di Antonio Vasco Cariello
Nel portabagagli della station wagon i larghi sci di Andrea, non tenuti insieme dalla fascetta in velcro, disegnarono una “x” di rumore e disordine, spostando tutto il materiale che Simone aveva accuratamente diviso in regolari parallelepipedi multicolori.
“Minchia, ancora non ti sei comprato una fascetta per gli sci”- gli disse Simone. ”Poi se devi caricarteli sullo zaino ti fa anche comodo per tenere unite le punte, così eviti di lasciarli sbandare a destra e manca quando c’è vento. Oltretutto con tutti i soldi che hai – a parte quelli che devi dare a me per la gita – certo non ci vai in rovina a comprarti una fascetta”…
Andrea ridacchiò e prese posto sul sedile del passeggero. Poi, mentre si allacciava la cintura rispose: “Ascolta un po’… Io lavoro come un mulo sei giorni su sette. Non sono come te che sei sempre in giro a farti le pippe su per i monti. La fascetta me la sono scordata. Ed inoltre proprio per questo pago la guida. Perché la guida ha sempre una fascetta di ricambio per il cliente”. E nel far questo tirò fuori dalla tasca destra dello sportello una fascetta con scritto “Gardener Sport”, in un bellissimo velcro nero.
“Ovviamente non hai nemmeno le pile dell’Artva, presumo”, disse Simone chiudendo il bagagliaio ed avvicinandosi allo sportello. “No, quelle ce le ho” rispose Andrea. “Le ho tolte giusto stamani da un vecchio Walkman a cassetta degli anni ottanta con dentro Trespass dei Genesis. Che dici, secondo te vanno ancora bene? ”, e nel far questo, guardandosi nello specchietto del deflettore si grattò i fitti riccioli castani “E poi”, continuò, “a che cazzo mi serve l’Arva? Sono con una guida…”.
Simone lo fissò per un attimo, senza rispondere. Poi rivolse lo sguardo davanti a sé, accese il quadro e partì.
“Insomma, hai poi deciso che si va a fare? ”chiese Andrea sfogliando una guida scialpinistica nuova fiammante che aveva estratto dal cruscotto; ”vedo qui che ci sarebbe una bella gita proprio sopra la pensione che abbiamo prenotato”.
“Il bollettino lo hai visto? ”gli rispose Simone sterzando in direzione della tangenziale; “Han messo tre marcato durante il pomeriggio; due alla mattina. Se ci diamo da fare sul presto dovrebbe esserci un bel ventaglio di cose possibili. Poi quella gita che dici tu l’ho fatta tre giorni fa col Pellici ed era già stra-tracciata. Non trovi un fazzoletto di neve libera nemmeno se fai i diagonali di cento metri. E non è nemmeno un granché, a dire il vero. Bosco fitto all’inizio, poi due o tre piattoni che al ritorno ti tocca racchettare, ed un canale stretto in cima che oltretutto è anche in contropendenza. Secondo me possiamo trovare di meglio”.
“Ok” rispose Andrea; ”come sempre mi affido alla mia guida di fiducia; sono certo che non resterò deluso, non è vero”.
“Certo che no”, rispose Simone. Intanto l’auto aveva già passato la barriera di Torino centro ed aveva imboccato l’autostrada verso Ivrea – Quincinetto, porta di accesso alla favolosa Val d’Aosta.
Andrea faceva scialpinismo con Simone da molti anni. Insieme avevano fatto gite in tutto l’arco alpino, dalle Marittime alle Dolomiti Orientali. Con la sua buona tecnica di discesa e il buon allenamento alla salita, mantenuto durante l’anno con quotidiani e faticosi allenamenti, Andrea avrebbe tranquillamente potuto andare a far scialpinistiche da solo, con altri soci, o aggregandosi ad uscite CAI di Torino. Ma ad insistere perché si affidasse sempre ad una guida era sempre stata Elena, dicendo che solo in questo modo sarebbe stata sufficientemente tranquilla nei suoi lunghi periodi di assenza.
Già, Elena; per Andrea era al tempo stesso croce e delizia della sua vita. Imprevedibile, passionale, di umore altalenante; mai possibile prevedere – con lei di mezzo – che cosa sarebbe accaduto nel giorno o nella notte. E poi c’era il problema della sua bellezza; anzi, della sua inspiegabile avvenenza. Nonostante qualche trascurabile difetto fisico, non c’era uomo che non si girasse a guardarla quando passava; nessuno che, alle serate con gli amici, magari non sapendo che era accompagnata, non buttasse giù qualche subdolo complimento. Forse era l’odore della sua pelle, che gli uomini percepivano inconsciamente; oppure un certo non so che nel suo modo di guardarti o di camminare. In ogni modo Andrea avrebbe solo voluto che fosse un po’ meno bella, così da star tranquillo che nessuno avrebbe nemmeno provato ad insidiare il loro rapporto, ormai risalente negli anni e dunque – inutile negarselo – potenzialmente esposto ai rischi di improvvise, per così dire, correnti d’aria primaverili….. Lei, in ogni modo, era stata piuttosto indifferente alla scelta di Simone come guida fissa; per lei una guida valeva l’altra, anche perché non era in grado di capire alcunché di montagna, sci, arrampicata e quant’altro, né vi era in alcun modo interessata. Per lei la passione di Andrea sera solo un qualcosa da sopportare e tollerare pazientemente, inquadrandola e armonizzandola senza eccessive spigolosità nella loro dinamica e vivace esistenza cittadina – cui, sia detto per inciso, Elena aveva seccamente rifiutato di rinunciare quando, alcuni anni prima, Andrea aveva timidamente proposto un trasferimento in montagna.
