Italia – Francia: 3 – 0
di Alessandra Panvini Rosati
Marco, Ettore, Luca e Franz erano intenzionati ad andare a divertirsi da qualche parte. I soliti quattro passi per mantenere buona la gamba, proposti da Luca. Avrebbero fatto di necessità virtù. Già freddino per arrampicare ma sentieri ancora sgombri o quasi da neve.
Dopo democratiche consultazioni (c’era chi la voleva corta ma vigorosa, chi la voleva lunga e scorrevole, chi la voleva lunga dura e solo per iniziati), decisero per una grosse koalition: la salita al Monte Thabor, dalle Grange di Valle Stretta. Escursione facile, lunga e con un panorama che prometteva di essere ricordato!
Marco non impazziva per le montagne di casa. Nonostante la lontananza, preferiva guidare verso est, dirigersi sulla A4 e perdersi tra qualsiasi montagna tra l’Adamello e la Vetta d’Italia.
Era un pregiudizio, il suo, dettato da nulla se non da un gusto soggettivo. Quelle erano, per lui, montagne che non ridono.
I quattro amici si regalarono due giorni di ferie infrasettimanali, per provare l’effetto che fa il ritrovarsi in montagna quando ci sono solo pensionati, disoccupati o fortunati! Arrivarono a Bardonecchia di martedì, che già faceva rosso di sera. Aria frizzantina e poca gente in giro. Dopo avere sbrigato le formalità in un albergo che, se non fosse stato per loro, sarebbe stato deserto, si misero a girovagare cercando un posto dove fare cena.
Bardonecchia, agli occhi di Marco, appariva come un paesone solido, ordinato, con superflue case abbandonate al buio delle imposte chiuse per troppi mesi all’anno. Ragionava con gli altri su come lo status del possesso di una casa per vacanze avesse attratto non pochi italiani, in anni in cui venivano ancora definiti “borghesi”.
Anche la famiglia di Ettore ne era rimasta invischiata e, trovandosi adesso in ristrettezze economiche, subiva l’impossibilità di vendere quell’unico bene, che si rivelava un fardello costoso, inutile e non commerciabile perché situato in una zona ormai poco appetibile o, meglio, non adatta al nuovo turismo con aspettative, pretese e budget più alti.
Il modo di andare, ma soprattutto di restare, in vacanza era cambiato: si inondavano i giorni di attività, in modo compulsivo, a tutte le età. Andare in vacanza senza mai starci davvero, e dare così ragione a Pascal che diceva “Tutti i problemi dell’uomo provengono da non saper stare fermo in una stanza”, che senso aveva?
Non era meglio fermarsi il tempo necessario a creare una separazione sensoriale tra il solito e l’insolito, sapere apprezzare anche un periodo di maltempo che interrompe la frenesia?
La conversazione accompagnò il gruppo fino al tempo della cena. Scelsero un locale in centro, in Via Medail, leggermente più frequentato rispetto all’albergo. Si accomodarono di fronte alla vetrata che dava sulla strada.
Lasciata da parte la sociologia dell’homo turisticus, si focalizzarono sulla notizia, riportata dai media da tempo ormai, della marcata presenza nel paese di persone extracomunitarie. I quattro lo avevano constatato poco prima, girovagando, e sapevano perfettamente che tale presenza era giustificata dal fatto d’essere a pochi metri dalla Francia. I cittadini di un mondo più disperato cercavano di varcare il confine.
Ettore se ne uscì con una frase difficile: “Io mi sforzo di ragionare con la testa, altrimenti vince la pancia e me li fa vedere come dei pezzi di scarto che nessuno desidera avere come vicini di casa, forse nemmeno io!”.
Nessuno degli altri ebbe il desiderio di ribattere, lasciando smorzare l’interesse per un argomento che non li sfiorava da vicino e che venne dimenticato poco dopo, sostituito da qualcosa che li rendeva più partecipi: l’imminente partita del Toro.
Sul presto andarono a dormire, al caldo della loro camera d’albergo a quattro letti, con la sensazione di avere mangiato troppo, ancora una volta.
