Un rifugio tra le Alpi, un gestore burbero ma paterno, una ragazza che vuole dare una svolta alla sua vita. La strangera di Marta Aidala libera dagli stereotipi un ambiente spesso vittima della retorica.
La montagna disincantata
di Alberto Infelisi
(pubblicato su lastampa.it/cultura il 29 agosto 2024)
Alle volte, guardando il cielo di notte in montagna, sembra che una stella si accenda all’improvviso e inizi a sbrilluccicare tremula e nuova. E allora si stringono gli occhi cercando di non sbattere le palpebre per capire se è davvero una stella o un’illusione, sperando che continui a brillare e non si richiudono finché non si è sicuri che sia davvero una luce e non un inganno.
Succede esattamente così quando si inizia a leggere La strangera di Marta Aidala (Guanda). Una luce improvvisa e netta si para di fronte agli occhi e pagina dopo pagina speri che non si affievolisca. E non si affievolisce. Aidala esordisce con questo libro e sarà il tempo a dire quanto la sua stella continuerà a farci nuovi gli occhi e i desideri e persino i sogni. Ma intanto abbiamo visto una stella nuova brillare.
Si fa presto a dire la storia, giusto quel che basta per capire da che parti siamo. Beatrice è una giovane donna di città che ama la montagna e ha un passato da alpinista e arrampicatrice e decide di andare a lavorare in un rifugio dal quale si vede la Becca, la montagna più amata. I personaggi sono i personaggi che chiunque sia pratico di rifugi e di montagna riconosce in fretta: un burbero e paterno gestore, ragazzi a lavorare tra un’ascesa e l’altra, un pastore con alle spalle la sua famiglia, le bestie che in montagna vivono, la lingua (l’italiano, il dialetto, il patois) che a momenti alterni include o esclude gli altri. Il resto lo leggerete.
Quel che è importante dire qui è che Aidala è riuscita nell’impresa ardua di scrivere con sincerità di un posto che spesso è descritto con gli stereotipi o con la distanza di chi non gli appartiene, di gente che crede che non solo si possa ma che si debba fare economia con le parole e la manifestazione dei sentimenti, di una natura che ha delle regole che sono difficili da capire e condividere per chi non vive tra quelle pietre, quegli alberi, quelle acque, quei prati, quelle bestie, ma magari li frequenta soltanto.
«Quel che mi dispiacerebbe molto che dicessero di questo libro è che non racconto cose vere», spiega Aidala dopo aver guardato un punto lontano per un minuto abbondante cercando la risposta più vera alla domanda su cosa temesse maggiormente ora che la sua storia è uscita e sarà letta.
Molte cose sono vere e persino autobiografiche in questa storia. Aidala ha arrampicato tanto da avere calli (ormai trascorsi) sui palmi delle mani, ha lavorato ai tavoli di un rifugio in montagna, ama la montagna di quell’amore viscerale e concreto che sconvolge i veri amanti, sogna davvero il Monviso (che ha minuziosamente tatuato sulla spalla sinistra – l’amica tatuatrice ha imparato a lavorare in Israele, ma ora esercita a Liverpool, se qualcuno avesse il desiderio di un tatuaggio fatto veramente bene).
«Mi ricordo il momento preciso in cui mi sono innamorata del Monviso. Ero sul Po, ai Murazzi, una mattina luminosa d’inverno, indossavo un maglione di lana con le trecce color senape e una gonna nera e improvvisamente ho alzato lo sguardo e me lo sono trovato proprio davanti, perfetto, il prototipo della montagna. E da allora lo cerco sempre».
Aidala vive in una piccola casa del centro di Torino, un abbaino con una finestra e un davanzale che funge da scrivania e una vista che paradossalmente, nonostante sia orientata dal verso giusto, non arriva a comprendere quella montagna: «Ma se lo vedessi non potrei mettermi a scrivere, starei lì a guardarlo. Per me scrivere non è, come dicono molti, una felicità, un’allegria, una cosa facile. Per me scrivere è una fatica, un lavoro che inizia presto al mattino, una cosa che non viene dalla testa o dal cuore, ma da qualche parte all’altezza della bocca dello stomaco e sale perché non può restare dentro e si irradia nelle vene sul petto e nelle spalle e attraverso le braccia arriva le mani. E poi esce. E diventa qualcosa di nuovo».
Questa è una storia di montagna per amanti della montagna e montanari, ma è anche una storia di amore, una storia di crescita (quasi di formazione), di dolore e morte, quella vista per la prima volta da vicino con tutto il significato e il segno che un evento così può lasciare addosso.
È una storia di sentimenti non detti, sempre sul punto di esplodere e manifestarsi, sempre trattenuti in uno sguardo basso o nelle mani chiuse nelle tasche grandi di pantaloni da pastore, di vacche che hanno ognuna un nome e un carattere e non sono le mucche generiche che vedono i cittadini che passano pensando che siano pittoresche e non pestifere o dolci o cocciute o solitarie come ognuno può essere.
La famiglia di Marta Aidala vive a Mirafiori, dove arrivò, una generazione fa, dalla Sicilia. Sua madre ancora si chiede che diavolo ci vada a fare sua figlia in montagna. Suo nonno è un lettore serio e severo che ha letto il libro e ha sentenziato: «È bello, ma non succede molto». E invece, ci scuserà il nonno, succede tutto. Perché succede la vita (e anche il suo contrario), succede l’odore dell’erba nelle diverse stagioni e la natura che cambia e pulsa, succede un amore fatto di avvicinamenti e repentine fughe, succede che una giovane scrittrice racconta la vita delle persone che molto spesso (quasi sempre) rimangono non raccontate perché vivono lontane dalle luci e ci vivono con orgoglio e piacere, succede la meraviglia delle parole e dei gesti delle donne forti di montagna che per natura e un po’ per vocazione governano i loro mondi con rigidità e compassione, alternate a seconda dei momenti.
Succede soprattutto che lassù, dove ogni cosa ha la sua utilità e persino le parole e soprattutto il fiato non vanno sprecati, questa storia è passata attraverso le vene di Marta Aidala per arrivare a brillare all’improvviso.
Come una stella che prima non c’era. E ora c’è.