Edmund Hillary e Tenzing Norgay sono stati davvero i primi a raggiungere la vetta più alta del mondo? Alla ricerca di una macchina fotografica che potesse riscrivere la storia (2019).
Everest, il più grande mistero
di Mark Synnott
Fotografie di Renan Ozturk
(pubblicato su nationalgeographic.com il 16 giugno 2020)
Adattato da The Third Pole di Mark Synnott, in uscita nella primavera del 2021 pei tipi di Dutton, un marchio editoriale del Penguin Publishing Group. Copyright © 2021 di Mark Synnott.
“Non farlo”, disse. “Sei troppo stanco. Non ne vale la pena”.
Jamie McGuinness, la nostra guida e capo spedizione, mi guardò duramente con occhi infossati e iniettati di sangue. Si era tolto la maschera dell’ossigeno e gli occhiali da sole. Diversi giorni di barba grigia gli coprivano il mento. La sua pelle aveva un pallore giallastro, cadaverico.
Eravamo seduti su un cumulo di rocce a 8443 m sulla cresta nord-orientale dell’Everest, il versante cinese, lontano dalla folla del versante nepalese. Una sessantina di metri sotto di noi c’era il waypoint GPS che avrebbe potuto risolvere uno dei più grandi misteri dell’alpinismo. Nuove ricerche hanno indicato che il leggendario esploratore britannico Andrew Sandy Irvine potrebbe essere caduto e essersi fermato in quel punto. Il suo corpo era ancora lì?
Quasi un secolo fa, mentre scendevano da questa cresta, Irvine e il suo compagno di scalata, George Mallory, scomparvero. Da allora il mondo si è chiesto se uno o entrambi avessero potuto raggiungere la cima quel giorno, 29 anni prima che Edmund Hillary e Tenzing Norgay fossero riconosciuti come i primi ad arrivare sulla cima dell’Everest. Si pensa che Irvine avesse con sé una macchina fotografica Vest Pocket Kodak. Se quella macchina fotografica potesse essere ritrovata e contenesse istantanee della cima, riscriverebbe la storia della vetta più alta del mondo.
Ho scrutato il terreno intorno a me. Una serie di brevi e ripidi risalti era schiacciata tra cenge coperte di neve e detriti in un’area di roccia chiara nota come Yellow Band. Quattromilatrecento metri più in basso, l’arida pianura dell’altopiano tibetano scintillava come un miraggio.
Non avevo dormito quasi per niente nelle ultime 48 ore, ero debole e avevo la nausea per l’altitudine estrema. Da quando ero partito dal Campo Base Avanzato a 6400 m tre giorni prima, ero riuscito a mandare giù solo qualche boccone di curry liofilizzato, una manciata di anacardi e un singolo boccone di una barretta di cioccolato sulla cima dell’Everest, che poi ho vomitato. Ero così stanco che il mio cervello a corto di ossigeno mi supplicava di sdraiarmi e chiudere gli occhi. Ma un residuo di lucidità e ragione capiva che se l’avessi fatto, forse non mi sarei mai più svegliato.
Sentii il rumore di sassi smossi un po’ più in alto. Alzai lo sguardo e vidi il fotografo Renan Ozturk che si faceva strada lungo la cresta verso di noi. Aveva un braccio avvolto attorno al cordino viola fisso che era il nostro cordone ombelicale fino alla cima, dove eravamo diverse ore prima. Si fermò di colpo e si lasciò cadere accanto a me.
Panoramica a 360° dell’Everest
Mi voltai per guardarlo in faccia. “Cosa ne pensi?”.
Renan non rispose subito, il suo petto si gonfiava e si sgonfiava. Alla fine riprese fiato e sentii la sua voce soffocata attraverso la maschera dell’ossigeno. “Dovresti provarci”.
Annuii, mi sganciai dalla corda e feci i miei primi passi timidi lungo la cengia inclinata sulle rocce. Nel momento in cui lasciai la corda, Lhakpa Sherpa urlò: “No, no, no!”.
Gli ho fatto un cenno di saluto. “Devo solo controllare una cosa. Non andrò lontano”.
Ma lui mi implorò di fermarmi. “Molto pericoloso, molto pericoloso!”.
