Kilian Jornet ha attraversato tutti i 4.000 dell’arco alpino per “Alpine Connections”. 82 vette in soli 19 giorni: un vero “test” dei limiti umani.
Abbracciare le Alpi: il progetto di Kilian Jornet
di Benedetta Bruni

Lo scorso agosto, per il progetto “Alpine Connections”, Kilian Jornet ha indossato le vesti da alpinista per collegare le 82 vette di 4000 m delle Alpi senza supporti motorizzati. Ce l’ha fatta in soli 19 giorni, un nuovo record assoluto – che però non festeggia: la vera gioia è stata l’esperienza, come traspare dalla nostra intervista.
Kilian, partiamo subito alla tua impresa “Alpine Connections”. Quale storia vuoi raccontare con questo progetto?
L’obiettivo del progetto era il progetto stesso: passare del tempo in montagna con gli amici, ma anche esplorare di nuovo un’area a cui sono legato. Per farlo, mi sono ispirato a chi è venuto prima di me. Pionieri dell’alpinismo veloce e leggero, persone che avevano già provato questa traversata ma anche alpinisti specifici su vie specifiche: è il caso di Patrick Berhault, delle prime connessioni dei Quattromila di Martin Moran e Simon Jenkins, quelle di Franz Nicolini e Diego Giovannini o di Ueli Steck. Nessuna ricerca della performance o di record da battere. Solo la pura esplorazione delle Alpi collegando le cime senza supporto esterno.
C’è un motivo per cui sei partito proprio in quel periodo?
Ho pianificato il viaggio affinché coincidesse con la fine della SierreZinal, gara a cui ho partecipato, in modo da rendere i miei spostamenti più efficienti. Cerco infatti sempre di ridurre la mia impronta ecologica sfruttando al massimo ogni viaggio.


Hai dichiarato che uno degli obiettivi del progetto sarebbe stato quello di esplorare i limiti umani di fronte all’immensità della montagna. Tu non sei certo uno che non è solito a questo tipo di prove. Cosa ti porti a casa di nuovo da un’esperienza come questa?
Credo che non si smetta mai di scoprire cose nuove sul proprio corpo e mente, e questo progetto è stato un buon modo di esplorare questi limiti. Ma penso che non troveremo mai il limite ultimo: c’è sempre qualcosa che possiamo imparare. È stato molto interessante poter studiare la fisiologia dei limiti del corpo e della mente. Durante questa iniziativa, abbiamo cercato di vedere cosa succede metabolicamente e cognitivamente durante uno sforzo di questo tipo.
Un altro aspetto chiave è stato il rapporto uomo-montagna e la loro profonda connessione. Quanto conta il ruolo di ognuno di noi?
Passare così tanto tempo in montagna ti mette di fronte al cambiamento che sta vivendo. I ghiacciai recedono e il clima sta diventando più imprevedibile. Queste esperienze confermano il mio impegno nel sensibilizzare una protezione urgente di questi luoghi per le generazioni future. Credo però che chiunque possa dare il suo contributo alla causa, anche se piccolo. Secondo me, si tratta di educare gli altri e se stessi sugli impatti del cambiamento climatico, riducendo la nostra impronta, e sostenere pratiche sostenibili per la comunità e oltre.
Passione, fatica, perseveranza. La convivenza di questi elementi per un lungo periodo di tempo e in ambienti sfidanti non è affatto scontata. Come sei riuscito a mantenere la concentrazione per 20 giorni?
L’aspetto mentale è stato molto fondamentale. Credo che la preparazione arrivi dall’esperienza e dal non stressarsi in situazioni pericolose. Mantenere la calma e prendere una decisione alla volta è essenziale per evitare scelte avventate. La difficoltà più grande del progetto è stata la quantità di ore che ho dovuto passare in uno stato di completa concentrazione, ma avevo già previsto che sarebbe stato così e perciò sono partito preparato. Per fortuna, sono una persona abbastanza tranquilla e riesco a mantenere la calma in situazioni rischiose.

Ci sono stati dei momenti più complicati di altri?
Il più difficile tecnicamente è stata la cresta del Diable, che fino all’Isolée ha un grado di 5c e tutta la salita sul traverso è abbastanza impegnativa. Ma la roccia è molto solida e la via piuttosto intuitiva, quindi alla fine non è stata difficile. Anche salire il Grand Pilier d’Ange da destra per evitare la caduta di massi era simile tecnicamente, ma più impegnativo. La cresta sud del Weisshorn è nel complesso e in buone condizioni probabilmente la via più completa. E poi la traversata di Les Droites sulla cresta per evitare cadute è stata molto tecnica e complessa. E infine per attraversare la crepaccia nel ghiacciaio del Brouillard verso l’Eccles è stato necessario arrampicare una parete di ghiaccio molto ripida.
A chi ti rivolgi con le produzioni di Alpine Connections e Into the (Un)known, sulla tua impresa sui Pirenei? Cosa può imparare il neofita della montagna e l’alpinista esperto?
Non sappiamo ancora se Alpine Connections sarà un film, ma in caso credo che sarebbe un’introduzione alla bellezza della montagna per tutti. Per i climber esperti, ma anche per i novizi e per gli appassionati outdoor: rappresenta un’opportunità per riflettere sulle condizioni mutevoli e sulle sfide che affrontiamo per via del cambiamento climatico.

Agli eroi che confondono lo sport con la bellezza suggerisco altre concatenazioni sugli Appennini non meno impegnative. Per esempio una corsa sul monte Teminillo passando dal Terminilluccio e dal Terminilletto, sempre più veloci e sempre più in alto. Oppure una bella gara sui monti di Roma, dal monte Verde al monte Mario e al monte Sacro, per finire in bellezza con il monte Citorio, magari in bicicletta. Del resto se in Senato entrano pure i cani, alla Camera possono entrare anche i ciclisti.