Difatti, che cosa ci avrebbe fatto lei, in montagna? Non le piaceva il freddo, il vento, la neve, il maltempo; non era interessata a sciare o arrampicare; la gente era tendenzialmente chiusa, riservata, poco incline alla convivialità ed alla socializzazione; il mare più vicino era uno scialbo ed inquinato adriatico e ci volevano tre ore mezzo, coda esclusa. Niente da fare, aveva risposto ad Andrea. Trasferirsi in montagna avrebbe significato la fine del loro rapporto; la divisione delle loro strade. Così Andrea aveva, sia pur a malincuore, rinunziato; lasciando alla montagna solo un angusto, ma ineliminabile, spazio faticosamente ritagliato nel suo poco tempo libero.
Simone aveva comunque iniziato, in un modo o nell’altro, a far parte della loro vita. Al di là delle due o tre giornate mensili che Andrea – a tariffa, ovviamente, agevolata – gli prenotava sempre e comunque, Elena lo aveva spesso invitato a cena; sia con loro due soltanto, sia a serate con amici; ed in queste Simone aveva spesso costituito, per così dire, una specie di elemento misterioso ed affascinante, poiché dedito ad una professione – o forse, addirittura, ad un attività, che gli amici di lei e di lui, di diversissima estrazione sociale, nemmeno riuscivano a capire completamente.
Si era comunque instaurata una certa cordialità tra Elena e Simone, e quando Andrea le comunicava che sarebbe partito per la solita fugace e sospiratissima uscita, lei non aveva mai obiettato niente. E nemmeno quella volta, infatti, ebbe nulla a recriminare.
Entrare in Valle d’Aosta dalla piana torinese ha un che di mitico e magico al tempo stesso.
Non è soltanto l’improvviso elevarsi di montagne altissime e sconosciute nel nome ai più, a dar l’impressione di entrare in un vero e proprio universo separato e differente. I numerosi castelli, che esternamente sono rimasti pressoché intatti rispetto al tempo in cui ospitavano feudatari, corti e cavalieri e che sovrastano sospettosi e guardinghi l’autostrada, immediatamente accentuano nel visitatore l’impressione di austerità che già le montagne, di per sé stesse, con la loro altezza e struttura, comunque suscitano. L’immaginazione vola all’alto medio evo, a carrarecce percorse da mercanti e straccioni in direzione della capitale – già Augusta Pretoria; ad elevati alpeggi in cui sozzi e bruti mandriani, incestuosi e sdentati, prostrati da una natura inclemente e da un ambiente durissimo, pascolavano, mungevano, si riproducevano e morivano nel quasi assoluto isolamento; ai numerosi borghi antichi sparsi lungo la dora in cui una ordinata piccola proprietà contadina e rurale coltivava con alacrità variopinti e multicolori campicelli, che punteggiavano di rosso, giallo, verde, il grigio delle abitazioni in granito e degli spioventi tetti d’ardesia. E sopra tutto questo, austere come i lontani e dimenticati secoli bui, di difficile transito per alte e sconnesse carrarecce infestate da briganti, e in ogni modo scintillanti – malgrado tutto – sotto il sole a piombo nelle luminose mattine di aprile, stavano e stanno ancora oggi lontane ed altissime montagne che arrestano lo sguardo del visitatore e che separano la valle dalla Svizzera e dalla Francia.
L’auto viaggiava spedita nelle strette gole sotto al Forte di Bard. Un sole arancio colorava il granito a bordo strada. La Dora rumoreggiava gelida e potente, sospinta dalla piena dello scioglimento primaverile. Simone disse ad Andrea: “Senti, che ne dici della punta a sinistra della Grande Verte che abbiamo visto l’anno scorso dal rifugio? Passando col Pellici lì accanto, tre giorni fa, l’ho guardata bene ed ho visto che è un bellissimo pendio, e non c’era nemmeno una traccia. Magari è perché, invece che ad una cima con un nome vero e proprio, porta ad una quota altimetrica che non è recensita in nessuna guida, e la gente – sempre a caccia di “tacche” da segnare sugli sci, la snobba. Secondo me è una gran sciata, e siamo quasi sicuri di non beccare nessuno né in salita né, soprattutto, in discesa. Il pendio ce lo sverginiamo noi e ci lasciamo una traccia da fotografia. Se non hai messo su troppa pancia in quattro ore si va e si torna, e c’è tempo anche per far due tiri al masso di sotto”.