Come scalatore e guida veterano che aveva raggiunto la cima dell’Everest più volte, sapeva che una brutta scivolata sui detriti instabili avrebbe potuto farmi precipitare per più di 2000 metri sul Rongbuk Glacier. Una parte di me era d’accordo con lui e voleva rinunciare. Dopo decenni di alpinismo in tutto il mondo, anche come guida professionista, mi ero ripromesso di non oltrepassare mai alcun limite in cui il rischio oggettivo fosse troppo alto. Dopotutto, avevo una famiglia a casa che amavo profondamente.
Ma ignorai McGuinness, Lhakpa e la mia stessa promessa. Il mistero della scomparsa di Irvine era troppo forte.
Conoscevo da tempo la teoria secondo cui Mallory e Irvine avrebbero potuto essere i primi a scalare l’Everest. Ma ero stato preso dalla febbre di trovare Irvine solo due anni prima, dopo aver assistito a una conferenza del mio amico Thom Pollard, un veterano dell’Everest che vive a poche miglia da casa mia, nelle White Mountains del New Hampshire settentrionale. Mi ha chiamato qualche giorno dopo.
“Non pensi che potresti davvero trovarlo, vero?” chiesi.
Lui ridacchiò. “E se avessi un’informazione particolare che nessun altro ha?”.
“Per esempio?” risposi.
Fece una pausa di qualche secondo. “Come la posizione esatta del corpo”.
Pollard era stato un cameraman nella Mallory and Irvine Research Expedition del 1999, durante la quale l’alpinista americano Conrad Anker aveva trovato i resti di George Mallory su questa parte della parete nord dell’Everest, dove solo pochi scalatori si erano avventurati. Il corpo era stato incastrato a faccia in giù nella ghiaia come se fosse stato adagiato su una lastra di cemento ancora fresco.
L’intera schiena di Mallory era esposta, la pelle conservata era così pulita e bianca che sembrava una statua di marmo. Una corda recisa legata attorno alla vita aveva lasciato segni di corda sul torso, indizio che a un certo punto Mallory aveva probabilmente fatto una brutta caduta. Ciò che mi colpì di più fu il modo in cui la gamba sinistra era incrociata sulla destra, rotta sopra la parte superiore dello stivale, come se Mallory stesse proteggendo l’arto ferito. Qualunque cosa fosse successa, sembrava chiaro che Mallory era vivo, almeno per poco, quando era arrivato al luogo del suo riposo finale.
Anker e i suoi compagni di ricerca inizialmente hanno pensato che il corpo fosse di Sandy Irvine, perché è stato trovato quasi direttamente sotto il punto in cui la piccozza di Irvine era stata scoperta sulla cresta quasi un decennio dopo la propria scomparsa con Mallory. Mallory era legato a Irvine al momento della caduta? E se sì, come è stata tagliata la corda e perché Irvine non è stato trovato lì vicino?
Altri dettagli sollevavano altre domande. Gli occhiali verdi di Mallory furono trovati nella sua tasca. Significava che stava scendendo di notte, quando non ne avrebbe avuto bisogno? Il suo orologio da polso si era fermato tra l’una e le due, ma era giorno o notte? Mallory aveva fatto sapere che se fosse arrivato in cima, avrebbe lasciato la foto della moglie in cima. Non c’era nessuna sua foto sul corpo.
Non c’era traccia della macchina fotografica, il che ha portato molti storici dell’Everest a concludere che Irvine doveva averla con sé. Ciò ha senso considerando che era il fotografo migliore e avrebbe dovuto sapere che il pubblico britannico avrebbe voluto foto del loro Galahad, come i suoi ammiratori avevano soprannominato Mallory, piuttosto che del suo partner meno noto.
L’ultima persona a vedere la cordata fu il loro compagno di spedizione Noel Odell, che si fermò a circa 7925 m l’8 giugno 1924 per volgere lo sguardo verso la cima. Un velo spesso e cotonoso aveva nascosto le parti superiori della montagna, ma alle 12.50 le nuvole vorticose si sollevarono momentaneamente, rivelando Mallory e Irvine che “si muovevano rapidamente” verso l’alto a circa 250 metri dalla cima, riferì Odell.
“I miei occhi si fissarono su un minuscolo punto nero stagliato su una piccola cresta di neve“, scrisse Odell nel suo dispaccio del 14 giugno. “Il primo si avvicinò quindi al grande gradino di roccia e poco dopo emerse al di sopra; il secondo fece lo stesso. Poi l’intera affascinante visione svanì, avvolta ancora una volta dalle nuvole“.
