estesi che frequentemente si infrangono e sprofondano nelle acque del mare creando la cosiddetta milkygreenwater, acqua verde lattiginosa, che indugia ad assorbire il blu intenso del mare. Andrea si accosta ai ghiacciai con estrema cautela, quasi a spiarli. Il distacco di ingenti blocchi di ghiaccio è all’ordine del giorno col rischio di scatenare onde marine giganti. Sugli iceberg sfilano le foche, dando l’impressione di fungere da guardiane di questi imponenti ghiacciai. Ancora quello sguardo, quegli occhi lucidi. Curiosa, ma anche un po’ intimorita una foca pare osservarmi mentre, incastrata tra le sartie della barca a vela, tento di immortalarla con la macchina fotografica.

Lo sguardo è in un primo tempo intimorito dall’approssimarsi della barca, poi mi sembra di cogliere in quello sguardo un che di amichevole, un messaggio di perdono per il disastro che uomini con pochi scrupoli hanno compiuto qualche anno prima, provocando la morte di migliaia di foche soffocate dal petrolio. Ci guardiamo per qualche attimo, una connessione naturale. La natura è sempre incline ad un nuovo inizio. Per quanti danni abbia fatto l’uomo, ogni animale, ogni pianta, reagisce con forza incredibile, senza mai portare rancore. La foca perdona perché sa quanto forte sia la natura nel trovare soluzioni, nel rigenerarsi, nel soffrire stoicamente in silenzio, quali insegnamenti ancora una volta la natura sappia dare al genere umano. La foca di Prince William Sound mi da la serenità per continuare ad andare avanti contrastando con vigore, quando occorre, leggi ingiuste e vivendo ogni giorno secondo i saggi insegnamenti di Henry David Thoreau “Semplicità, semplicità, semplicità”.

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