“Mah…“ – rispose Andrea, ”perché no? Che esposizione ha?”.
“Nord pieno. Possiamo anche andar su con calma”.
“Ricordo che la parte in cima era ben sottovento rispetto alla cresta, e prende poco sole. Avrà assestato, guida?” gli disse Andrea.
“Penso proprio di sì; con 2 di bollettino non dovrebbe essere un problema. Ed in ogni caso vediamo quando siamo lì… Vado avanti io e se non son convinto facciamo retromarcia e scendiamo giù. Però in questo modo siamo sicuri di non aver gente sulle code… ”.
“Andata” disse Andrea. ”Hai avvertito il gestore dell’albergo? Arriveremo che saranno le undici passate”.
“Tranquillo. Riapre oggi dopo una settimana di pausa per degli esami che doveva andare a fare all’Ospedale di Torino. Ci siamo solo noi ed ha detto di suonare forte il campanello quando si arriva perché certamente già starà dormendo”.
“Va bene. Diamoci una mossa”.
Quando arrivarono la valle intera dormiva di un silenzio irreale, e le strade e le case, deserte di uomini e di cani, biancheggiavano immobili sotto la luce della luna piena, immensa e pagana. Dormivano gli alberi, scuri nella notte nera, scossi come capelli dal vento termico che scendeva dalle cime lontane; dormivano le fontane, di pietra grigia e dura, gorgoglianti acque dal sapore di metallo nel buio spesso e muto, e parevano godersi la libertà di movimento che il gelo autunnale gli avrebbe ben presto tolto, paralizzandole sino al disgelo in effimere stalattiti; dormivano i fienili ed i granai, rifugio di calore e cibo per i topi e i roditori, che furtivi si scorgevano uscire dalle fessure aperte tra gli antichi travi; dormivano gli animali, camosci e stambecchi, fieri dominatori del tutto, e dormivano i loro occhi, freddi e spietati, esiti di selezioni naturali immemori, stretti gli uni addosso agli altri nel tepore delle loro tane, cosparse di ginepro e di pino, sospese su inaccessibili cenge, sotto ai larici reali; dormivano il sindaco e la barista di Sassari, valdostano purosangue lui, sarda fuori posto lei, eppure così compatibili ed assemblabili nella loro geografica diversità di origini da far riecheggiare di frenesie di lenzuola, sudore e gemiti l’altrimenti muta notte alpina; dormiva la pompa di benzina, col numero fisso segnato a 34 litri di diesel, per 1 euro e 56 al litro che il proprietario accorto aveva impostato il giorno avanti, non senza annacquare il carburante di quel tanto che bastava per un onesto e meritato guadagno – boia mondo…; dormivano barcollanti al vento i lampioni gialli, le pietre angolari grigie dei vecchi masi, i prati umidi di rugiada concimati di fresco, il palco abbandonato della sagra della scorsa domenica, i trattori lasciati di tralice sulla carrareccia – che chi vuoi che ci passasse di lì…; dormiva tutto quello che si vedeva e sentiva sotto misteriosa volta del cielo. E dormivano anche i lastroni di neve, duri e compatti sopra il ghiaccio del loro piano di scorrimento, appesi solo ad un etto di resistenza e di attrito, quasi appoggiati, lungo il canale.
Li accolse un cane bianco e festoso, che pareva davvero esser fuori di sé dalla gioia per avere almeno una macchina da rincorrere in quell’assoluto e desolato silenzio. Corse accanto all’auto su per la salita che conduceva al piazzale, e attese impaziente fuori dallo sportello che scendessero gli sconosciuti visitatori. “Morderà mica?” fece Simone guardando dal finestrino. “Ma che cazzo vuoi che morda…“ rispose Andrea. ”E poi che guida sei? Devi dar prova di sangue freddo e sprezzo del pericolo col cliente, che poi sarei io, e ti spaventi per un cane?”. “Non è la stessa cosa” fece Simone di rimando “di cani mi fido solo del mio”.
Ma va…“ disse Andrea, e scese dall’auto. Il cane gli piazzò il muso tra le gambe e pretese una bella serie di carezze. “Hai visto?” disse a Simone. “Sarà…“ rispose lui. “Tu goditi il tuo nuovo amico, che io vado a svegliare il tipo”.
“Non c’è bisogno” fece una voce dalla finestra; ”mi vesto e scendo”.
Il gestore aprì la porta e fece segno di entrare. “Bel viaggetto eh? giù da Torino… quanto avete impiegato? ”. “Le solite due ore” disse Simone. “Eh già, mi ricordo bene… quando ancora avevo lo studio giù a Torino più o meno era il tempo che ci mettevo”.