Finora avevo resistito all’idea di scalare l’Everest, scoraggiato dalle storie sull’affollamento e sui novellini che non avevano motivo di stare sulla montagna, nonché dalle discussioni sui rischi corsi dalle squadre di supporto alla scalata, per lo più composte da sherpa, che portavano sulle loro spalle il peso dell’ego di tutti e talvolta pagavano con la vita quando il Qomolangma, il nome tibetano della montagna, mostrava il suo disappunto con tempeste, terremoti e valanghe.
Questo è stato uno dei motivi per cui non ho mai capito l’ossessione di Pollard per la vetta. Ma mentre continuavamo a parlare nei mesi successivi alla sua lezione, la storia di Mallory e Irvine mi incuriosiva sempre di più. Durante una di queste conversazioni, Pollard mi ha parlato di Tom Holzel, un imprenditore, inventore, scrittore e appassionato dell’Everest di 79 anni che ha trascorso più di quattro decenni cercando di risolvere questo mistero.
Nel 1986, Holzel aveva guidato la prima spedizione alla ricerca di Mallory e Irvine con Audrey Salkeld, un’eminente storica dell’Everest. Ma le nevicate insolitamente pesanti di quell’autunno avevano impedito alla loro squadra di arrivare abbastanza in alto sul versante cinese della montagna. Se le condizioni fossero state migliori, avrebbero potuto trovare il corpo di Mallory, che fu poi scoperto a una trentina di metri dal punto che Holzel aveva preso in considerazione.
La sua idea successiva fu quella di usare una foto aerea scattata durante un progetto di mappatura dell’Everest supportato dal National Geographic e diretto dall’esploratore Bradford Washburn per cercare di individuare il punto esatto sulla montagna in cui uno scalatore cinese sosteneva di aver avvistato il corpo di Irvine. Xu Jing era il vice capo della spedizione cinese che effettuò la prima scalata del versante nord dell’Everest nel maggio 1960. Secondo il racconto di Xu, dopo essere sceso dal tentativo di vetta, stava prendendo una scorciatoia verso il basso attraverso la Banda Gialla (Yellow Band) quando individuò una vecchia salma all’interno di una fessura a circa 8290 m. Al momento di questo avvistamento, le uniche due persone che erano morte così in alto sulla parete nord dell’Everest erano Mallory e Irvine. Quando Xu fornì il suo racconto, nel 2001, i resti di Mallory erano già stati trovati più in basso sulla montagna.
Quando Pollard e io abbiamo fatto visita a Holzel nel dicembre 2018 a casa sua a Litchfield, Connecticut, ci ha mostrato nel suo ingrandimento di 2,5 m della foto di Washburn che c’era solo un percorso che aveva senso come scorciatoia per Xu. Attraverso un processo di eliminazione e un’analisi dettagliata delle caratteristiche del terreno, Holzel si era concentrato su una singola fessura che riteneva fosse la posizione del corpo di Irvine e aveva determinato la latitudine e la longitudine precise per questo punto.
Ho indicato il cerchio rosso sulla foto gigante. “Quali sono le probabilità che sia davvero qui?”.
“Non può non esserci”, ha detto Holzel.
Fu per molti versi un caso fortuito che Irvine fosse riuscito ad arrivare a tentare l’Everest.
Il timido e atletico ventunenne era ancora uno studente universitario al Merton College di Oxford quando il Mount Everest Committee lo invitò a unirsi alla spedizione nel 1923. A differenza dei membri più esperti del team britannico, Irvine aveva un’esperienza di arrampicata limitata, avendo scalato modeste vette alle Spitsbergen, nel Galles e sulle Alpi, lontano dai giganti dell’Himalaya.
E tuttavia, quando il gruppo raggiunse la montagna, questo membro più giovane del team, che il Mount Everest Committee aveva definito il “superman”, si era guadagnato il rispetto dei suoi compagni di squadra e aveva dimostrato la sua utilità riprogettando completamente il loro nuovo equipaggiamento per l’ossigeno. Ingegnere e bricoleur dotato, aveva smontato e rimontato i set per l’ossigeno, rendendoli più leggeri, meno ingombranti e meno inclini a rompersi.
