In Grigna quando il IV grado era ancora “difficile” ricordi di un ragazzo degli anni ’60 che ha ancora voglia di arrampicare e non si è accorto che il tempo passa.
Lassù sulle Grigne – 1
di Ugo Ranzi
Premessa
Le montagna mi piacciono tutte però per qualcuna ho un po’ più di preferenza. Al primo posto le Dolomiti di Brenta dove ho cominciato a conoscere la montagna vera. Poi la Grignetta dove ho passato la maggior parte del mio tempo non estivo e poi la Presolana in val Seriana. A seguire, ma in ordine casuale, Dolomiti di Fassa e Badia, Pale di San Martino, Arnad e più staccati Lavaredo, Monte Rosa, val Masino, Gran Paradiso e Cervino; Monte Bianco non classificato perché ho salito solo il Dente del Gigante e neanche fino in vetta a causa dell’orario.
I puristi inorridiranno, la Grignetta davanti alle Lavaredo o ad altre montagne ben più titolate. Come dice un noto detto “non è bello ciò che…” Alla Grignetta sono particolarmente affezionato, è raggiungibile in poco più di un’ora da casa, ho fatto delle salite belle e che mi hanno dato soddisfazione, ci sono stato più di 500 volte e ancora adesso che gli 80 sono più vicini dei 70 cerco di frequentarla. Mi rendo conto di essere un po’ ridicolmente patetico, uno di quei vecchi che non si accorgono di non essere più giovani. Però, se ci riesco ancora, perché rinunciare a una delle mie passioni? E poi i Piani Resinelli sono così belli, per il panorama, per i colori della vegetazione in primavera e autunno, per quelle guglie così ardite, per il Nibbio che ti permette, di arrampicare sulla sua roccia appigliata e saldissima a pochi minuti dal piazzale.
La mia prima volta in Grigna: l’inesperienza di un “esperto”
“L’acqua è inutile prenderla adesso, la mettiamo nella borraccia più su quando troviamo qualche sorgente”. Questo il dialogo che un fine settembre degli inizi degli anni ’60 si svolgeva ai Piani Resinelli tra me e i miei cugini Tito e Luciano la prima volta che eravamo arrivati in Grigna, anzi in “Grignetta”.
Avevamo una certa esperienza di montagna, eravamo stati spesso nelle Dolomiti di Brenta, sul Bondone (il monte sopra Trento), in Val di Fassa avevo salito la Marmolada e il Catinaccio d’Antermoia, ero stato anche sul Breithorn in val d’Aosta; tutti luoghi dove l’acqua non mancava, almeno negli anni ’60, oggi con il ritiro dei ghiacciai e la scomparsa dei nevai in estate forse qualcosa è cambiato.
Forti di queste esperienze evitammo di appesantire di qualche litro d’acqua gli zaini, già pesanti per loro natura. Già lo zaino vuoto, di robusto tessuto quasi impermeabile, pesava 4 o 5 volte più degli zaini attuali; inoltre non ci facevamo mancare niente, anche per evitare di spendere per mangiare in rifugio: borraccia del vino, scatolette di carne (c’era ancora il delizioso vitello tonnato di cui la Simmenthal ha purtroppo cessato da tempo la produzione), scatola di piselli, scatola di sardine, salamino, formaggini, pane a volontà, mela e bottiglia di grappa.
Bellissima giornata come qualche volta sa offrire l’autunno, un bel sole che oltre a arricchire la bellezza del panorama aveva come effetto secondario di farci sudare copiosamente. Forti dei nostri vent’anni avevamo affrontato di buon passo, anche tagliando qualche tornante, le prime asperità del sentiero della Direttissima. La sete cominciava a farsi sentire, sulle prime rocce le scritte a minio di Oransoda e Lemonsoda, forza della pubblicità, stimolavano ancor più la sete. Queste scritte, ormai molto sbiadite, sono tuttora visibili, mi sono sempre chiesto chi ne sia stato l’autore.
Girato l’angolo ci apparve in tutta la sua bellezza lo spettacolo delle guglie della Grigna, non sapevamo ancora distinguerle però sapevamo che c’erano l’Angelina, l’Ago Teresita, il Campaniletto, la Torre, la Torre Costanza e il famoso Fungo. Per un po’ l’ammirazione di queste bellezze ci fece dimenticare la sete, inoltre i canaloni scoscesi che scendevano dall’alto facevano ben sperare che qualche torrente, ruscello o almeno rigagnolo ne percorresse il fondo.
Il caminetto Pagani, verticale e con i suoi scalini traballanti, oggi sostituiti da una moderna e solida scala, ci elargì ulteriore fatica e un po’ di emozioni. I saliscendi successivi fino al colletto da cui si scende al Fungo aumentarono la nostra sete. Le lapidi dei caduti del Fungo, che a quel tempo funestavano il luogo, non contribuirono a sollevare gli animi. Per contrastare i pensieri lugubri ci venne l’idea di bere un po’ di vino che essendo liquido poteva sostituire l’acqua; purtroppo è sì liquido ma, come effetto secondario, taglia le gambe e aumenta la fatica. Dopo un altro sorso e poi un altro ancora, arrivammo al colle Garibaldi non più in perfetta forma: poco male al rifugio Rosalba avremmo mangiato e, senza badare a spese, ci saremmo scolati una bottiglia d’acqua a testa.
Ecco il rifugio in vista, strano non si vede nessuno, le persiane sono chiuse; esperti di montagna sì, ma poco esperti di rifugi; dato che a quel tempo in montagna ci andavamo solo d’estate, mai più c’era venuto in mente che magari in autunno i rifugi chiudessero durante la settimana. Ecco perché in tutta la giornata non avevamo incontrato nessuno!
Colti dallo sconforto girammo dappertutto in cerca di una fontanella o qualunque cosa da cui potesse sgorgare acqua. Nella vecchia capanna Rosalba di lamiera rosa avevamo trovato una botola sotto la quale si muoveva del liquido, forse acqua piovana ma di colore un po’ troppo scuro, saggiamente non ci arrischiammo ad assaggiarlo. Il vino era finito e, visti i risultati, lasciammo la grappa nella sua bottiglia. Nella scatola dei piselli c’era l’unico liquido disponibile, piuttosto schifoso ma sicuramente commestibile, ce lo dividemmo fraternamente (anzi cuginescamente) e ci precipitammo a valle lungo il Sentiero dei Morti, di cui, fortunatamente, non conoscevamo il nome.
Un’ultima delusione: arrivati nel canalone della val Scepina una scritta su un masso indicava a destra “sorgente”. Ricerca spasmodica ma ovviamente la sorgente era asciutta da settimane. Ancora un’ultima fatica e finalmente al rifugio Alippi potemmo bere litri d’acqua a profusione.
Morale: l’avventura è bella ma quando si è in un luogo nuovo chiedere qualche informazione non guasta. Altrimenti si rischia quello che abbiamo appena letto o quello che accadde al mio amico Claudio che si era recato al passo Gardena per salire la famosa (negli anni ’30) via Adang al Piz da Cir, che la guida dei Monti d’Italia pubblicata molti anni prima definiva come un meraviglioso diedro. Scoprì che non riusciva a trovare la via solo perché i primi 100 metri del “meraviglioso diedro” erano crollati venti anni prima; per fortuna era un giorno feriale e non d’estate, per cui nessuno scalatore fu colpito dai giganteschi massi della frana!
La prima arrampicata in Grigna
Fresco di scuola di roccia, la Graffer in Dolomiti di Brenta, con Vittorio uno dei miei più cari amici ci siamo recati ai Resinelli per arrampicare. Vittorio aveva un anno più di me, non aveva mai arrampicato ma si fidava ciecamente delle mie capacità arrampicatorie trentine.