“Avevi uno studio? “chiese Andrea, “e di che cosa?”.
“Uno Studio Legale, facevo l’avvocato. Un lavoraccio, credi a me”.
“Ed hai lasciato perdere tutto?” chiese Simone.
“Mah, le figlie si sono laureate presto ed hanno spiccato il volo verso terre lontane… si fa per dire, ormai… Una sta a Roma e l’altra a Firenze; con la easy jet vado a pranzo da loro e la sera sono di nuovo qui. La mogliera… beh, ormai dopo quarant’anni insieme non è che vuol andare a cavallo tutte le sere… anzi, se non gli metto a disordine l’appartamento dice che è anche meglio. Viene su il fine e mi dà una mano in cucina. Tanto io e lei stiamo insieme anche quando non ci siamo, se capisci cosa voglio dire… anzi, non puoi, sei troppo giovane… Comunque – continuò il gestore aprendo agli ospiti le camere che aveva preparato – io l’avvocato l’ho sempre fatto per guadagnarmi il pane onestamente, ma la mia vera passione è sempre stata vivere qui. Così appena ho raggiunto i limiti di età per quello straccio di pensione che mi danno ho mollato tutto e sono venuto qui. Proprio tutto, in verità, no… Diciamo che ho selezionato il lavoro. Il giovane collega che ho lasciato in studio mi manda per mail gli atti da studiare degli affari più interessanti ed io ci passo le serate invernali. Poi gli mando i pareri e le grandi linee e lui fa il resto. Una volta al mese scendo per due o tre giorni a Torino e controllo che in studio sia tutto ok, poi ritorno – e volentieri – quassù. In questo modo mi è rimasto un piccolo reddito lavorativo dalla mia vecchia attività, che altrimenti, campare solo con quei tirchi di voi alpinisti sarebbe ben dura”…
“E quest’anno come è andata?“ chiese Simone buttando lo zaino sul letto. “E’ andata com’è andata” rispose il gestore ”non abbiamo avuto una gran stagione invernale ma in compenso la primavera va via alla grande. Domenica c’era gente anche sui tetti delle case. Penso che non ci sia gita che non sia tracciata peggio che se ci fossero passati con degli aratri”.
“Infatti noi avevamo pensato, per domani, al pendio che sta a sinistra della Grande Jaune, quella che porta alla quota tra i due colli. Non è segnata sulle guide e non la trovi in rete, ma secondo me è una bellissima sciata, e ce la segniamo noi per primi”.
“Ho ben capito” disse il gestore; “No, io di là non sono mai andato, né ho visto nessuno andarci mai; certamente è un bel pendio ma, con tutte le gite classiche che ci sono in zona la gente va sul sicuro e sceglie “nomi famosi”… comunque dovrebbe essere a posto, almeno il pendio finale di sicuro. Però se non ricordo male, così a vedere, per arrivare alla spianata sommitale ed andare in forcella devi traversare un canale che scende direttamente dalla cresta e resta sottovento. Lì il sole non batte mai davvero, né d’inverno né di primavera. Non che sia estremo ma un po’ di pendenza ce l’ha…”.
“Ho visto bene il bollettino” disse Simone. “dice che sotto i 3000 gli accumuli ormai sono bene assestati… Comunque domani vediamo”.
“Oh, se non torniamo tienti pure la macchina di Simone”, disse Andrea; ”ti lasciamo le chiavi al bar… magari trecento euro ce le fai”.
“Andiamo va, testina…“ gli fece eco Simone. “Andiamo in branda. E vedi di non scordarti nulla che non ti presto nemmeno la sciolina, domani”.
“Un grappino ve lo offro?” fece il gestore.
“Uno no, ma due sì”, rispose Andrea.
L’alba sorse fredda e troppo presto, umida di nebbie, ostile. Smorzava i colori. I richiami degli uccellini, come sempre prima delle uscite in montagna, non recavano alcuna nota lieta e riposante, ma erano solo nunzi di fatica e di impegno. Il relax, se del caso, come sempre sarebbe arrivato dopo, al ritorno, quando ci si sarebbe tolti gli scarponi e le calze nel caldo accecante del mezzodì, asciugando il sudore e il torso nudo alle tiepide correnti termiche del tardo mattino. Simone e Andrea uscirono con lo zaino in spalla sul piazzale. Il gestore era fuori, accanto alle auto, a dar da mangiare al cane.
“Allora andate su per di là, avete deciso?”.
“Penso di sì” disse Simone ”comunque si fa un giro, poi vediamo”.
“Ok, buona gita allora. Se tornate per le tredici vi beccate anche la Valpellinense con la verza che fa mia moglie, che viene su oggi da Arvier”.
“Lasciacene un po’, allora” rispose Andrea.