Pochi mesi prima della nostra spedizione nel 2019, sono andato in Inghilterra per visitare l’archivio Sandy Irvine a Merton (mio nonno, per coincidenza, ha frequentato Merton qualche anno dopo Irvine). L’archivio è composto da 25 scatole di documenti, foto e altri cimeli, tra cui il diario di Irvine sull’Everest, recuperato dalla montagna dopo la sua scomparsa. Alto circa otto pollici e largo cinque pollici, con una copertina in tessuto nero, il volume ci restituisce l’entusiasmo giovanile di Irvine.
L’archivista Julian Reid mi ha portato il libro, appoggiandolo su un cuscinetto protettivo in gommapiuma. Ha sfogliato fino all’ultima parola e ha detto: “Quando l’ho letto, mi ha fatto rizzare i capelli sulla nuca”.
Irvine scarabocchiò la sua ultima annotazione la sera del 5 giugno, quando lui e Mallory erano accampati a 7000 metri sul Colle Nord, una stretta sella di neve che collega la parete nord dell’Everest alla cima secondaria nota come Changtse, dove erano pronti a iniziare il loro tentativo di vetta il giorno dopo. Si lamentò sul diario che la sua pelle chiara si era screpolata ed era piena di vesciche a causa del sole. “Il mio viso è una maschera di agonia. Ho preparato 2 apparecchi per l’ossigeno per la nostra partenza domani mattina“.
Ho avuto la stessa reazione di Reid quando ho letto le parole di Irvine, insieme a un profondo senso di tristezza. Quando Irvine è scomparso, aveva la stessa età del mio figlio maggiore.
Prima di poter condurre la nostra ricerca di Irvine, abbiamo dovuto acclimatarci all’alta quota e testare le nostre armi segrete: una piccola flotta di droni. Ozturk, un talentuoso regista, è anche un autoproclamato “nerd dei droni” e sperava di usare questi veicoli aerei senza pilota per cercare non solo la cosiddetta fessura di Irvine, ma anche sull’intera parete nord della montagna.
Il 1° maggio 2019, il nostro team era seduto attorno a un tavolo pieghevole nella tenda da pranzo, appollaiata a 6400 m su una piattaforma di pietra all’Advanced Base Camp, sul bordo dell’East Rongbuk Glacier. Faceva caldo e la tenda era aperta, il che mi dava una vista perfetta della parete nord-orientale dell’Everest. Un pennacchio di neve, come la coda di un drago bianco, si estendeva dalla cima per chilometri.
“È un ciclone di categoria 4”, ha detto McGuinness, indicando un vortice dai colori vivaci nella baia del Bengala sul suo portatile. “Potrebbe scaricarci addosso trenta centimetri di neve nei prossimi giorni”.
Il nostro piano era di far volare i droni dal Colle Nord il giorno dopo. Eravamo impazienti di testare le loro capacità ad alta quota. Ma McGuinness era scettico. “Potrebbe esserci troppo vento lassù”.
Aveva ragione. Le raffiche sul Colle Nord un giorno e mezzo dopo erano così forti che Ozturk non riuscì nemmeno a riportare indietro il primo drone. Dovette farlo atterrare lì vicino per recuperarlo.
Quella notte ci siamo rannicchiati nella nostra tenda mentre la tempesta diventava più forte. Ora eravamo 600 metri più in alto rispetto al Campo Base Avanzato, avevo una tosse lancinante e mi sentivo apatico e leggermente nauseato, come se soffrissi di una combinazione di influenza e di una brutta sbornia. Mentre il mio mal di testa aumentava, aumentava anche il vento, il tessuto della tenda sbatteva con violenza. Qualche tempo prima di mezzanotte ho sentito quello che sembrava un 747 che decollava sopra le nostre teste. Pochi secondi dopo la tenda era schiacciata e io ero trattenuto dalla mano di un gigante invisibile. La raffica è durata solo pochi secondi prima che la tenda rimbalzasse, ma sapevo che ne sarebbe arrivata un’altra.
Nelle due ore successive la tempesta aumentò, fino alle 2 di notte circa, quando una raffica mi schiacciò la testa a terra e sentii la mia guancia premere sul ghiaccio sotto la tenda. La montagna tremava come un vulcano sul punto di esplodere. L’ululato furioso ci immobilizzò per 20 o 30 secondi e ricordo di aver pensato tra me e me: è questa la sensazione che provi prima di morire? I pali della tenda scricchiolavano, il tessuto di nylon ricoperto di brina mi schioccava in faccia mentre pezzi frastagliati di palo spezzato tagliavano a brandelli il nylon giallo. Pregai che i picchetti di bambù che ci assicuravano alla montagna reggessero.