Di traverso allo zaino ostentavo la mia corda di canapa da 40 metri comperata da un ferramenta, di Trento, scelto da mio papà (credo fosse il Franzinelli). Avevo chiesto se fosse abbastanza robusta per arrampicare, “la ten su anca n’elefante” mi rispose il commesso. Fiero di questa corda mi ero presentato anche alla scuola di roccia e non avevo ben compreso l’espressione schifata di Paolo, il mio istruttore, non sapendo che ormai si usavano le corde di perlon che pesavano la metà e che di elefanti ne tenevano su tre. Si avvicinò a noi un ragazzo, sarà stato il mio distintivo, la G di Graffer con in mezzo il Campanil Basso, appuntato in mezzo al maglione blu fatto da mia mamma, la corda in bella vista o più probabilmente il fatto che era da solo: “Andate a arrampicare? Posso venire con voi?” Conosceva la Grigna mentre noi non sapevamo neanche dove andare. Ci presentammo, avevamo più o meno la stessa età. Io e Vittorio eravamo studenti alle superiori, lui vergognandosi un po’ era “solo un postino”. Che bella la montagna, si è tutti uguali, ricchi e poveri, belli e brutti, di destra e di sinistra, interisti e milanisti tutti accomunati dalla stessa passione. Non ci sono differenze di classe, religione, cultura. Non eravamo classisti e in più Franco conosceva la Grigna. Andammo a fare la normale del Campaniletto salendo a spaccata tra le due cuspidi l’ultimo tiro e, dopo, la bella normale della Guglia Angelina. Quante volte ripetute dopo di allora! Franco non l’ho più incontrato, gli sono grato per avermi iniziato alla Grigna.
Era il caso di saperne di più
Milano è una città di pianura ma strategicamente posizionata non lontana da laghi, mari e montagne. Laghi e mari non sono visibili, diverso il discorso per le montagne. Nelle giornate terse, senza foschie e nebbie, le montagne sembrano a due passi, a ovest le pareti sempre innevate del Monte Rosa, verso sud si intravedono gli Appennini, a est le Orobie e a nord Grigne e Resegone. Pur abitando a Milano da molti anni, passò molto tempo prima che visitassi queste montagne. Le origini di papà avevano spinto la mia famiglia a privilegiare le montagne trentine, in particolare il gruppo di Brenta, dove ci recavamo in agosto. Solo quando cominciai ad arrampicare presi ad interessarmi di mete più vicine da poter frequentare più spesso.
Dopo la prima arrampicata mi ero reso conto che non era il caso di andare in Grigna alla ventura sperando di trovare qualche altro Franco, senza nemmeno sapere i nomi delle guglie e quali erano le arrampicate più belle. I Piani Resinelli sopra Lecco erano la base di partenza per le arrampicate in Grignetta (Grigna Meridionale) ed erano raggiungibili in un paio d’ore tra treno e corriera locale. A Milano non avevo un giro di amici per arrampicare; ero iscritto alla sezione di Milano del CAI ma non la frequentavo; le poche notizie sulla Grigna mi arrivavano negativamente dai miei amici trentini prevenuti e male informati: ”l’è na palestra, la roccia l’è friabile”, ecc. Negli anni ’60 non era facile trovare notizie, Internet non era stata neanche immaginata, le ottime guide di Claudio Cima arrivarono 10 anni dopo; a quel tempo esisteva solo una vecchia guida dei Monti d’Italia di Silvio Saglio, da tempo esaurita e non più ristampata. Per consultarla andavo alla biblioteca Sormani e copiavo a mano le relazioni delle vie. Già che ero lì, ne approfittavo per riempirmi gli occhi delle esaltanti fotografie del libro in grande formato L’arte di arrampicare di Emilio Comici. Certo le relazioni del Saglio non erano come quelle delle guide attuali che descrivono tiro per tiro e quindi, a causa della mia non pluriennale esperienza, non sempre riuscivo a individuare l’attacco o la giusta direzione. In più la gradazione era piuttosto severa e qualche volta la via era in realtà molto più difficile del previsto.
In Grignetta d’inverno
Con la prima neve corda e chiodi andavano in cantina in attesa della bella stagione. L’obiettivo della vetta non ci aveva ancora fatto scoprire le pareti di fondo valle, il termine falesia era praticamente sconosciuto. Però ogni tanto il richiamo della Grigna si faceva sentire anche in inverno e allora si tornava ai Resinelli in cerca di avventura. La nostra attrezzatura invernale si limitava ad aggiungere a quella estiva una giacca a vento pesante, un paio di guanti di lana, i miei li aveva fatti mia mamma, una termos di the o di brodo caldo e un paio di ghette rimediate alla Fiera di Senigallia, il mercatino dell’usato che si teneva a Milano il sabato. Piccozza e ramponi non ce li potevamo permettere e non li avremmo neppure saputi usare. I miei primi ramponi li ho trovati proprio ai Resinelli, di ferro con lacci di cuoio. Qualcuno li aveva dimenticati nel parcheggio. Dopo aver avvisato gli esercenti che li avevo trovati ho anche scritto a Lo Scarpone nella rubrica “Persi e trovati”. Non avendoli reclamati nessuno li considerai di mia proprietà.
Le camminate che facevamo d’inverno erano tre: la Cresta Cermenati, la Direttissima, il Canalone Porta.
Difficilmente percorrevamo la Cermenati in salita nelle altre stagioni. Salivamo solo la prima parte fino al bivio che dopo tre quarti d’ora, girando a destra, ci permetteva di ammirare lo spettacolo del versante ovest dei Torrioni Magnaghi e del Sigaro, frequenti mete delle nostre arrampicate, i Magnaghi (non le loro difficili pareti ovest). La Cermenati nella bella stagione era faticosa, sconnessa e un po’ monotona. D’inverno invece era bellissima soprattutto se la pista era battuta bene e se la neve era ideale vale a dire non ghiacciata e non troppo molle. E poi che bello dalla vetta, nelle belle giornate di sole, spaziare con la vista fino alle Alpi e agli Appennini tutti bianchi e ancor più bello se anche la pianura era innevata.
La Direttissima, già un po’ impegnativa nelle altre stagioni, d’inverno con la neve diventa difficile e rischiosa, soprattutto le parti in traversata, le catene sono quasi sempre non utilizzabili perché coperte dalla neve. Si deve prestare attenzione ad ogni passo, scivolare può essere fatale. Da ragazzi la percorrevamo slegati, senza piccozza e ramponi perché non li avevamo. Se il sentiero era già battuto era meglio, quando invece nessuno era già passato e si doveva batterlo noi le complicazioni e i rischi erano molto maggiori, se poi sotto uno stato di neve nuova si nascondeva la neve ghiacciata era più opportuno cambiare meta o tornare a casa. Certo che quando tutto andava bene, era una bella soddisfazione aver fatto la Direttissima in invernale, ma che super lavoro per i nostri angeli custodi…
Quello che mi piaceva di più però era il Canalone Porta. Che bello! Una prima parte su neve e la seconda su roccia non difficile purché non vetrata. Al termine si poteva tagliare a sinistra fino a incrociare la Cermenati. Ma la maggior parte delle volte avevo paura: se la traccia non era perfetta e la neve ideale sarebbe bastata una scivolata per ritornare direttamente al punto di partenza ma con un volo di centinaia di metri per cui, essendo privo di ali, quasi sempre salivo a destra alla vetta per ridiscendere dalla Cermenati.
C’era una volta…
Ho cominciato ad andare in Grigna a metà degli anni ’60. Da allora parecchie cose sono cambiate, ho un po’ di nostalgia per quelle che non ci sono più.