Iniziò la ritmica danza dei mille passi, la solita, interminabile, attesissima alternanza dello sci destro e sinistro lungo il pendio. Iniziava sempre troppo forte, Andrea, avrebbe dovuto scaldarsi più lentamente, assaporare il lento innalzarsi della frequenza cardiaca, il dilatarsi del respiro in petto, le prime gocce di sudore fredde lungo la schiena. Invece la troppo lungo repressa fame di montagna che gli rodeva dentro lo spingeva subito alle alte frequenze, a partenze veloci, sostenute, che puntualmente meritavano il rimbrotto di Simone.
“Guarda che non è che si scioglie tutto prima di pranzo… Puoi anche andare più piano, che oltretutto c’hai anche il fiatone e poi la paghi sopra i 2 e sette”.
“Pensi per lei, guida, che a me ci penso benissimo da trentacinque anni, ormai quasi trentasei, in effetti”, rispose Andrea.
“Non è che voglio pensare per te” fece eco Simone, “ma sei poi scoppi tra un’ora e mezza ti perdi la parte alta della discesa che è il più e il meglio”.
“Non preoccuparti… mai mollato in vita mia. Nemmeno al corso ufficiali con 45 chili di zaino, arma individuale esclusa, of course. E quelli che portavano l’MG ne avevano 52, che dodici chili li pesa solo la mitragliatrice. Ah, già, dimenticavo che non sei pratico di questi argomenti, che tu la naia te la sei fatta imboscato in Sovrintendenza a Torino… bel modo per un futuro professionista della montagna!”.
“Oh, mica ricomincerai col pippone del corso ufficiali adesso…“ rispose Andrea “lo so a memoria per filo e per segno dal momento in cui ti hanno preso le generalità fino a quello in cui suonasti il silenzio fuori ordinanza con l’armonica a bocca, la notte prima del congedo. Vedi di non farmi due maroni con questa storia che già sto lavorando duramente e con sudore…”. E nel dir ciò si illuminò di un ampio e luminoso sorriso, guardando con gli occhi semichiusi per la luce, ormai accecante, verso il vallone completamente imbiancato che gli si stendeva davanti.
Proseguirono dunque ordinatamente e regolarmente, lasciando che lo strascichìo degli sci fosse l’unico rumore a risuonare nel vallone. Si lasciarono alle spalle un alpeggio disabitato, anche se ristrutturato di recente, quindi iniziarono a prendere quota, risalendo un imbuto appena accennato, che a salti irregolari saliva fino ad affacciarsi sul pendio sommitale. Risalirono il canale per due ore buone, ormai completamente bagnati in schiena e calze di un fradicio sudore salato, che scioglieva la crema in volto e bruciava negli occhi. Il ritmo era diventato il loro stesso essere, la loro più semplice e lontana, elementare essenza. I pensieri si erano dissolti, eclissati, svaniti, oppure rimanevano sospesi senza tempo insieme al loro immobile salire; oppure ancora restavano lì, indietro, ad ogni passo, abbandonati esangui sulla neve man mano che i loro corpi si avvicinavano all’ azzurro che disegnava il crinale, così inaspettatamente vicino alle nuvole.
Simone si arrestò prima di affrontare il traverso del canale. Ripido, incassato, ancora all’ombra, nasceva direttamente da una gonfia cornice subito sotto la cresta e si perdeva in un vallone ampio, trecento metri più in basso. “Aspetta un attimo qui”- disse ad Andrea. Poi, lentissimamente, quasi sfiorando il manto nevoso, entrò nel traverso.
Si mosse cauto, lento, leggero come un ladro notturno, lasciando che anni di esperienza, di studi e pratica sul campo trasmettessero dagli sci al cervello le informazioni man mano raccolte. Appoggiò uno dopo l’altro gli sci sulla neve trattenendo il respiro, poi un senso di calore, di conferma, di sicurezza, si fece strada in lui. “Come pensavo” si disse “ho scelto la gita giusta”. “E’ tutto ok” disse ad Andrea voltandosi ”aspetta che sia arrivato di là, e traversa tranquillo”. Poi gli rivolse uno sguardo prolungato, intenso, fisso. Quindi riprese a traversare e giunse dall’altro lato del canale.