Quando finalmente il sole sorse, mi sedetti, puntellando con la testa che mi pulsava la tenda accartocciata su di me. I miei due compagni erano rannicchiati in posizione fetale accanto a me, diedi loro una gomitata sulle gambe per assicurarmi che fossero ancora vivi. Quando strisciai fuori dalla tenda, una scena di totale devastazione mi tolse il fiato. Ogni tenda era distrutta e rotta, e una, che era decollata come un aquilone, stava volando in aria a circa duecento metri sopra di noi.
Alzai lo sguardo verso la cresta e vidi un gruppo di scalatori indiani che scendevano verso il nostro campo mentre un’altra raffica ci colpiva. All’improvviso, tutti urlavano. Quattro persone erano in bilico sul bordo di una parete di ghiaccio alta 300 metri, attaccati a una corda fissa come addobbi natalizi. Un membro del nostro team si tuffò sul picchetto cui era legata l’estremità della corda fissa e lo martellò con la sua piccozza per rinforzare l’ancoraggio, mentre altri usarono una seconda corda per tirare indietro gli scalatori in salvo.
“Andiamo via da qui” dissi.
Abbiamo avuto più fortuna con i droni una settimana dopo. In un ultimo tentativo di cercare la Yellow Band dall’aria, siamo risaliti al Colle Nord e abbiamo guardato con apprensione mentre Ozturk lanciava un drone verso la cima. Mentre il velivolo si sollevava nell’aria rarefatta, io gli ero alle spalle indicandogli dove mandarlo e cosa fotografare. Quando il vento ha iniziato a crescere nel pomeriggio, aveva scattato 400 immagini ad alta risoluzione dell’area di ricerca, incluso un primo piano del punto di Holzel.
In una delle foto, ho individuato la fessura ma non sono riuscito a vedere all’interno. C’era il corpo di Irvine dentro? Stavamo per esaurire il tempo per scoprirlo.
La prima finestra per raggiungere la vetta dal versante cinese si è aperta il 22 maggio mentre aspettavamo all’Advanced Base Camp. Dopo due viaggi al Colle Nord, eravamo ormai completamente acclimatati, pronti a partire per la nostra area di ricerca in alto sulla Cresta Nord-est. Ma eravamo tutt’altro che soli sulla montagna. Più di 450 persone erano pronte a salire dal versante nepalese della montagna, dove il Campo Base si era trasformato in un circo notoriamente commercializzato. Altre 200 persone circa aspettavano sul versante cinese con noi. McGuinness diede un’occhiata a questa folla affamata di vetta e disse di no. Avremmo aspettato la finestra successiva.
Nei giorni successivi, nove persone persero la vita sull’Everest, sette sul versante sud e due su quello nord (e già due erano morte una settimana prima sul versante sud, portando il totale a 11). Non dimenticherò mai la sensazione di impotenza che provai guardando attraverso un potente binocolo mentre il trenino di un paio di centinaia di scalatori speranzosi arrancava verso la vetta e mentre giungevano via radio notizie di alcune delle anime sfortunate che non sarebbero mai tornate a casa dalle loro famiglie.
Nel pomeriggio del 23 maggio, ci siamo seduti con il nostro team di supporto alla scalata per discutere della logistica per la ricerca. McGuinness ci aveva assicurato che il team era a conoscenza del nostro piano, ma a quanto pare qualcosa era andato perso nella traduzione. Quando ho descritto la nostra strategia per cercare il corpo di Irvine sulla Yellow Band, hanno alzato le braccia e hanno iniziato a discutere in nepalese.
“Non andremo in cima?” chiese Lhakpa Sherpa. “Un grosso problema”.
Ozturk tradusse per il resto di noi. Numero uno, il team di supporto non voleva che ci allontanassimo dalle corde fisse. Era troppo pericoloso e andava contro le istruzioni ufficiali, hanno detto. Numero due, la vetta era importante per loro. Alcuni del nostro team erano principianti che non avevano mai raggiunto la vetta dell’Everest. Numero tre, volevano trascorrere il minor tempo possibile al Campo III, che si trova a circa 8230 m, ben dentro la Death Zone, dove l’aria è troppo rarefatta per poter sopravvivere a lungo. “Molto pericoloso per tutti”, hanno detto.
Mi voltai verso McGuinness. “Cosa succede? Pensavo che avessi parlato loro della ricerca”.