Sveglia puntata per le 6 del mercoledì mattina. Durante la notte, resa disturbata da Franz che russava come un indemoniato, Luca si alzò e aprì piano l’imposta per vedere se il meteo stesse mantenendo le promesse: stelle ben visibili! Perfetto.
Sarebbe stata una bella escursione anche se percepì un inizio di vento che lo fece rabbrividire e che avrebbe potuto diventare fastidioso. Il mercoledì diede segni di vita. Colazione con pagamento del dovuto in albergo, un arrivederci e via!
Fuori tutti con gli zaini affastellati, con il tè in borraccia, barrette energetiche e in più qualche frutto rubato al buffet. Bardonecchia era silente, appesa al giorno che doveva iniziare.
Con il taxi di Marco, salirono verso Pian del Colle e poi su per la sterrata che porta al parcheggio alle Grange di Valle Stretta. Praticamente già in territorio francese, nel Briançonnais, comune di Nevache. Luca, lo storico del gruppo, informò gli amici che quella zona era stata Italia fino alla Seconda Guerra Mondiale.
La giornata era tersa e adatta al tipo di escursione che si accingevano ad effettuare, ma il vento proprio non lo avevano messo in previsione. La temperatura era di 0 gradi, tondi tondi. Scarponi indossati, giacche a vento, cappellini e guanti almeno per partire e riscaldarsi le estremità. Chiusa la macchina, un veloce controllo diventato ormai un rito tra loro: “Ettore, hai il kit del pronto soccorso?” chiese Marco.
“Sì, tutto a posto”, rispose Ettore.
“Chi ha la cartina?” chiese Franz. “Io!” rispose Marco.
“OK, direi che non manca nulla, possiamo andare…” concluse Luca.
In salita costante imboccarono la mulattiera. Pochi minuti e furono al rifugio Re Magi, dove Franz tarò il suo altimetro ai 1768 metri segnati sulla porta.
Una coppia di mezza età con un cagnolino stava già venendo in direzione opposta; lei appariva molto infreddolita e non vestita adeguatamente per altezza, temperatura e vento. I quattro li salutarono, come è prassi tra gente che sgambetta sui sentieri. La coppia non sembrò a suo agio nel rispondere al saluto e pure il cane non scodinzolò. Ettore bisbigliò all’orecchio di Luca: “Mamma mia che simpaticoni, saranno francesi?” . Luca si mise a ridere: “Hanno anche vinto i Mondiali, e chi li tiene più?”. Già rimossa la coppia con cane, non videro altre persone in giro.
Questo il bello di potersi regalare dei giorni liberi in mezzo alla settimana! Occasione però non così frequente causa le rispettive occupazioni: tassista Marco, geologo Ettore, informatico Franz, analista finanziario Luca. Tutti liberi professionisti ma liberi fino ad un certo punto.
Iniziarono a salire lasciando il rifugio ben sotto a valle, superando qualche baita ristrutturata di recente e inoltrandosi nel bosco, su per i tornanti. Franz partì subito con un passo da Trofeo Kima e gli altri tre gli urlarono di rallentare, che la montagna era bella se sfiorata piano, interiorizzata e percepita con delicatezza.
Luca, il solito, fece l’esempio calzante: “Franz, perché devi fare una sveltina quando puoi goderti tutto un mondo di preliminari? E vai piano che sennò finisci tutto troppo presto!”. Franz si voltò ridendo e rispose: “Seee, è solo perché non avete il fisico! Tranquilli che oltre alla potenza c’è anche la durata!”.
Ettore ribatté: “Balengo, tu sei l’unico che ha riposato stanotte, russando come una bestia! Noi siamo già stanchi a causa tua; quindi adesso rallenti, disgraziato! E smettila di doparti con gli intrugli che compri”. Il tira e molla durò qualche minuto. Erano amici da sempre: compagni di quartiere Luca e Franz, di Università Ettore e Marco; della sezione CAI tutti insieme.
Arrivarono alla Maison des Chamois da dove iniziava il sentiero vero e proprio, infilandosi in una graziosa valle. Il torrente ritmava il loro passo. Il vento non aumentava ma era fastidioso. Osservarono che in alto già c’era un bel po’ di neve.