“Vieni pure” disse Simone. Andrea si mosse subito, veloce, sicuro, rapido; soltanto arrivato a due terzi del traverso ebbe un attimo di incertezza; subito dissolto, però: Simone era passato, gli aveva detto che era tutto a posto, dunque non c’era nulla di cui preoccuparsi. Il pendio teneva, il pendio avrebbe tenuto, come decine di altre volte, come infinite altre volte in cui aveva messo gli sci uno davanti all’altro in attesa di vedere che cosa sarebbe successo. Fece un passo; poi un altro, poi un altro ancora. Infine gli parve che qualcuno con una fune gli trascinasse lo sci esterno verso valle, e che il tutto il terreno gli sfuggisse sotto ai piedi. Mentre un secco boato rimbombava nell’azzurro, tutto il pendio sopra e sotto di lui parve scattare velocissimo giù per il canale, come un tappeto di neve che una mano invisibile avesse deciso di scagliare verso il basso. Una forza invincibile e cattiva lo riversò a faccia avanti, nella neve che lo ricoprì in un istante. Successe tutto in un attimo; ma un attimo che fu lungo a sufficienza perché Andrea capisse che stava morendo, che non voleva morire, che anzi, ormai, non avrebbe voluto morire così; che era stato uno stupido a fidarsi di qualcun altro, anche se era una guida; che lei lo avrebbe saputo, avrebbe pianto, e che poi, con i giorni, con i mesi, con gli anni, che cosa ne sarebbe stato, di lei?…
L’elicottero arrivò dopo meno di quarantacinque minuti. Volteggiò un attimo sopra Simone, che in preda al panico agitava le braccia richiamando l’attenzione del pilota, poi andò ad adagiarsi sulla larga sella della cresta, ampia comunque a sufficiente per permettere un atterraggio sicuro. Le squadre di soccorso scesero correndo il pendio terminale e raggiunsero Simone, che con l’Artva in mano camminava su e giù in stato confusionale, a metà del canale. I soccorritori capirono immediatamente che la situazione era grave. La valanga aveva un taglio di oltre un metro, un fronte di quindici ed aveva percorso trecento metri. In fondo al canale, ridotto ormai ad un nerastro scivolo di neve durissima, erano accatastati massi di ghiaccio e neve, fusi insieme dal calore sviluppatosi durante la caduta della slavina. Se anche trovavano Andrea, pensò il capitano della finanza che comandava la squadra di soccorso, avrebbero trovato un morto. ”Non lo trovo… non lo trovo”… balbettò Simone al soccorritore che lo aveva raggiunto. Aveva gli occhi sbarrati in una tragica impotenza, e il respiro veloce, corto, affannato. “Siamo certamente oltre la portata utile dell’Artva” gli disse il capitano del soccorso. “Dobbiamo scendere giù nel canale. Gli Artva accendiamoli quando siamo in fondo. Mettiamoci i ramponi e giù veloci” disse rivolgendosi ai due soccorritori che lo seguivano. “Lei è sotto shock. Vada con lui”, e nel far ciò indicò il gestore dell’albergo, che lentamente stava scendendo lungo il canale dopo esser sbarcato dall’elicottero. “Vieni via” disse a Simone il gestore, una volta che lo ebbe raggiunto; ”vieni via e lascia che se ne occupino loro; sei fuori di te”. E nel far ciò gli prese Artva e zaino e, sorreggendolo a spalle, risalirono insieme gli ultimi cento metri di pendio.
Prima di salire sull’elicottero Simone gli chiese: ”Hai avvertito tu? Io ho provato ma non avevo linea sul cellulare”. “Sì, li ho chiamati io. Ero salito a far due passi con il cane ed ho sentito il rumore del distacco. Hanno tardato un po’ perché avevano un altro intervento in corso. Comunque sono in gamba, gente molto esperta, lo trovano di sicuro”.
“Io non lo sentivo; non l’ho trovato… non so che cosa mi ha preso… Il pendio pareva a posto, l’avevo appena attraversato io…“ – e nel dir questo Simone chiuse gli occhi, piangendo, e si coprì la faccia con le mani. “Tu non potevi sentirlo, eri oltre portata utile, lo sai meglio di me… ed eri fuori di te, ciò che rendeva certamente il tutto più difficile. Non sei la prima guida cui capita, né sarai l’ultima. E comunque non sarebbe cambiato nulla; anche quando lo trovano, non sarà servito a granché, quella è una valanga che ti ammazza di sicuro sul colpo”. Il rumore sordo delle pale rompeva ritmicamente l’immobile silenzio del mezzodì. Sotto l’elicottero, per nulla intimorita, volteggiava lentissima un’aquila.
Il telefono squillò solo due volte, poi la voce all’altro capo del filo scandì:
“Sì? Chi è?”.
“Sono io… è andata”.
Un lungo attimo di silenzio, poi un impercettibile sospiro.
“E’ andata, come previsto?”.
“Certo. Tutto come previsto”.
“Ok. Tu come stai?”.
“Sto bene. Sono a posto. Mi hanno recuperato con l’elicottero quelli del soccorso. Penso che tra meno di un’ora ci sarà la notizia sul web”.
“I genitori mi chiameranno, mi passeranno a trovare. Io in ogni caso sarò a casa, oggi ho preso ferie dal lavoro”.
Le parve di sentire un’impercettibile sorriso dall’altra parte. Poi proseguì: ”penso di venire su oggi stesso, in ogni caso. Direi che è necessario, no?”.
“Magari proprio necessario non è, però è certamente una buona idea; diciamo che sarebbe assai strano se tu non venissi”.
“Ok, allora appena arrivo in zona ti chiamo”.
“Ok”.
“Solo un’ultima cosa – disse lei – pensi che abbia sofferto?”.