La sbarra
La 600 di papà aveva semplificato il raggiungimento dei Piani Resinelli che prima prevedeva: tram numero 20 fino alla stazione Centrale di Milano, poi treno fino a Lecco, poi corriera dalla stazione di Lecco fino ai Piani Resinelli. Ovviamente stessa cosa in senso inverso per tornare a casa. Con la 600 era tutta un’altra storia… C’era fino agli anni ’80 un costo, da suddividere tra i presenti a bordo della 600, che si aggiungeva alla spesa della benzina: LA SBARRA! E sì, perché il consorzio di comuni che aveva costruito la strada richiedeva un pedaggio a chi voleva salire in auto gli 8 km e i 14 tornanti, se ben ricordo si trattava di 500 lire che a quel tempo per studenti squattrinati non erano poche, con quella cifra si mangiava un pasto in trattoria. Una sbarra impediva il passaggio, veniva sollevata solo dopo che si era pagato il diritto di passo. Se si era mattinieri si passava gratis prima delle 6 perché la sbarra era lasciata aperta, ma dopo quell’ora la “casellante” pretendeva il balzello. Il sabato e la domenica era presente alla sbarra per tutto il giorno, nei giorni feriali invece, dato che le auto che transitavano erano principalmente di gente del luogo, che aveva il diritto di passare gratuitamente, lasciava la sbarra aperta e dalla finestra di casa, lì attaccata, controllava l’arrivo di eventuali “forestieri” mentre si dedicava alla cucina e ai lavori di casa. Ogni tanto noi arrivavamo silenziosamente col motore al minimo e appena superata la sbarra acceleravamo sgommando rabbiosamente fermandoci dopo 50 metri. La signora furibonda si precipitava fuori dalla porta e rendendosi conto che era il solito nostro scherzo gridava ridendo “disgrasià, si semper vu”.
L’Alippi
Se volevi vedere l’enrosadira sulle guglie della Grignetta, te ne andavi al rifugio Alippi. Mentre il sole stava per tramontare, sparendo dietro i monti del Triangolo Lariano, la Grignetta si colorava di rosa. Se tornavi dal Rosalba, il sentiero sbuca proprio sopra il rifugio, fermarsi per lo spettacolo del tramonto era d’obbligo, ma anche se eri stato in giro per la Grignetta ed eri stanco per l’arrampicata, difficilmente rinunciavi a questo spettacolo. E poi una birra e gazzosa, seduti ai tavoli davanti all’ingresso, rendeva ancora più attraente il cercare con lo sguardo le vie di salita percorse o desiderate: lo spigolo del Fungo, lo spigolo di Vallepiana, la Gandin al Cinquantenario…. Se poi potevi fermarti per la cena la giornata si concludeva perfettamente, all’Alippi si mangiava proprio bene e l’ottima cucina era apprezzata anche da Riccardo Cassin spesso seduto ai tavoli del ristorante. Ho avuto anche il piacere di passarci la notte qualche volta. Capitò anche che l’unica stanza disponibile fosse matrimoniale; fossi stato in dolce compagnia sarebbe stata una gradita situazione, purtroppo ero con Maurizio. Oggi l’Alippi c’è ancora come edificio ma non è più il rifugio Alippi, quello gestito da Gigi Alippi, grande arrampicatore, è una casa privata e quasi tutto quello che scrivevo prima non si può più fare. L’enrosadira però c’è ancora.
La via Polvara
Dopo aver salito la bella via normale della guglia Angelina, due corde doppie sul lato nord ti portano alla forcella tra l’Angelina e l’Ago Teresita. La salita da questo versante, la via Polvara, anche se più breve, era più difficile della normale, un buon quarto grado. La cosa più bella era la traversata in parete ovest su un vuoto impressionante. Una decina di metri, su appigli minimi, protetti da alcuni chiodi. Un eventuale volo sarebbe stato annullato, forse, dai chiodi ma lo spavento non so che effetto avrebbe potuto avere su cuore e cervello. Se salivi la Polvara in una giornata di grazia vivevi una sensazione esaltante, se invece non eri in forma, il vuoto ti terrorizzava ed era meglio cambiare meta. Da alcuni anni questa traversata non esiste più, purtroppo se l’è portata via il crollo di parte della punta dell’Angelina.
Il Guido
Mentre arrancavi faticosamente su per la Cermenati, carico di tutta la pesante attrezzatura del tempo, capitava che ti sorpassasse un individuo con sulla schiena una gerla piena di bottiglie. Era il Guido che, senza fatica almeno apparentemente, alla domenica saliva in cima alla Grignetta per offrire, dal suo particolare bar, sollievo agli assetati conquistatori della vetta. Saliva in pantaloni corti e le sue gambe muscolose, da fare invidia ai migliori culturisti (oggi li chiamano body builder) mi sembravano i tiranti che collegano tra loro le ruote delle locomotive. La gerla doveva essere pesantissima, negli anni ‘60 acqua e bibite erano ancora in bottiglie di vetro. Anche i maleducati di allora le abbandonavano lungo il sentiero e ricordo che un mio amico durante la discesa ne caricò parecchie nello zaino non per intenti ecologici, termine che non esisteva ancora, ma per molto più prosaiche ragioni monetarie. A quel tempo riportando le bottiglie vuote al lattaio o al droghiere si riceveva il rimborso di qualche decina di lire. Per molti anni il Guido ha svolto quest’attività domenicale prima di andare a gestire il rifugio Elisa.
Lemonsoda e Oransoda
Qua e là sulla roccia dei sentieri della Grignetta trovavi le scritte Oransoda e Lemonsoda. Le ricordo sulla Direttissima e allo sbocco del canalone Porta, sotto il Sigaro, ma ce n’erano anche da altre parti. Acqua in Grignetta non ne trovi e l’idea della bibita fresca stimolava la sete. Non ho mai saputo chi abbia fatto queste scritte, qualcuno ipotizzava un’azione di marketing da parte del Guido ma non c’è mai stata conferma. Il tempo e le intemperie hanno fatto pian piano sbiadire, quasi sparire, le scritte e nel frattempo sono nate tantissime nuove bibite. Passeggiando in città trovi dovunque sui muri scritte di tutti i generi, fastidioso simbolo dell’imbecillità degli scrittori della bomboletta che nulla hanno a che fare con i veri artisti writer. Oggi i fanatici ecologisti stigmatizzerebbero quelle scritte sui sentieri, ma che bei ricordi quando bevo una Lemonsoda.
Le piste da sci
Ai Piani Resinelli si sciava, un paio di skilift nel parco Valentino e un altro che scendeva verso Abbadia. La neve arrivava copiosa malgrado i soli 1300 metri di quota. Per lo più in zona mi allenavo anche con le pelli di foca recuperate da qualche amico reduce dal servizio militare negli alpini. Ma qualche volta ho usato anch’io gli skilift, erano piste senza grandi velleità ma era piacevole sciare nel bosco. Poi le variazioni climatiche e la concorrenza di località sciistiche vicine più titolate hanno portato alla chiusura degli impianti.
L’Osteria da Zaccheo Se andavi ad arrampicare alle Corna di Medale la sosta all’osteria da Zaccheo era d’obbligo. In salita ti fermavi per bardarti per l’arrampicata, lasciavi tutto il superfluo nello zaino sotto una panca e te andavi a fare la Cassin. A quel tempo non pensavi proprio che qualcuno potesse rubarti lo zaino. Al ritorno ti fermavi a mangiare, spesso assieme alle mogli, tua e del tuo compagno di cordata, che con un po’ di batticuore ci avevano atteso pazientemente. Che buona la polenta oncia! Già che non si doveva più arrampicare si poteva anche bersi un bel quarto di vino, rosso ovviamente. I prezzi erano onestissimi, adatti a giovani rocciatori squattrinati. Una volta che avevamo mangiato e bevuto in quattro il gestore ci presentò il conto di tremila lire, ci aspettavamo più del doppio per cui gli dicemmo “ma è sicuro?”. Tutto preoccupato ci ha risposto “è troppo?” Oggi anche l’Osteria da Zaccheo ha seguito il destino dell’Alippi, è diventata una casa privata. Che peccato!