Silenziosi, arrivarono alla conca del Prat Du Plan, da dove avrebbero attraversato un ponticello per proseguire poi in salita, osservati dalle pareti del Serous. A sinistra invece si stagliava il Gran Adritto, guglia severa che ospita una via di arrampicata resa difficile più dall’avvicinamento che dalla via stessa, ne sapeva qualcosa Ettore…
Fu Franz, sempre avanti nonostante i rimproveri, a vederli per primo.
“Ehi ragazzi, finalmente qualcuno! Ci sono tre persone che stanno scendendo”.
“Ottimo, così chiediamo se sopra tira un vento boia. Dalla neve sollevata lassù, mi sa di sì. Accidenti!” rispose Luca.
Franz attese gli amici al colletto e insieme guardarono nella direzione da cui sarebbero dovuto scendere le persone avvistate.
“Boh, mi pare che siano fermi. Magari stanno facendo una pausa”, disse Marco. Decisero di andare loro incontro, anche se pareva che fossero fuori traccia, non di molto ma di sicuro non erano sul sentiero verso il Thabor.
“Scusate, ma quelli sono tre ragazzi di colore!” Si accorse Franz.
“E’ vero! Va beh, staranno facendo un giro pure loro, non vedo il problema né mi pare una notizia degna di nota” concluse Ettore.
“Sarà, ma non si muovono. Secondo me sono migranti che vogliono andare in Francia, altro che giro in montagna!” disse Marco.
Arrivati vicino ai tre ragazzi, capirono che l’ipotesi di Marco era l’unica plausibile. Africani, giovanissimi, abbigliati in modo assolutamente non confacente all’ambiente in cui si trovavano. Due indossavano scarpe da ginnastica, il terzo aveva dei sandali. Solo uno dei tre indossava una felpa pesante. Gli altri due portavano maglie a maniche lunghe apparentemente di tessuto acrilico. Vicino a loro, una valigia poco più grande di un bagaglio a mano da cappelliera d’aereo. Nessuno indossava guanti o cappello. Erano fermi ad osservare i quattro amici di fronte a loro. Uno dei tre, il più piccolo, tremava parecchio.
A loro volta, i quattro amici osservavano loro tre. Per un istante Marco immaginò di vedersi dall’alto e pensò che la scenografia sembrava quella di un film western o dei Fratelli Cohen: i 4 dell’Ave Maria fermi davanti ai 3 dell’Apocalisse. In attesa che qualcuno spari. Finito l’istante, decise di sparare per primo: “Ciao, capite l’italiano?”
Nulla.
“Do you speak english?” “Parlez vous francais?”.
“English”.
“Parlano inglese, almeno partiamo avvantaggiati” disse Ettore.
I quattro ragazzi si presentarono ma i tre africani non dissero il loro nome. Parlavano inglese con difficoltà ma fecero capire che volevano raggiungere la Francia e chiesero agli italiani la strada.
“Ragazzi, no… this is not the right way. This is not the way to France! You have to go back to Bardonecchia”. Marco spiegò che da lì non sarebbero mai arrivati in Francia o meglio, da un certo punto di vista, erano già in territorio francese ma avrebbero dovuto salire troppo per poi ridiscendere e non gli pareva che fossero equipaggiati per una salita simile, per di più in mezzo alla neve.
I ragazzi africani però non capivano. Il piccolo tremava sempre di più e cadde a terra.
“Help help! Food… Food…”
Franz si tolse lo zaino e lo aprì: “Porca trota, qui è un casino! I can give you some food but we do not have that much. And you should cover yourself!”.
Luca e Ettore seguirono l’esempio di Franz, per ultimo Marco. Tutti tirarono fuori le barrette, la frutta e i thermos di thè caldo. Il ragazzo venne fatto sedere e Marco capì che aveva la febbre. I migranti si tranquillizzarono alla vista del cibo e capirono che gli italiani erano delle brave persone. O, mettiamola così, erano le sole persone che in quel preciso momento potevano fare qualcosa per loro.
Gli italiani diedero agli africani anche i loro pile, i berretti e i guanti. Usarono anche la metallina di emergenza per coprire quello che stava avendo la peggio. I tre migranti insistevano per proseguire cercando di minimizzare in un inglese stentato il malore del compagno. “It is ok, it is ok, France is ok…”.