“Perché?” rispose Simone ”farebbe qualche differenza?”.
Il pomeriggio, e il giorno appresso, si risolsero nella solita serie di eventi, incombenze, traffici, arrivi, sopralluoghi, comunicazioni che sempre si accompagnano agli incidenti in montagna. Simone ne aveva visti a decine nella sua carriera di guida. I parenti distrutti con gli occhiali scuri, i giornalisti locali alla ricerca di particolari rilevanti e tesi ad una certa obiettività; quelli dei quotidiani nazionali completamente ignari della materia; e interessati solo ad aspetti insignificanti e folkloristici, così da poter scrivere le solite due pagine sulla montagna assassina e poi ripartire al più presto verso le loro redazioni cittadine; il Presidente delle Guide locali che ammonisce sui rischi e pericoli della montagna ma sottolinea che, nel caso di specie, vi erano tutte le condizioni per poter andare e che dunque bisognava accettare quella che non poteva non definirsi se non come “una tragica fatalità”.
Elena aveva preso una camera singola nel loro stesso albergo. I genitori di Andrea erano stati ospitati in una camera della locale Misericordia, appositamente lasciata libera per le emergenze. La salma di Andrea era stata recuperata dopo oltre quaranta minuti di ricerca, col collo spezzato dai blocchi di ghiaccio che lo avevano travolto, e sotto oltre due metri di neve dura. Ora occupava, solitaria ed abbandonata dai vivi, sotto la fredda luce del neon, il tavolo della locale camera mortuaria. Il medico che l’aveva esaminata aveva chiaramente fatto capire che non c’era bisogno di approfondite autopsie per determinare le cause della morte; entro il pomeriggio del giorno seguente ogni formalità sarebbe stata sbrigata, e la salma sarebbe stata a Torino, per le esequie che la famiglia aveva deciso si svolgessero al più presto, in forma privata.
Quando Simone scese nella hall per saldare il conto Elena lo aspettava sul divano, con gli occhiali scuri ancora indossati. “Io ho già pagato – gli disse – ti aspetto in auto”.
Simone, con il viso ancora provato dal mal di testa e dall’insonnia notturna si avvicinò al banco. Il gestore consultava il registro e faceva un conto a penna, con gli occhi bassi.
“Ha preparato il conto?” chiese Simone.
Il gestore alzò lo sguardo e lo fissò negli occhi in silenzio.
“Scusi, devo andare… non ce la faccio più… devo riprendere il materiale che Le ho dato quando è arrivato l’elicottero e tornare a Torino… ha preparato il conto? Solo il mio ovviamente… la signora ha già pagato”.
Il gestore parve sorridere tra sé e sé; attese un attimo poi ripeté, come a se stesso “… certo, la signora ha già pagato… secondo me non ha pagato affatto, e non pagherà nemmeno, per quello che ha fatto”.
“Mi scusi?” fece Simone.
“Mi scusi, mi scusi…“ fece eco il gestore… ”ma non mi davi del tu?… com’è che ora hai cambiato?”.
“Oh… scusami, hai ragione” disse Simone… ”è che sono un po’ scosso…”.
“Un po’ scosso… un po’ scosso hai detto… giuro che in quarant’anni di professione questa è una delle migliori risposte che mi sia mai stata data da un cliente…”.
“Come da un cliente?” – fece stupito Simone ”non capisco che vuoi dire…”.
“Dimmi solo una cosa – disse il gestore ignorando la domanda – l’ha avuta lei l’idea non è vero?”.
“Ma di che sta parlando?”- rispose Simone.
“E’ stata lei e quel povero diavolo aveva anche una polizza sulla vita non è vero? E la polizza – su questo ci scommetto – prevede che il risarcimento sia erogato solo qualora l’incidente sia avvenuto in compagnia di una guida alpina regolarmente iscritta all’albo, no?… Ma sta bene attento” – proseguì il gestore avvicinandosi col viso a Simone – “lei un giorno si sbarazzerà anche di te, come si butta via un pacchetto di sigarette”.
Simone lo guardò smarrito, bianco in volto, col sudore freddo che gli imperlava la fronte.
“Certo – proseguì – che sei davvero una guida con i controcoglioni… Dico, per individuare un pendio che si potrebbe staccare basta una buona guida; ma per scegliere, tra le mille gite, dopo un veloce esame, quella sola gita in tutta la valle in cui c’è un pendio che certamente si staccherà al passaggio del secondo sciatore – e nota bene, non del primo, ma del secondo… – dico, per questo ci vuole davvero un mago… Toglimi una curiosità; quando sei passato, hai temuto per un secondo che non reggesse nemmeno il tuo, di passaggio?… ma sì… certo che l’hai pensato… però valeva la pena rischiare, no? Valeva la pena per passare la vita con lei; lei che altrimenti non sarebbe mai stata libera e – soprattutto – ricca, no?…”.