Il chiodone sullo Spigolo del Nibbio
Il primo tiro dello spigolo del Nibbio è abbastanza ostico, soprattutto nei primi metri. Negli anni ’60 non c’era neppure lo spit dopo cinque metri dall’attacco. Già allora la roccia era lisciata dal passaggio di migliaia di arrampicatori e dopo aver penosamente strisciato nella larga fessura dovevi raggiungere uno spuntone a cui, finalmente salvo, ti attaccavi con tutte e due le mani per uscire dagli impicci e magari ci mettevi cordino e moschettone. Quando dopo una ventina di metri arrivavi in sosta ci trovavi un bellissimo chiodone risalente alla prima metà del secolo. Non so chi l’avesse piantato, forse Dones. Grosso più del triplo dei chiodi normali, di ferro grezzo, sarà pesato almeno mezzo chilo e avrebbe potuto sostenere il peso di un camion. Molte volte avevo pensato di cavarlo per aggiungerlo ai miei cimeli ma il rispetto per il suo significato storico me lo aveva impedito. Oggi non c’è più, è sostituito da spit e catena, più adeguati ai tempi moderni ma senza dubbio molto meno romantici.
Una strada sola per andare a Lecco
Per andare a Lecco da casa mia, in zona piazzale Corvetto a Milano, c’era una strada sola. Si percorrevano i viali delle regioni (Lucania, Molise, ecc.) in piazzale Loreto si prendeva viale Monza, da Monza si costeggiava il parco dalla parte di Villasanta, poi Merate, Calco, Garlate, Lecco. Un giorno andando a fare per la prima volta la Cassin al Medale, Michele il mio compagno di scalata disse “vai a Lissone, c’è una strada nuova”. Effettivamente era così ma la strada era sbarrata da dei cavalletti. “Non c’è problema, vieni che li spostiamo” la strada non era ancora stata inaugurata ma era tutta agibile e tutta solo per noi che a tavoletta, 95 all’ora la massima velocità delle Seicento anni ’60, arrivammo a Lecco in un battibaleno. La Seicento andava piano ma a quel tempo, giovane guidatore gasato, da casa ai Resinelli stabilii dei record. Certo alle 5 di mattina i semafori dei vialoni erano solo lampeggianti e con un po’ di attenzione e un po’ di rischio si poteva correre in città a 80 all’ora, i comuni avevano le finanze floride e non dovevano far cassa con gli automobilisti, l’autovelox non era stato neppure immaginato. Così fu che nel 1965 stabilii con la 600 il record di un’ora e dodici minuti casa/Resinelli battuto in seguito, ma facendo la superstrada, dai 59 minuti con la Renault coupè R15TL comperata dopo alcuni anni che lavoravo. Record non più da me eguagliato a causa di limiti di velocità, dissesti finanziari dei comuni attraversati, 90 all’ora dopo il bivio di Erba, autovelox qua e là, limite di 70 all’ora su una curva, prima dell’uscita per Briosco, che anche un principiante potrebbe fare a più di 100 ma che è meglio fare a 70 perché la polizia locale fino a qualche tempo fa si nascondeva con l’autovelox dietro la curva e adesso ha installato una telecamera nascosta dietro l’arcata del ponte. La vecchia strada c’è ancora anche se anche lei è stata costellata di divieti. In vena di nostalgie qualche volta la ripercorro.
Il Passaggino
Anche lui c’è ancora ma è stato addomesticato. E’ il passaggio tra il Magnaghi Meridionale e quello Centrale, il punto più ostico della normale traversata dei Magnaghi. Salita la bellissima normale del primo Magnaghi il punto obbligato è “il passaggino”. Oggi superprotetto da un paio di spit non incute alcun timore ma nei tempi passati non era così. Dalla sosta alla fine dell’ultimo tiro del primo Magnaghi dovevi fare parecchi metri sprotetti prima di arrivare ansimante al provvidenziale chiodo sul secondo Magnaghi. All’inizio stagione quando lo rifacevi per la prima volta c’era sempre un po’ di preoccupazione poi le volte successive i movimenti erano stati memorizzati e potevi fare anche bella figura con gli eventuali spettatori.
L’albero della Solitudine
Non sono sicuro che la Rocca di Baiedo faccia parte delle Grigne, penso di sì perché è a destra del torrente Pioverna che dovrebbe dividere la Grigna dal gruppo Campelli, a cui dovrebbe appartenere anche l’Angelone, comunque al di là di precisazioni pignole mi piace ricordare un albero. La via Solitudine, capolavoro di Don Butturini e i suoi Condor è una bellissima via sulla Rocca di Baiedo. Per tanti anni al termine del primo tiro ti accoglieva un albero frondoso con massicce radici a vista. Aveva tanti vantaggi: con un cordino attorno al tronco o alle robuste radici serviva come assicurazione, ti faceva sedere comodamente sulle radici con la schiena contro il tronco, d’estate ti riparava dal sole mentre aspettavi che salisse il secondo e riparava il secondo mentre il primo soffriva in aderenza sul passaggio più difficile della via, ti serviva per la corda doppia quella volta che avevi attaccato col tempo incerto che poi non era stato più incerto trasformandosi in un temporale come mi capitò quando vi incontrai proprio Don Butturini. A seguito dei lavori di ammodernamento delle vie della zona l’albero è stato eliminato. Oggi un paio di catene lo sostituiscono per garantire la sicurezza della sosta, purtroppo non sono comode e frondose. Grazie albero per quello che ci hai dato!
Il Rifugio Pialeral
Scioccamente ho frequentato poco il Grignone perché ero più interessato all’arrampicata, però avevo visitato tutti i rifugi Bietti, Bogani, Riva, Brioschi con traversata alta, Brunino anche lui non è più un rifugio, è diventato agriturismo. In zona ho fatto solo un’arrampicata al Torrione dei Nibbi dopo la porta di Prada, arco naturale simile a quello del faraglione dell’isola di Ponza. Il rifugio Tedeschi al Pialeral era un bel rifugio, massiccio di pietra a vista, quando nel gennaio 1986 mi dissero “non c’è più, è stato spazzato via da una valanga” non ci avevo creduto e avevo voluto controllare di persona. Incredibile, del robusto edificio a due piani non era rimasto niente, solo il pianale di cemento su cui era stato costruito. Non riuscivo a capacitarmene, il pendio che porta alla vetta era ben distante e una normale valanga sarebbe stata molto rallentata dalla zona pianeggiante prima del rifugio, chissà quante valanghe erano arrivate fin lì nei suoi 78 anni di vita. La spiegazione che venne data fu che dal costone, invece che della neve, si era staccato un immenso lastrone di ghiaccio largo quasi 2 km che era scivolato a gran velocità e come la lama di una ghigliottina aveva falciato il rifugio. Oggi più a valle esiste ancora un rifugio Pialeral dedicato ad Antonietta Pensa che negli anni successivi al cataclisma aveva riaperto il rifugio riadattando una baita ma purtroppo era morta pochi anni dopo.
E poi…
E poi c’era anche il negozio di alimentari più o meno dove oggi c’è il ristorante 2184: mi pare che il padrone si chiamasse Gino e il chiosco di Redegalli cavalier Paolo con il suo asinello e il negozio di sport del papà dei fratelli Giudici. Cesare Giudici era un forte arrampicatore e gestiva col fratello il rifugio SEL dove si mangiava benissimo. Il loro papà mi aveva suggerito un maglione rosso: “è un materiale nuovo si chiama Pile”; come tutti anch’io ho lasciato i maglioni a favore delle felpe in pile ma a questo sono affezionato e ogni tanto in vena di nostalgia lo indosso ancora. E poi c’era anche…
Poteva finire molto male
Era ancora inverno mi pare febbraio, negli anni ’60 l’inverno faceva ancora il suo dovere con freddo intenso e neve abbondante. Era da novembre che non si andava in Grigna. Non eravamo certo inattivi, gli sci li mettevamo ogni domenica di bel tempo, ma la voglia di montagna e avventura cresceva e quindi con Massimo avevamo progettato una camminata con obiettivo vetta della Grignetta ma da nord. Si percorreva la Direttissima fino al colle Valsecchi e poi a destra sul versante più ostico. Solo una volta in estate, eravamo saliti in cima da quella parte.