Gli italiani non riuscivano a convincerli che da lì non avrebbero raggiunto la Francia, per lo meno quella che intendevano!
“Questi vogliono andare a Gap, o Briançon, attraverso il colle della Scala o come cavolo si chiama, l’ho letto sui giornali, si arrischiano tutti su quel sentiero” disse Franz.
“Sì”, aggiunse Luca. “Ma hanno sbagliato completamente, doppiamente sfigati”.
I ragazzi africani chiesero agli italiani dove fossero diretti, forse nella speranza di poterli seguire. I quattro si sentirono a disagio nel spiegare loro che, in effetti, non erano diretti da alcuna parte se non in cima al Monte Thabor, solo per scattare due foto e poi tornare giù, da dove erano venuti.
“You see, up there? First you get to the Col des Meandes, then you start to climb up hardly, some chains help you. Then you are almost to the top where there is a small Church, there is already a bit of snow. Do you see the Church?”
Spiegare in quel momento, a tre persone semi congelate, di cui uno febbricitante, che quello avrebbe dovuto essere il loro divertimento giornaliero… era quasi imbarazzante. Comunque, capirono che sul Thabor non ci sarebbero mai arrivati, non quel giorno.
Erano le 10 del mattino, il vento non diminuiva, stavano con tre ragazzi che “non dovevano essere lì” e, in sette, non avevano già più nulla da mangiare. Era rimasto solo del tè. Pure sull’abbigliamento erano scarsi, costretti a condividere quello che avevano portato nello zaino.
“Quindi? Adesso cosa facciamo?” chiese Marco “Qui non passa nessuno”.
“Chiamiamo il Soccorso Alpino?” propose Ettore, allargando le braccia in segno di resa.
L’opzione fu subito scartata. Gli africani non volevano rischiare di essere riportati chissà dove e diedero segni di nervosismo e paura.
Gli italiani però si fecero più autorevoli nel chiarire loro che lì, così, non potevano stare. Dovevano tornare a Bardonecchia e organizzarsi in modo più sicuro, più caldo e con una minima possibilità di successo.
“Per intanto, let’s go back to the rifugio Re Magi”, disse Franz.
Nel salire, di fianco al rifugio chiuso, avevano adocchiato una veranda; sempre meglio che stare al vento!
“Listen, believe me, if you stay here you are going to freeze. Now we all go back together and we will see what we can do, OK?” Franz li convinse.
Il ragazzo malato si fece forza e, aiutato da Marco e Luca, iniziò a camminare scendendo. Tornando da dove era faticosamente salito, con l’immagine del fallimento dipinta sul volto. Ci vollero quasi due ore per tornare al Re Magi. Non incontrarono nessuno. Si posizionarono dentro la veranda, tutti compatti nel punto più riparato perché intanto il vento aveva deciso di farsi odiare.
Il ragazzo febbricitante si distese su di una panca e Luca lo coprì con la metallina ma si accorse che era strappata: “’Pagata poco, durata anche meno. Ovvio! E la chiamano isotermica? Va beh… Come non detto”.
Finì che si tolse la giacca a vento per coprire il giovane migrante e rimase con solo la maglia termica.
“Marco, vai giù in paese a prendere del cibo. Sei ancora in tempo. Sono le 12. Spero che i negozi chiudano dopo le 12.30”, disse Ettore. “O magari fanno orario continuato anche se dubito, siamo fuori stagione e qui non è Torino”.
“Va bene, cosa prendo? Pane, salame, biscotti? Forse meglio no salame, magari sono musulmani e non lo vogliono? Cosa ne dite?” chiese Marco.
“Dico che cerca di correre o trovi chiuso, salame o non salame, non starei a fare il sofistico! Poi vai alla stazione a cercare aiuto, ci sarà di certo qualcuno che lavora per qualche organizzazione o no?” disse Franz.
“No organisation please! No police!”. I ragazzi si agitarono gesticolando con le mani a simboleggiare dei grandi NO.
“Va beh, Marco, vai a prendere quello che riesci e poi torna qui. Io non so cosa fare. Come se non bastasse qui i telefoni non prendono! Fosse stata almeno domenica poteva darsi che avremmo incontrato qualcuno!” imprecò Ettore.