Simone taceva, come in trance, senza mostrare nessuna reazione alle parole del gestore.
“Lei sta farneticando” – mormorò poi – “le sue parole sono senza senso…”.
“Vuoi sapere come ho fatto? – gli disse allora il gestore – “beh te lo dirò io come ho fatto. Qualche sospetto già lo avevo quando hai detto che gita volevi fare, visto che comunque c’era di meglio in zona, e una guida esperta non poteva non saperlo. Così, giusto per quella radicata diffidenza negli uomini che mi hanno regalato vent’anni di professione, sono venuto su al pianoro e ho visto l’incidente. Un canale ripido, pericoloso, all’ombra. Qualcosa non tornava”. “Poi – proseguì il gestore – siamo tornati in albergo, e ho continuato a ragionare, a ragionare… alla fine mi stavo quasi dicendo che era una mia fantasia; un vecchio residuo di carriera di penalista, che pateticamente si affacciava alla memoria di uno che non sa scrollarsi di dosso il passato. Poi sono arrivati due tipi da Genova che per fare la punta qui davanti il giorno dopo, hanno iniziato a preparare il materiale… e allora l’ho sentito…”.
“Che cosa ha sentito?” chiese Simone.
“L’ho sentito… prima più lontano, a intervalli deboli e rari… poi, man mano che lo cercavano anche loro, un po’ per gioco, un po’ per curiosità… più vicino. Infine” – e nel dire questo il gestore prese in mano lo zaino di Simone che aveva preso dalle sue mani subito dopo l’incidente – “l’ho trovato”.
“Il mio zaino…?” – chiese Simone – “… ma che significa?”.
“Qui dentro” – proseguì il gestore – “l’ho trovato. E l’avevo preso io direttamente dalle tue mani prima di salire in elicottero, mentre balbettavi penoso che non lo trovavi… non lo trovavi… Qui dentro – e nel dir questo trasse dallo zaino l’Artva di Simone, che emetteva una intermittente luce rossa – l’ho trovato… il tuo Artva… in trasmissione…”.
Simone non si mosse; pietrificato lo ascoltava con gli occhi bassi.
“Certo che sei una guida in gamba, eh?” – disse ironico il gestore – “ma a trovare qualcuno sotto una valanga con l’Artva in trasmissione non ci riesce nemmeno il Padreterno… Non ti pare?”.
“Comunque – proseguì il gestore – puoi stare tranquillo. Il tuo povero socio era già morto sul colpo quando tu stavi lì a far finta di cercarlo, dunque anche se qualcuno lo venisse a sapere non saresti comunque responsabile della sua morte, per ragioni tecniche che non ti sto nemmeno a spiegare… E quanto al fatto di averlo portato su un pendio sapendo che con certezza si sarebbe staccato… nessuno potrà mai dimostrarlo, visto che le valanghe si sa che sono la materia più incerta e difficile che ci sia in materia alpinistica. Potrebbero provare a processarti per omicidio colposo, avendo agito comunque con imprudenza e superficialità, ma è un reato lieve, roba da poco; con un patteggiamento te la caveresti. E comunque sei stato in gamba; hai scelto un giorno con rischio due, sei andato via presto, il tuo socio non era un principiante; con un buon avvocato non ti inchioderebbe nemmeno il più accanito dei PM. Io però lo so per certo… tu eri sicuro che il pendio non avrebbe retto al passaggio, non delicato come il tuo, del cliente. Lo hai ucciso volontariamente”.
Simone era ora scosso da un tremito nervoso, per un momento gli parve di svenire.
“Bella donna, comunque… avrebbe fatto perdere la testa anche a me, ai miei tempi… anzi, faresti meglio ad affrettarti… ti aspetta in auto; ma dai retta a me, non ti aspetterà in eterno”. E nel far questo il gestore porse a Simone il conto del soggiorno.
Elena aspettava seduta, lato passeggero, con lo sportello aperto. I bagagli erano già pronti e caricati. Vide arrivare Simone e restò impassibile, guardando fissa davanti a sé. Poi, quando lui fu entrato, gli prese la mano che Simone aveva appoggiato sul cambio e lui la sentì fredda, lontana, e ne ebbe, per la prima volta, paura. Poi lei gli disse “Andiamo?”. Simone esitò un momento; gli parve che fino a che non avesse lasciato la valle e dunque portato a termine la vicenda, quello che aveva fatto non gli sarebbe stato del tutto, definitivamente addebitabile. Solo andando via con lei avrebbe terminato quell’incredibile parabola che l’aveva portato ad essere un assassino. Mentre, indeciso, restava imbambolato al volante, guardando in modo idiota il cruscotto, con lei che gli rivolgeva uno sguardo interrogativo sentì due persone accanto a lui parlottare e percepì con chiarezza le loro parole “… mah… non so se andar su per di là domani sia sicuro… senti un po’ che ne pensa quel tipo lì in auto. Dev’essere una guida. Ci possiamo fidare”.