Alcuni compagni di università avevano chiesto di unirsi a noi, non avevano molta esperienza di montagna ma erano rimasti attirati dai nostri racconti. Senza renderci conto che le condizioni invernali erano già impegnative per degli esperti, per il piacere della loro compagnia avevamo accettato di portarli con noi. Eravamo in cinque, era un giorno a metà settimana, bigiata di gruppo, tempo splendido. Sulle prime difficoltà i nostri amici, con l’energia dei ventenni, se l’erano cavata bene. Il sentiero era battuto ma la neve ovviamente rallentava la salita anche perché, nei punti più pericolosi, preferivamo per precauzione assicurare con la corda i nostri compagni inesperti. Dato il giorno infrasettimanale c’eravamo in giro solo noi. Lenti ma sicuri arrivammo indenni al colle Valsecchi immerso nel sole.
Girato l’angolo fu tutta un’altra storia, freddo glaciale, ombra, nessuna traccia, anche gli esperti dovevano legarsi e ci si doveva muovere uno alla volta. Dopo un paio d’ore ci rendemmo conto che avevamo percorso un tratto che in estate richiedeva sì e no venti minuti. Dopo un breve conciliabolo con Massimo fu chiaro che si doveva tornare indietro e subito, perché le giornate d’inverno sono corte. Riguadagnato non senza difficoltà il colle Valsecchi facemmo una breve sosta per rifocillarsi. Il silenzio era totale, quel silenzio che la neve rende ancor più silenzioso. Forse per la stanchezza, forse per la preoccupazione della responsabilità che mi sentivo nei riguardi dei nostri amici, mi sembrò di sentire un grido di aiuto giù nella val Scarettone. Gli altri non avevano sentito niente, scrutammo dappertutto ma non vedemmo nessuno, provai a chiamare ma nessuna risposta. Mentre stavamo per ripartire la sensazione si ripeté, riprovai a chiamare ma ancora nessuna risposta. Non ci pensai più, c’erano gli amici da riportare a casa prima che arrivasse l’oscurità.
Era una gara tra noi e il sole che calava. Il buio arrivò contemporaneamente a noi quando finalmente raggiungemmo le auto nel piazzale dei Resinelli. Vicino alle nostre macchine c’erano delle persone che vedendoci arrivare tirarono un sospiro di sollievo. Erano abitanti del luogo preoccupati nel vedere che non eravamo ancora tornati. Li ringraziammo per l’interessamento e finalmente ci potemmo rilassare e prendere un punch per riscaldarci.
Tutto è bene ciò che finisce bene. Ma non a tutti andò bene, quelle che avevo sentito erano veramente grida di aiuto. Seppi in seguito che il giorno dopo era stato ritrovato un escursionista con una gamba rotta morto per il freddo. Era molto più in basso rispetto al colle Valsecchi, giù in val Scarettone. Esaminando anche oggi la situazione mi rendo conto che nulla avremmo potuto fare per salvare quella persona. A quel tempo l’uso dell’elicottero per il soccorso alpino era solo agli inizi e il telefonino non esisteva.
La Guglia Angelina
Alta e affusolata si erge a destra della Direttissima dove il sentiero incrocia il canalone della val Tesa. Andando ad arrampicare all’Angelina incontri tutte le soddisfazioni che una giornata in montagna ti può offrire. Per raggiungerne la base si percorre parte del sentiero della Direttissima, panoramico e leggermente impegnativo, poco dopo il bivio per il Fungo l’Angelina appare stretta e slanciata in competizione estetica col contiguo Ago Teresita. La salita, circa 100 metri, è molto omogenea, né troppo difficile né troppo facile. Man mano che si sale il panorama si allarga sempre più su tutta la zona occidentale della Grignetta e la vetta ti accoglie spaziosa ma non troppo. La vista gira a 360° senza ostacoli vicini. Con due calate in corda doppia sei di nuovo alla base e, se sei in forma, dalla forcella all’arrivo delle doppie ti cali all’attacco del Torrione Clerici e sali il suo estetico spigolo Boga.
L’Angelina l’ho salita già la prima volta che sono andato ad arrampicare in Grigna e poi ci sono ritornato spesso. Quanti ricordi! L’avevo scelta per fare la mia prima esperienza di bivacco. Al termine del secondo tiro c’era un posto comodo, aveva anche il vantaggio che alla sera potevi sfruttare il più caldo versante ovest e alla mattina, con un breve spostamento sul lato opposto, potevi usufruire dei primi raggi di sole. Non ho mai realizzato quel progetto.
Ci conobbi anche un dirigente del Catasto di Milano. Un fine febbraio avevamo scelto l’Angelina come prima salita dell’anno e avevamo portato con noi ad arrampicare per la prima volta Franco, il futuro cognato di Giorgio. La salita era proceduta bene ed eravamo tutti soddisfatti. Sulla vetta avevamo trovato un signore di una cinquantina d’anni salito con un ragazzo che, pur non essendo guida, si era fatto pagare. La discesa si svolgeva sul versante nord. Scesi per primo in modo da poter attrezzare subito la seconda doppia, che portava alla base, con la corda che mi avrebbe portato il cinquantenne. Per sicurezza, data la sua inesperienza nelle manovre di corda, sarebbe sceso assicurato dall’alto. Passava il tempo, non scendeva nessuno ed ero sempre più infreddolito, il nord e il febbraio si facevano sentire. Mi rendevo conto che in vetta c’era un po’ di movimento perché continuava ad arrivarmi addosso la neve smossa da quelli di sopra. La conformazione della roccia, con uno strapiombo proprio sopra la sosta, complicava un po’ le comunicazioni con loro. Sentivo che il signore protestava che quella non era la corda doppia giusta. Dopo quasi mezz’ora di congelamento, neve in testa e imprecazioni, finalmente l’aumento della neve che mi arrivava addosso mi fece capire che qualcuno finalmente scendeva. Quando arrivò da me, che ero infreddolito e inviperito, cercò di spiegarmi che non aveva fiducia di come il ragazzo che lo aveva accompagnato volesse fargli effettuare la doppia. Io risposi a muso duro: “Sono un istruttore di roccia, deve fare come dico io”. Non era un bluff, era vero, l’estate precedente ero stato istruttore alla scuola Graffer nelle Dolomiti di Brenta. Rassicurato scese immediatamente la seconda doppia senza esitazione. Quando fummo tutti riuniti alla base si presentò: “Sono il ragionier B…i, direttore di non ricordo quale ufficio del Catasto”. In realtà a quel tempo non sapevo neanche cosa fosse il Catasto ma compresi che doveva essere un pezzo grosso. Poi aggiunse: ”Grazie per avermi aiutato, vorrei che una sera veniste tutti (esclusa la sua sedicente guida) a cena a casa mia”. Cosa che facemmo qualche settimana dopo. Lui non era un grande alpinista ma la moglie era un’ottima cuoca, ricordo una mangiata e bevuta pantagruelica.
Purtroppo la frana di una parte della sommità ne ha sconsigliato la riattrezzatura e temo che questa bella montagna cadrà nel dimenticatoio. Un peccato per le nuove generazioni di arrampicatori!
Il Nibbio
Per tutti il Nibbio è un rapace di medie dimensioni, per chi ha reminiscenze manzoniane è uno dei Bravi che poi erano cattivi, per chi arriva ai Piani Resinelli il Nibbio è la prima sfida della Grigna alle velleità dei rocciatori. Per anni è stato il posto per arrampicare più vicino all’auto, meno di dieci minuti di cammino. Negli anni ’60 il tempo delle falesie era ancora lontano, la Placca Condor era ancora solo una ex cava, per la verità c’era qualche possibilità ai giardini di porta Venezia a Milano ma quattro metri di salita erano proprio pochi. Già dal parcheggio si vede il suo versante ovest percorso da vie di media difficoltà. E’ bellissimo percorrerle nel tardo pomeriggio col tiepido sole che le colora di arancio. Uno spigolo rivolto a nord lo separa dalla parete est dove si trovano le vie più impegnative. Su questa parete la prima via fu tracciata negli anni ’30 da Emilio Comici e poi a seguire aprirono le loro vie i più bei nomi dell’alpinismo lecchese Cassin, Dell’Oro detto Boga, Ratti, Merendi. Dopo l’evoluzione dell’arrampicata negli anni ’70 le linee tracciate sono diventate una cinquantina.