“Forse è proprio quello che i ragazzi non vogliono! Ragiona…” ribatté Luca.
Marco, col suo taxi, scomparve giù dai tornanti. Nel frattempo, Franz aprì il kit del pronto soccorso dove teneva anche dell’aspirina. La diede al ragazzo febbricitante.
“Aspirin, good for the fever. Take a tablet with some tea”.
Una delle prime lezioni al corso di pronto soccorso, che avevano seguito insieme nella loro sezione del CAI, era di non sostituirsi ai medici e di non somministrare alcunché soprattutto a sconosciuti. Il rischio era che si potessero instaurare reazioni allergiche. Franz se ne ricordò dopo che il ragazzo aveva ingurgitato la medicina. Ma non ci fu alcuna reazione se non un grande sorriso da parte del nero al bianco, che temette di avere combinato un altro guaio.
Si erano fatte le due del pomeriggio. I tre uomini bianchi e i tre ragazzi neri stavano accucciati e infreddoliti all’interno della veranda, in attesa di Marco. Ognuno pensando a cosa fare: come offrire un aiuto e come andare verso un mondo migliore. Marco tornò poco dopo. Tutti sorrisero nel vedere che reggeva due borse piene di roba da mangiare e pure quattro coperte con orribili gattini rosa.
“Non dite nulla. Raccattate da un cinese in centro paese che vende dalla lacca per capelli ai lumini per i morti. Credo che siano quanto di meno caldo ci sia sul mercato ma meglio che un calcio nel culo, no?” disse Marco.
Gli italiani si avvolsero nelle coperte come antichi romani alle SPA, preferendo lasciare gli indumenti tecnici costosi, quindi sulla carta più caldi, addosso agli africani. Diedero il via ad un pic-nic improbabile e nessuno aveva voglia di parlare. Pane, cioccolato, bresaola, acqua, banane, biscotti.
“Where are you from?” chiese Luca.
“Africa”, rispose uno dei tre. “Sì, grazie, quello lo capivo anche da solo, ma Africa where?”
“Gambia, Kanilai village”.
“Ah, ok. Sotto il Senegal se non sbaglio.”
“Yahya Jammeh, not good! ” dissero i due ragazzi, mentre quello malato si era appisolato.
“E chi è?” chiesero gli italiani.
Gli africani raccontarono brevemente di dittatura, di elezioni nel 2016, soprusi, diritti umani negati. Il solito corollario di situazioni ormai impensabili per un cittadino europeo.
“In effetti, è già tanto se so dove sta il Gambia! Da quello che sento, fuggirei anche io…” disse Ettore.
“What are you going to do when you will get to France?”
Gli africani si guardarono negli occhi e risposero: “Work, work? Mosi has a brother in France. He waits for us. We have telephone, no battery”.
“Mosi, is the sleeping one. And you two? What are your names?” chiesero i quattro.
“Bakary and Denìs”.
Gli italiani ripeterono i loro nomi. “Luca, Ettore, Franz, Marco. Nice to meet you, piacere”.
Fu Franz a smuovere la situazione che non poteva durare in eterno.
“Ok, adesso che cosa facciamo con Mosi, Bakary e Denìs?” “Li molliamo qui con i gattini rosa e due biscotti e ce ne torniamo da dove siamo venuti?”
“Tra un po’ sarà buio. Io sono solo e nessuno mi aspetta a casa ma per voi tre è diverso. Comunque vada, bisogna avvisare che il Thabor è più lungo del previsto. E credo si debba iniziare a pensare davvero a cosa cavolo fare. Sarà poco romantico, ma dovremmo anche lavorare domani!”.
I quattro amici convennero che, effettivamente, non avevano la più pallida idea di come muoversi, senza semplicemente salutare, salire sul taxi e arrivederci Valle Stretta! Gli africani non volevano aiuti istituzionali, non volevano tornare a Bardonecchia, ma erano in un luogo sbagliato per raggiungere Briançon.
Marco parlò: “Beh, potremmo portarceli noi in Francia. Abbiamo un taxi! I gendarmi nostri cugini li riportano di qui e noi facciamo l’esatto contrario… e li portiamo di là”.
“MA TU SEI FUORI?” Risposero gli altri tre in coro.