Scrollò le spalle, a malapena in grado di parlare a causa della laringite. Indicò che aveva effettivamente discusso il piano con almeno alcuni membri del nostro team di supporto a Kathmandu.
Non c’era modo di aggirare il fatto che ora eravamo in tensione con il nostro team di supporto, che era composto da 12 uomini. E nessuno si faceva illusioni sul fatto che saremmo riusciti a scalare la montagna senza di loro. Come praticamente ogni altro team, dipendevamo dal loro supporto e, se se ne fossero andati, la nostra spedizione sarebbe finita.
“Se andassimo in vetta, potrei deviare dal percorso stabilito per cercare la fessura di Irvine sia in salita che in discesa?” ho chiesto a McGuinness.
“Durante la discesa sarebbe meglio”, ha risposto. Inoltre, in questo modo, il terreno apparirebbe lo stesso di come appariva a Xu Jing nel 1960, quando affermò di aver individuato il corpo.
Quando abbiamo chiamato Lhakpa nella tenda da pranzo e gli abbiamo detto che saremmo andati in vetta, lui ha annuito e ha detto OK in nepalese. Nessuno ha menzionato esplicitamente la possibilità che potessi fare il furbo durante la discesa, ma ho dato per scontato che Lhakpa avesse capito, considerando che pochi minuti prima gli avevamo detto che era il nostro obiettivo primario. Ci sembrava che andare in vetta e poi fare la ricerca durante la discesa fosse il compromesso più ragionevole.
Otto giorni dopo, il nostro team raggiunse la cima del mondo e iniziò la discesa. Lhakpa, che chiudeva la fila, mi osservava attentamente mentre studiavo il terreno e consultavo spesso il mio GPS. Quando mi sganciai dalla corda a 8450 metri, urlò: “No, no, no!”.
Rimasi lì, cercando di decidere cosa fare. Nel mio cuore sapevo che era sbagliato andare contro Lhakpa e che mi stavo comportando come uno dei tanti occidentali egoisti. Se fossi caduto o fossi scomparso, Lhakpa sarebbe stato obbligato a cercarmi. E se fossi morto, avrebbe dovuto spiegare ai funzionari cinesi cosa era successo. Ancora più importante, a questo punto della scalata, sentivo che si preoccupava sinceramente di me. E il sentimento era reciproco. Ma ecco il punto: sapevo che potevo farcela. E che Lhakpa mi avrebbe perdonato questa disobbedienza.
Secondo il GPS, la fessura di Irvine era ormai a un tiro di schioppo. Mentre Lhakpa e gli altri guardavano, mi sono incamminato su una stretta cengia ricoperta di detriti calcarei che ricoprivano il terreno a piccole lastre. A pochi metri di distanza, ho calpestato un pezzo che mi è scivolato via da sotto il piede e ho barcollato.
“Stai attento!” urlò Ozturk.
Dopo aver percorso circa una trentina di metri, ho guardato in basso e ho visto un canalone poco profondo che tagliava una ripida fascia di roccia fino alla successiva cengia di neve sottostante. Ricordavo vagamente questa caratteristica dalle foto scattate dal drone. Era lì che Xu aveva preso la sua scorciatoia attraverso la Yellow Band?
Mi voltai verso il pendio, posizionandomi come se dovessi scendere da una scala, e conficcai la punta della mia piccozza nella neve dura come la roccia. La lama d’acciaio scricchiolò mentre perforava la superficie spazzata dal vento. Guardando in basso tra le mie gambe, osservai il vuoto vertiginoso tra me e il ghiacciaio molto più in basso. Diverse centinaia di piedi (impossibile la traduzione in metri, NdR) sotto di me c’era la terrazza di neve dove era stato trovato Mallory. Ora ero più o meno direttamente sopra il suo luogo di riposo, su una parte della montagna dove la gente non va se vuole tornare a casa viva. Controllai di nuovo il GPS. La freccia sulla bussola indicava a nord-ovest. Altri quindici metri.
Dopo essere sceso per qualche metro, mi sono fermato su un blocco di calcare marrone chiaro. Il risalto era alto circa due metri e mezzo e ripido come uno scivolo da parco giochi. Sarebbe stato irrilevante quasi ovunque, ma quassù, nel mio stato di esaurimento, da solo e senza corda, mi spaventava. Ho guardato su per il canalone e ho pensato di risalire da dove ero venuto. La prudenza mi imponeva di tornare indietro, ma la mia curiosità era più forte. Con la punta della mia piccozza ancora nella neve, sono sceso sulla roccia, dove i miei ramponi hanno iniziato a scivolare, producendo un rumore di graffio come di unghie su una lavagna.