Il mio primo approccio col Nibbio non fu dei migliori. Avevo scoperto la sua esistenza sulla guida Saglio che consultavo alla biblioteca di Milano. Il tempo non era esaltante, il lago è bello ma spesso genera nuvole che si attaccano alla prima montagna che incontrano, è questo il caso della Grigna che purtroppo molto spesso soffre di questo clima nebbioso. Visto il breve tragitto dal piazzale delle auto, avevo portato anche mio papà e mia mamma come spettatori e oltre a me c’erano Carlo, Giorgio e Francesco. Il sentiero di approccio passava nei pressi di una stalla abbandonata e con una breve salita arrivava a uno spiazzo sotto la parete nord ma con vista anche su quella est. Papà e mamma si fermarono nello spiazzo da cui avrebbero potuto assistere alla nostra performance.
La meta era lo “spigolo del Nibbio” frequentata salita di IV grado con parte iniziale di IV+. Che fosse molto frequentata ce ne accorgemmo subito dalle prime rocce scivolose e lisciate dall’uso oltretutto senza nessun chiodo di tranquillità. Tempo brutto, roccia scostante, nessun chiodo in vista: ce n’era abbastanza per scoraggiare chiunque, per cui dopo un po’ di tentativi poco convinti rinunciai. Provò allora Francesco detto Cecco ma dopo tre metri la roccia scivolosa fece il suo lavoro e Cecco cadde tra noi, per fortuna solo con una leggera storta alla caviglia. Contemporaneamente dalla via Campione d’Italia sull’altra parete con grande frastuono di ferraglia venne via un chiodo con attaccati la staffa e il relativo arrampicatore che la stava usando, un volo di una decina di metri per fortuna senza conseguenze. Alle imprecazioni dalla parete est facevano da contrappunto le implorazioni di mia mamma dallo spiazzo “Ugo vieni via”. Non sia mai che un Nibbio qualunque respingesse me che quell’estate avevo salito da capocordata il Campanil Basso. Vagando alla base dello spigolo trovai una soluzione più abbordabile a destra e fu così che salimmo in cima per quella che poi seppi essere la via dei Ciuch. Il nome non era eccezionale, ma almeno la dignità era salva, anzi per rimarcare la nostra bravura quello stesso giorno, dopo aver tranquillizzato la mamma, la ripetemmo per due volte.
In seguito ci sono tornato frequentemente ma il mio rapporto con questo spigolo non è mai stato idilliaco. Non sapevo mai come andasse a finire. Delle vote lo salivo elegantemente magari con la variante finale Cassin o con la variante diretta. Altre volte lo salivo impacciato e con difficoltà. Sono stato anche sul camino Mosca dello stesso versante, questo lo percorrono in pochi, a torto perché è suggestivo e divertente.
Sulla parete est ho percorso solo la via Campione d’Italia che a quei tempi era considerata quasi di VI grado perché non era ancora entrata in uso la distinzione tra gradi per la libera e gradi per l’artificiale. Io avevo poca dimestichezza con le staffe e mi ingarbugliavo un po’, per cui in gran parte della via passai in libera o tirandomi sui chiodi. Sotto la parete est ci sono andato tante volte, di solito al pomeriggio al ritorno dalle arrampicate. Si cercava di salire slegati i primi metri della Comici (passaggio di VI grado, ci sono riuscito solo 2 volte) o delle altre vie difficili come la Boga o la Cassin. Altrimenti ci si accontentava di andare su e giù dal Sasso Rossi. Un pomeriggio ho incontrato il noto alpinista Franco Perlotto che saliva e scendeva con noncuranza sul masso sotto la via Cassin seguendo linee apparentemente impossibili.
Il Torrione Fiorelli
Non si può non notarlo, si erge maestoso sopra i ripidi prati a lato del canalone Porta. E’ l’ultima guglia a destra tagliata a metà da una stretta cengia erbosa che cinge la parete ovest fino allo spigolo sud. Da ragazzo su questa cengia correvo avanti e indietro senza problemi d’estate e d’inverno, oggi la percorro con molta più attenzione, l’erba può essere scivolosa e con la neve è ancora peggio; il mio rapporto con neve e ghiaccio non è mai stato idilliaco. Con gli sci, anche sul molto ripido me la sono sempre cavata bene; diverso il discorso per camminate e salite su neve ripida, soprattutto se una scivolata poteva diventare fatale. Totalmente a mio agio sulla roccia, se la salita comprendeva qualche passaggio su neve diventavo insicuro come un principiante.
Sul Fiorelli ci sono parecchie vie, anche recenti, ma la maggior parte sono molto difficili e con roccia poco buona. La parte più frequentata è quella al disopra della cengia. Ci si può arrivare sia da est salendo per prati ripidissimi (un mio amico in discesa si fece assicurare con la corda) sia da ovest percorrendo inizialmente il sentiero della cresta Senigallia e proseguendo poi a destra al bivio sotto il Torrione della Grotta. Questa soluzione è sconsigliata con camicie di maniche corte, c’è tratto di un centinaio di metri stretto tra ortiche alte come una persona, la prima volta ero in canottiera e non fu una bella esperienza.
La via normale è breve, circa 70 metri, e non è difficile. L’attacco è a nord all’altezza della cengia. L’ho percorsa tantissime volte, anche da solo con un record personale di 7 minuti, un tempo non male per un arrampicatore normale.
La prima volta che ci salii trovai alcuni moschettoni che qualcuno aveva utilizzato per una ritirata in corda doppia, ovviamente diventarono nostri così come i chiodi cui erano agganciati. Solo dopo parecchi anni scoprii che erano stati lasciati da quelli che diventarono i miei compagni di arrampicata di una vita, Massimo e Maurizio, coi quali arrampico tuttora (attualmente circa 220 anni in tre). Una variante di una ventina di metri sale con maggiori difficoltà dall’interno dell’antro sotto l’avancorpo della normale. Si sale con eleganti spaccate e si esce da un largo buco sul ripiano della prima sosta della normale. Questa variante negli anni ’60 era schiodata, da un po’ di anni un paio di chiodi garantiscono una maggior tranquillità. Quante volte quella grotta ci ha ospitati nelle giornate di brutto tempo. In attesa di una schiarita provavamo a salire tutte le linee possibili di quei 20 metri. Una volta facemmo anche un gioco sciocco dettato dalla noia dell’attesa che cessasse la pioggia: qualcuno aveva abbandonato nella grotta delle bottigliette di succo di frutta, le usammo come bersaglio delle nostre sassate, aggiungendo alla maleducazione dei predecessori i cocci della nostra stupidità.
Col bel tempo invece, dopo la salita preferivamo metterci sul ripido praticello dello spigolo sud al termine della cengia erbosa. Era come stare sulla prua di una nave, con i boschi e i prati dei Piani Resinelli qualche centinaio di metri sotto di noi e la pianura lombarda davanti. Il più bel ricordo di questa prua è una foto in bianco e nero di Vittorio, uno dei mie amici giovanili più cari, che beve a garganella da un bottiglione di vino rosso. Pochi mesi dopo Vittorio emigrò in Canada a Edmonton dove è restato tutta la vita. Prima dell’addio per il Canada mi regalò il suo coltello da boy scout con incise a fuoco le sue iniziali C.V. Lo porto ancora nello zaino, forse come amuleto ma ancor più come ricordo di un caro amico e di una gioventù ormai lontana.
I Magnaghi
Guardando la Grignetta dai Piani Resinelli si evidenzia sulla destra un massiccio castello di roccia. Si tratta del gruppo dei tre Torrioni Magnaghi cui è addossato il vertiginoso Sigaro Dones. Difficili a ovest, più abbordabili da sud ed est, a nord il terzo si collega pianeggiante alla cresta Sinigallia.