“E dai su, cosa possono mai farci ‘sti francesi? Al massimo ci danno una multa. Faremo i finti tonti, gli italiani, ci inventeremo qualcosa! Saranno mica tutti là a controllare ogni macchina che passa! C’è o non c’è Shengen?” Marco insisteva, sempre più convinto di avere trovato la soluzione.
“Già, noi passiamo con le nostre facce bianche, ma se vedono i ragazzi, che bianchi di certo non sono, secondo te cosa fanno? Ti intimano l’ALT. E tu? Non ti fermi? Ti ricordo che c’è scritto TAXI sul tetto dell’auto targata Torino. Non è che ti nascondi per molto su una strada francese. In questa zona hanno gli occhi ben attenti!” disse Luca.
Mentre gli italiani discutevano su come aiutarli, i tre li guardavano smarriti ma avevano ormai compreso che avrebbero avuto un aiuto. Marco, aggiunse: “Di certo avremmo tutta l’Italia dalla nostra! La lega ci farebbe un monumento! Fuori uno, fuori due, fuori tre!” Franz rise ma era teso: “Marco, sei un balengo!”. Marco rispose: “Quelli della Gendarmerie non si aspettano di vederli passare col taxi! Ce la possiamo fare se aspettiamo il buio!”.
Tira e molla, tira e molla. A volte le cose devono andare in un certo modo.
Gli italiani decisero di scendere con i tre ragazzi in auto fino a dove ci fosse stato campo per i telefoni e di provare a farli mettere in contatto con il fratello di Mosi. I cellulari degli italiani erano ancora funzionanti, comunque con il cavetto per la ricarica in auto. Recuperarono tutte le loro cose: zaini, coperte, la valigia dei ragazzi e Mosi che nel frattempo si era svegliato. Marco scese con Franz e i tre africani fino ad uno spiazzo adibito a parcheggio che conosceva già. Era l’arrivo della via ferrata del Rouas, percorsa un paio di anni prima con la sua compagna. Simpatica donzella che, dopo quell’esperienza, decise di abbandonarlo al suo destino montano e di scegliere un altro! Lì non c’era nessuno, solo sparute automobili passavano sulla carreggiata senza rallentare. Franz scese coi ragazzi e si inoltrò tra i cespugli per rendersi il meno visibile possibile dalla strada. Il telefono prendeva!
Marco tornò in Valle Stretta a recuperare Ettore e Luca. Mentre tornavano allo spiazzo, Ettore parlò: “Adesso finalmente posso capire a cosa serve ‘sto cavolo di multispace che ti sei comprato! Mica a fare il tassista alle Molinette, ma a fare trasporto illecito di migranti clandestini! Mi sto già cagando addosso!”. Luca cercava di mantenersi tranquillo e distaccato ma avrebbe tanto voluto essere altrove, mannaggia a lui e a quando propose quattro passi di allenamento!
Il gruppo si ricompattò. Gli italiani chiamarono i rispettivi affetti per avvisare che avrebbero ritardato, di molto, il loro ritorno. Ettore litigò con la moglie che lo attendeva per una cena di famiglia organizzata da tempo. Marco avvisò la compagna attuale con la quale non viveva, quindi senza particolari obblighi istituzionali da rispettare. Luca chiamò la madre mentendo spudoratamente sui motivi che lo avrebbero trattenuto fuori, magari anche fino a notte fonda. Nell’ascoltare la conversazione gli amici non poterono fare a meno di ricordare John Belushi nei Blues Brothers, cosa che li fece ridere causando una reazione a catena che coinvolse anche gli africani! L’unico che non avvisò nessuno fu Franz. Essere soli a volte aiuta!
Poi venne il momento di Mosi. Doveva telefonare al fratello. Il silenzio calò sulla comitiva che ormai era avvolta dal crepuscolo azzurrognolo del primo vero freddo di stagione. Quando una voce rispose, tutti a modo loro ringraziarono il cielo! Mosì parlo in una lingua incomprensibile per un paio di minuti, non di più. Poi chiuse la conversazione.
“So? Quindi? Did you speak with your brother?” chiese Marco.
“Yes, he is fine. All OK. He is in Laragne”.