In fondo al risalto ho preso qualche respiro profondo. A tre metri sulla mia destra c’era una piccola nicchia circondata da una parete rocciosa un po’ più alta e ripida di quella da cui ero appena sceso. Il centro della parete era striato da una vena di roccia marrone scuro con una stretta fessura al centro. Il GPS diceva che ero arrivato. Fu allora che mi colpì: la roccia scura era la “fessura” che avevamo visto con il drone. Chiaramente un’illusione ottica. La fessura al centro era larga solo poco più di una ventina di centimetri. Troppo stretta perché una persona potesse strisciarci dentro. Ed era vuota. Lui non è qui.
Il pendio era troppo ripido perché potessi sedermi, così piantai il piede destro di lato in una chiazza di neve e appoggiai il ginocchio sinistro alla montagna. Curvo sulla mia piccozza, con il mento sul petto, respiravo l’ossigeno dalla maschera, cercando di liberarmi dalla nebbia che avevo in testa. Quando guardai di nuovo in alto, sbattendo le palpebre al sole di mezzogiorno, la fessura era ancora vuota. In alto, la cima luccicava contro un cielo azzurro pallido, immutabile e indifferente, come sempre, a coloro che cercavano di svelarne i segreti.
Avevamo seguito ogni pista e scandagliato i pendii della montagna con i droni, e io avevo rischiato la vita per risolvere uno dei più grandi misteri dell’Everest. E come tutti gli altri che ci avevano provato, ci siamo ritrovati con più domande che risposte. Cosa è successo a Irvine quel giorno? Dove si è fermato alla fine? Qualcuno aveva rimosso il suo corpo dal pendio, o i venti furiosi o una valanga lo avevano spazzato via nell’oblio?
A tutte queste domande non avevo risposte. Ma avevo imparato qualcosa sulla forza di attrazione dell’Everest che spinge le persone a spingersi così oltre, perché se non avessi seguito le orme di Sandy Irvine, non l’avrei mai percepita io stesso. L’unica cosa che potevo affermare con certezza era che il mistero di Mallory e Irvine sarebbe continuato, forse per sempre. E andava bene così.
Nota
a cura della Redazione
Nel settembre 2024, dunque quattro anni dopo la pubblicazione di questo articolo, resti di Andrew Sandy Irvine sono stati trovati sull’Everest. La scoperta, effettuata da un team del National Geographic 100 anni dopo la scomparsa dell’alpinista con George Mallory, potrebbe aggiungere ulteriori e nuovi indizi a uno dei più grandi misteri irrisolti dell’avventura di tutti i tempi. Vedi il seguente articolo:
L’articolo da’ per scontati due punti chiave della vicenda, e cioe’ che
1) Mallory e Irvine abbiano seguito, o cercato di seguire la cresta (quello che e’ l’itinerario standard odierno su quel versante), e che
2) Odell li vide mentre superavano i First Steps.
Questi due punti sono logici e intuitivi, ma escludono nel modo piu’ assoluto che i due possano essere arrivati in vetta. Questo sia perche’ se davvero erano ai First Steps alle 12.50, erano in terribile ritardo (almeno 5 ore, in base al messaggio di Mallory a Noel), e sia perche’ sembra escluso che fossero tecnicamente in grado di superare i Second Steps.
Per questi motivi, i tentativi di sostenere che ” potrebbero” essere stati i primi salitori hanno portato, negli ultimi anni, a teorie secondo le quali avrebbero in realta’ seguito il tentativo di Norton e Sommerville uscendo in alto dal Gran Couloir, o seguendo un ipotetico itinerario a zig-zag identificato (?) In base alle foto, ma che nessuno ha mai percorso.
Queste ipotesi comportano pero’ che o Odell ha preso lucciole per lanterne, oppure che li ha visti gia’ alla base del nevaio sotto la piramide sommitale – una velocita’ da far invidia a Uli Steck.
Disgraziatamente, le discussioni in rete e tramite libri/articoli hanno da tempo trasceso i limiti di un normale scambio di opinioni, e sono invece diventate degli scambi di insulti e accuse reciproche (vedere per credere).