I primi quattro tiri della via normale sulla parete est del primo sono bellissimi, la roccia è salda, appigliata, aerea, senza “mauvais pas”, si sale dove si vuole e quindi, secondo i criteri moderni delle vie parallele a 5 metri una dall’altra, potresti considerare ci siano 5 o 6 vie diverse, il 5° tiro è un po’ meno estetico e ha qualche appiglio mobile: perciò è più divertente salire direttamente sul secondo Magnaghi per la bella e ben protetta variante Fasana, così si evita anche il “passaggino”. Se poi, invece che parete vuoi fare camino, ti sposti a sinistra e sali il bel Camino meridionale e se ti sposti ancora più a sinistra puoi salire la via aperta da Carlo Mauri, ovviamente, visto il nome dell’apritore ti devi aspettare qualcosa di più impegnativo. A sud trovi la via Albertini e lo Spigolo Dones, due bellissime vie classiche che hanno lo stesso attacco in comune anche con la non facile normale del Sigaro Dones.
E’ chiaro da quello che scrivo che il primo, il Magnaghi meridionale è il mio preferito, la normale la salirei sempre senza mai stufarmi. L’ho percorsa in salita e in discesa, da solo e in cordata, in tutte le stagioni, anche d’inverno perché la sua esposizione soleggiata la rende sempre attraente e quasi mai vetrata. Sul secondo ho salito la difficile via Gandin e la meno nota via Fasana di cui ricordo due righe del Saglio per descrivere il passaggio chiave… appiglio nascosto piccolo, … coperto da un ciuffo d’erba. Sul terzo ci sono la bella normale e la classicissima via Lecco. Insomma sui Magnaghi ci si potrebbe stare una settimana senza rischio di annoiarsi.
E poi c’è il Sigaro, guglia bellissima purtroppo penalizzata dal troppo vicino Magnaghi che non le permette di apparire in tutta la sua arditezza. Solo da ovest si riesce ad apprezzarne appieno la forma slanciata. La via normale non è facile si tratta di più di IV grado. La prima volta che ci provai dovetti rinunciare, anche perché avevo sbagliato il secondo tiro, dove sembrava più logico era in realtà troppo difficile. Ma il Sigaro è così bello che era un peccato non salire in vetta. Per cui qualche tempo dopo, con una giusta preparazione psicologica, ci ritornai e con determinazione raggiunsi la cima. Le volte successive scelsi la variante Boga che permette di evitare di tirarsi sui chiodi. Poi con Alessandro abbiamo salito la meravigliosa via Rizieri sul versante ovest, difficile ed espostissima.
Ai Magnaghi ci si può arrivare da tre itinerari diversi, tutti estetici e di soddisfazione, vale la pena di percorrerli a turno. Il più frequentato è quello che percorre un pezzo di Cermenati e poi traversa lungamente a destra fino ad arrivare alla confluenza con il canalone Porta. Offre una bella vista sulle impegnative pareti occidentali dei Torrioni. Itinerario che sconsiglio con la neve, basta una scivolata e si arriva nel canalone 300 metri sotto.
Bellissimo è l’approccio dal canalone Porta. Questo, al contrario, è consigliabilissimo d’inverno, il canalone largo una ventina di metri sale per neve nella prima parte e per non difficili roccette nella seconda, sbucando al termine proprio sotto al Sigaro. Una sola volta mi ha creato qualche preoccupazione. Aveva piovuto per sette fine settimana consecutivi, era quasi fine aprile e non avevo ancora combinato niente. Stufi dell’inattività l’ottava domenica di brutto tempo Giorgio e io abbiamo deciso di andare in Grigna comunque. Anche quell’anno non volevamo perderci il Porta con la neve che percorrevamo almeno una volta all’anno. Era una giornata umida e nebbiosa, non si vedeva a più di 10 metri e si sentivano sibilare pietre che non potevi capire da dove arrivavano; ovviamente dall’alto ma da destra o da sinistra? Tra l’altro a quel tempo il casco lo usavano solo i tedeschi, noi confidavamo nell’Angelo custode. Per fortuna le pietre avevano poca mira e uscimmo indenni da questa esperienza.
Il sentiero della cresta Sinigallia sale a destra del Porta e ti permette di ammirare il versante orientale dei Magnaghi. E’ quello più facile, non si devono mai usare le mani, ma è anch’esso molto panoramico.
Albertini, inizio di un’amicizia ultracinquantennale
Massimo l’ho conosciuto a scuola, studiavamo entrambi all’università di Fisica di Milano. Casualmente l’avevo sentito discutere di montagna e visto che l’argomento interessava entrambi avevamo cominciato a parlare della nostra passione comune, arrampicava, conosceva le Dolomiti e andava in Grigna. Anch’io la frequentavo da tempo assieme a Giorgio e avevo cominciato a conoscerla bene e a fare arrampicate abbastanza impegnative, almeno secondo me.
Con Massimo ci eravamo ripromessi di fare un’arrampicata assieme un giorno o l’altro. Riuscimmo a combinare per il diedro Albertini, una classica di 4° grado che non avevo mai salito prima, sul Magnaghi Meridionale. Con l’amico Giorgio in orario molto mattutino, passammo a prendere Massimo che abitava in zona corso Buenos Aires. Io capocordata, Giorgio come secondo, Massimo a chiudere la cordata. La prima volta che si sale una via c’è sempre un po’ di preoccupazione. In più si aggiungeva l’incognita di portare un compagno nuovo su una salita impegnativa. Controllavo attentamente il suo procedere, nulla da eccepire, arrampicava con prudenza e sicurezza.
Bella la via Albertini, tracciato logico, roccia ottima, difficoltà omogenee per tutta la salita, tante volte ci sono tornato e, invece di scendere subito, ho proseguito la traversata dei Magnaghi terminando con l’altra grande classica, la via Lecco. Arrivati in cima scendemmo dalla normale slegati come d’abitudine e anche in questo caso Massimo se la cavò ottimamente. Chi avrebbe mai detto che quella sarebbe stata la prima di qualche centinaio di altre salite insieme e l’inizio di un’amicizia che dura da più di 50 anni?
Dissertazione sui gradi di difficoltà
Le prime volte che arrampicavamo con Massimo e Maurizio avevamo valutazioni diverse sulla difficoltà delle vie che salivamo. Loro le consideravano un grado più alto di quanto le valutassi io. Dopo un po’ capimmo che dipendeva dalle Guide dei Monti d’Italia cui eravamo abituati a riferirci: il Castiglioni per le Dolomiti di Brenta era un po’ più severo, il Berti per le Dolomiti Orientali un po’ più largo di vedute. Poi arrampicando insieme in Grigna convergemmo sulla stessa valutazione.
La difficoltà di una scalata non permette una valutazione precisa come per esempio la temperatura, è piuttosto soggettiva un po’ come la bellezza o come il gusto di un cibo. Quando ho cominciato ad arrampicare c’era un’unica scala di difficoltà dal I al VI con relativa definizione da Facile a Estremamente difficile. Chi faceva il IV(Difficile) da primo di cordata era considerato bravo e io modestamente me la cavavo bene. La scala era chiusa verso l’alto e quindi nel VI si ammassava tutto “l’estremamente” ma non era un mio problema perché il sesto l’ho solo sfiorato.
Oggi di scale di difficoltà ce ne sono parecchie, la francese, l’americana, l’inglese e l’UIAA che non ha più un limite superiore. Un po’ di ordine lo creò la distinzione tra libera e artificiale. Scioccamente spesso la prima cosa che si chiede di una via è di che grado sia. Se la domanda si riferisce al se si è in grado di farla è un conto, se invece è per darne una valutazione è una sciocchezza. La bellezza di una via è indipendente dalla sua difficoltà. E infatti dopo gli anni ’80 nelle guide si è cominciato ad aggiungere una valutazione della bellezza (stellette, ecc.) che comunque è sempre un concetto relativo.
Le mie preferite sono la Traversata dei Magnaghi, in particolare il primo Magnaghi (l’ho fatto in salita, in discesa, da solo), la Giovane Italia alla punta Giulia, la normale dell’Angelina, la via Lunga del Dito, la Corti alla Torre. A Massimo piacciono la Segantini, lo spigolo di Vallepiana alla Casati, la Fasana al Pizzo della Pieve. Sulla Cassin del Medale siamo entrambi d’accordo.