“E dove cacchio sta Laragne?” chiese Marco. “Where is Laragne?”
“It’s south, Briançon, waiting for me” rispose Mosi.
“Ok, ragazzi. Adesso che viene buio possiamo portarli fino al confine sulla strada, ma poi devono arrangiarsi. Va bene tutto ma non posso farmi beccare col taxi in territorio francese, troppo oltre confine. Se succede qualcosa e mi sequestrano il mezzo, poi con cosa mangio?” disse Marco.
“Eh, grande idea la tua!” si intromise Luca.
Ettore tranquillizzò il gruppo che dava segni di comprensibile sbandamento sul come fare a dare una mano senza farsi troppo male.
“Sentite, abbiamo deciso di fare ‘sta cosa e adesso la facciamo. Come ha detto Marco prima, il rischio c’è ma non è che ci possano fare chissà cosa! In Italia non va in galera più nessuno nemmeno per delitti veri!”.
“Ma in Francia forse sì!” precisò Luca.
“Allora sentite: we are going to take you to the border, now. Then sorry but you have to take care of yourself. We can give you some of our equipment and food. Abbiamo dei soldi?” chiese Franz.
Qualcosa avevano, senza esagerare. “We can give you 80 euros” proseguì. Gli africani ringraziarono con le mani giunte e dissero in italiano “Amico! Amico!”.
“Non ci stiamo tutti e sette sull’auto e peraltro daremmo nell’occhio” fece notare Ettore. Si decise per non separare i tre ragazzi, in modo che qualunque cosa fosse successa sarebbero stati insieme. Marco avrebbe guidato il suo taxi, tenendo indosso, solo lui, la giacca a vento. Franz che era il single della compagnia, quindi con meno problemi in caso di fermo, sarebbe andato con loro indossando almeno il pile. Nel caso peggiore, avrebbero avuto un indumento caldo a testa.
Ettore e Luca invece avrebbero atteso i compagni nei paraggi dello spiazzo o del campeggio, poco lontano, senza pile e senza giacche, ma con le coperte. Gli africani misero le loro poche cose in un vecchio zaino di riserva che Marco aveva nel bagagliaio, abbandonando la scomoda valigia. Indossarono i cappellini e le giacche a vento, di almeno due taglie più grandi. Cercarono di mimetizzarsi come escursionisti infreddoliti di ritorno da una camminata.
Ettore e Luca, fantasmi con gattini rosa e guanti, si sedettero su alcuni massi. Erano loro a sembrare dei profughi ora!
Marco li salutò: “Noi andiamo. Se tutto va bene torniamo tra meno di due ore!“.
“E se tutto va male mangerete baguette per il resto dei vostri giorni!“ disse Luca, ridendo nervosamente.
Ettore disse: “Vi aspettiamo qui. Magari vediamo se il bar del campeggio è aperto, anche se mi vergogno ad andare in giro con una coperta rosa, che non è proprio tradizione della Val Susa!”.
“Ciao ragazzi, goodbye guys and good luck!”
“Thank you amico, grasie, grasie”, risposero Mosi, Denìs e Bakary.
Marco accese il navigatore e i cinque partirono lenti, nel buio pesante di una sera qualunque.
… Prendi Viale della Vittoria in direzione di Strada Statale 335 di Bardonecchia/SS335. Procedi in direzione ovest da SP216 verso Via Mallen. SP216 svolta a sinistra e diventa Via Mallen… Svolta a sinistra e prendi Strada Statale 335 di Bardonecchia/SS335 (indicazioni per Frejus/Torino/Rochemolles/Millaures). Alla rotonda prendi la 2ª uscita e prendi lo svincolo A32 per Torino Strada a pedaggio parziale. Continua su A32/E70 Strada a pedaggio… Prendi l’uscita Oulx Circonvallazione verso Gap/Sestrière/Oulx Circonvallazione/SS23 Strada a pedaggio… Continua su Pierremenaud Strada a pedaggio 10…
Alle 22 circa, gli abbaglianti del taxi fecero ritorno da Ettore e Luca.
“Sono qui!” “E sono soli!”. Marco e Franz scesero dall’auto alzando le mani in segno di vittoria!
E ancora una volta: ITALIA – FRANCIA 3 a ZERO!