La montagna che era

di Emi Sanna
(pubblicato su camoscibianchi.wordpress.com il 28 ottobre 2024)
Foto di Alessandro Scarpellino

Sulla carta il sentiero c’era ma sembrava finire nel nulla. Qualcuno in rete aveva descritto un itinerario, qualcun altro aveva caricato una traccia, e quel qualcuno parlava di percorso selvaggio, di un Appennino sconosciuto e inesplorato, di montagne minori, snobbate da collezionisti perché appena sotto i 2000 metri. Vette di poco conto, raggiungibili attraverso percorsi più comodi e battuti, larghe creste che si affacciano su panorami dolci e morbidi, confine aereo tra due regioni. Quel qualcuno in realtà parlava chiaramente di sentiero non segnato, adatto solo a escursionisti esperti. Forse avrebbe fatto meglio a dire sentiero inesistente. Ideale per un inizio di autunno, quando i faggi cominciano a colorarsi di giallo e le temperature consentono di salire finalmente anche partendo da quote più basse.

Il meteo promette pioggia, ma non temporali. E anche questo va bene, perché anche questo è la montagna. Difficile trovare compagni di cammino: tempo instabile, oltre 1000 metri di dislivello, itinerario incerto, altissime possibilità di perdersi. Ma un amico montanaro, soprattutto curioso, ha aderito con entusiasmo.

Il tempo è quello previsto, nuvole basse e la faggeta, ancora verde alla quota di partenza, trasuda leggere goccioline. In principio è tutto facile, una larga sterrata che sale dolcemente e comodamente per 400 metri per terminare bruscamente nel niente. Il telefono naturalmente non prende e la traccia scaricata in realtà scaricata non era e adesso non c’è più rete per farlo. Ecco l’andare in montagna che amo maggiormente, quello che dà spazio alla fantasia, all’intuito, alla scoperta, all’invenzione. Il gioco non è arrivare alla vetta ma trovare il percorso per arrivarci. La carta ci dà la direzione, le curve di livello ci indicano la pendenza, vediamo dove finisce il bosco, dove potrebbero esserci salti di roccia.

È sufficiente. Salire tra la fitta faggeta, sulle foglie umide, aprendosi la strada tra i rami spezzati. Seguire un’ipotetica linea verticale che dovrebbe sbucare appena sotto la cresta. Le gambe sono un barometro interno che indica esattamente la quota, l’esperienza e l’orientamento infallibili quanto un Garmin. Poi il bosco lascia spazio alle rocce e ai sassi. Le mani cercano appigli sui massi inumiditi, si arrampica facile, facile, il profumo del petricore nell’aria, l’uscita sulla cresta, la nebbia che chiude il panorama, il traverso roccioso che porta alla prima vetta.

Non andremo avanti, non oggi. Non c’è visibilità e sappiamo che per la seconda vetta ci sono roccette esposte su cui salire. Sta piovendo e la montagna che amo è anche questo, è anche il rinunciare. Ma il divertimento non è finito: comincia adesso la chiusura di un anello inventato che ci fa scendere su ripidi prati prima, e poi nuovamente nel bosco, abbracciando gli alberi per non scivolare, attaccandosi a radici, ridendo come bambini seduti sui tappeti di foglie. Il ricongiungimento al sentiero segnato coincide puntuale con un forte acquazzone che ci lascia indifferenti.

“Che avete fatto ieri?”. “Nulla di che, una vetta minore, una salita su un bosco, abbiamo rinunciato a proseguire per il mal tempo”. Nessuno lo sa e nessuno capirebbe che questa nostra escursione, senza nulla di epico, così poco fotografabile, immaginandoci pastori o viandanti in cerca di percorsi tra un paese e l’altro, seguendo tracce di animali che si perdono nel nulla, è stata la montagna come era e come dovrebbe essere: intima e inviolata. Un qualcosa per noi e non per gli altri.

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