Paura
In passato, se andavo a fare una via che non avevo mai salito, mi capitava di avvicinarmi all’attacco con una sensazione di disagio, quasi di paura. Era un po’ la paura dell’ignoto, ero silenzioso, preoccupato e pensieroso. La via sarà difficile, saranno chiodati i passaggi più duri, troverò la direzione giusta e le soste, e la discesa? Nulla dicevo ai miei compagni di questi pensieri. Molto probabilmente erano uguali ai loro ma un po’ per vergogna e un po’ per non contagiarci a vicenda ognuno li teneva per sé. All’attacco ci si legava in silenzio, si appendevano chiodi e moschettoni, si indossava il casco. Poi, appena toccata la roccia, tutto spariva come d’incanto e veniva sostituito dall’entusiasmo del salire. Solo qualche momento di panico quando dal compagno arrivava l’avviso “corda finita” e non si era ancora trovata la sosta e non c’era traccia di spuntoni, chiodi, fessure dove piantarli.
Da molti anni non provo più questa sensazione. Almeno per le vie che salgo adesso, l’ignoto è scomparso, le incognite sono molte meno, le vie sono descritte tiro per tiro con numero di protezioni, schizzi e fotografie, difficoltà dei singoli passaggi, la discesa è quasi sempre già attrezzata. Ho quasi un po’ di nostalgia per quel senso di paura che dava un certo sapore di avventura.
In Grigna con tanti amici
La montagna può creare amicizie importanti, il legame della corda qualche volta non rimane solo fisico e spesso evolve in amicizia che può durare per tutta la vita. Anche se non ci si vede per tanto tempo perché impegnati negli eventi del vivere quotidiano un amico non si dimentica.
All’inizio tanti dei miei amici, incuriositi dai miei racconti di arrampicata, avevano voluto provare l’emozione della roccia.
La prima salita in Grigna la feci con Vittorio che però troppo presto emigrò in Canada.
Carlo lo ricordo abbarbicato in cima al Sasso Rossi per riprendere da vicino me e Maurizio impegnati sulla via Campione d’Italia al Nibbio. Si sposò presto e abbandonò la roccia per diventare un apprezzato fotografo pubblicitario.
Con Franco, detto Cecco, cominciai a fare salite impegnative non solo in Grigna. Con lui salii per la prima volta la via normale del Campanil Basso e assieme aprimmo, sulla cima Tosa del Gruppo Brenta, l’unica via nuova della mia vita alpinistica.
Con Giorgio ci conoscevamo dai tempi dell’oratorio, abbiamo arrampicato tanto un po’ dappertutto, siamo stati anche sul Monte Rosa alla capanna Margherita, 4554 metri l’altezza più alta che ho raggiunto in montagna. Abbiamo salito assieme la maggior parte delle classiche in Grigna, dal Fungo al Sigaro e in Brenta la via Preuss al Campanil Basso, uno dei capisaldi dell’arrampicata libera. Poi si sposò anche lui e lasciò la roccia ma l’amicizia è continuata ed ha superato ormai i 60 anni.
Claudio l’ho conosciuto nel canalone Porta, era un periodo di pausa di riflessione prima di quello che, come letto nelle righe precedenti, è il maggior pericolo per un arrampicatore, il matrimonio. Stava andando a fare i Magnaghi con il suo amico Enrico, io salivo da solo, cominciammo a parlare scoprendo in entrambi una grande passione per la montagna. La traversata dei Magnaghi di quel giorno fu la prima di tante arrampicate insieme e non solo in Grigna, abbiamo salito assieme anche il Campanile di Val Montanaia, uno dei simboli dell’arrampicata. Salii con lui da secondo, situazione inusuale per me, la Gandin ai Magnaghi, lo spigolo del Fungo e la Solitudine alla Rocca di Baiedo. Su quest’ultima lui salì con le pedule che usava ormai da tempo, io, ancora un po’ retrogrado, con gli scarponi e fu proprio in quella salita che mi resi conto che l’alpinismo si era evoluto e ormai anche per me era tempo di scarpette, nut e friend. Erano gli anni ’70, anche se l’aderenza non è la mia preferita perché gradisco gli appigli anche se microscopici, ma per non perdere il piacere di molte belle nuove vie moderne dovevo modernizzarmi anch’io.
Nel frattempo era arrivato Massimo e con lui Maurizio, suo abituale compagno di arrampicata. Per molti anni Massimo ha arrampicato da secondo, poi con il crescere dell’esperienza passammo all’alternata. Massimo arrampicava calmo e riflessivo, Maurizio scattante, creativo e un po’ sognatore. Con Massimo, che abitava prima a Milano e poi vicino a Bergamo, ho fatto il maggior numero delle salite della mia maturità alpinistica. Le nostre mogli, sopportando con pazienza la nostra passione, erano diventate amiche e spesso ci aspettavano ore e ore in rifugio o alla base delle arrampicate, vennero anche al rifugio Gnifetti 3647 metri sul monte Rosa e al rifugio Pedrotti in Dolomiti di Brenta, quattro ore di cammino. Con lui ho salito tutte le cime della Grigna per tante vie diverse, dalla Segantini allo spigolo di Vallepiana e poi la Cassin al Medale e la Zucchi allo Spallone e vie meno note come l’Angelica alla cima della Grignetta o la via delle Poiane. E poi tante salite in val di Fassa, val Badia, Arnad, anche un quasi Cervino dalla via Svizzera, fermati dal brutto tempo a meno di 200 metri dalla cima. Poi Massimo e Maurizio ci arrivarono in cima qualche anno dopo.
Maurizio lo conobbi in val di Fassa. Era compagno di Massimo con cui ci eravamo dati appuntamento per l’estate a Vigo di Fassa dove lui passava le vacanze estive. C’eravamo incontrati ai massi di Meida che erano alti una decina di metri e, parsimoniosamente chiodati, servivano da palestra di arrampicata. Maurizio, dopo la presentazione, con noncuranza mi mise alla prova per vedere come me la cavavo alle prese con un tettuccio a pochi metri da terra. Superai l’esame brillantemente e da allora diventammo amici e facemmo spesso cordata assieme. L’unico problema era che entrambi andavamo da primo per cui dovemmo accordarci per salire in alternata. Dopo il matrimonio, andò ad abitare a Genova e questo ci permise di arrampicare meno ma il piacere di stare insieme in montagna spesso ha avuto il sopravvento sulle distanze. In Grigna salimmo la prima volta insieme lo Spigolo della Crocetta sulla Torre Cecilia poi, tra le tante, abbiamo salito la via Littorio alla Torre Costanza, Chiappa e Istruttori all’Antimedale, la via Campione d’Italia al Nibbio e in Dolomiti di Brenta assieme a Massimo il nostro capolavoro di ultracinquantenni, la via Fox-Stenico alla cima d’Ambiez.
Con Alessandro abbiamo fatto la Rizieri al Sigaro, la Taveggia al Medale, il Diedro obliquo al Dito Dones e un tentativo alla Gandin del Cinquantenario sospeso, dopo il secondo tiro perché avevo le dita fuori uso al limite della tendinite. Quando facevo l’istruttore raccomandavo agli allievi di usare principalmente i piedi, ma lì me ne ero dimenticato anche perché di appoggi per i piedi ce ne sono un po’ pochi. Alessandro è una persona solare ed è il più giovane dei miei amici di montagna ma il divario di età non ci ha impedito di stare volentieri assieme e di fare vie che annovero tra le più difficili tecnicamente da me salite.
Poi ho arrampicato con Roberto, compagno di università, con Francesco detto Vieco, trentino che abitava a Milano, con Elena e Alberto amici di Trento, con Giorgia nipote del grande arrampicatore trentino degli anni ’30 Giorgio Graffer, con Franco, Daniele, Michele…
Ho passato dei bei giorni con voi. Grazie Grigna! Grazie amici!