Per le valli alpine, come d’altronde per tutta la gente della montagna, l’utilizzo delle piante per la fabbricazione dei diversi attrezzi da lavoro e per l’arredamento della casa è sempre stata la norma. I vari tipi di legno disponibile, il bagaglio di conoscenze collettive e l’ingegno individuale permettevano di realizzare manufatti con caratteristiche peculiari e adatti alle varie esigenze della vita quotidiana. In alcuni casi la particolarità della pianta ha dato origine anche a usi sorprendenti o curiosi.
Come per il cytisus laburnun o maggiociondolo, amboùern, ambuërn o lamburn nelle varianti dialettali…
Amboùërn
(maggiociondolo: pianta malefica)
di autore ignoto
(pubblicato su Nunatak, n. 71-72)
L’uso del maggiociondolo non dovrebbe entrare nella medicina domestica in quanto questa pianta, in tutte le sue parti, è considerata velenosa. In alcuni casi, tuttavia, l’infuso di foglie un tempo veniva usato come purgante ed energico colagogo.
È conosciuto e rivalutato come pianta ornamentale grazie ai suoi bei grappoli di fiori penduli, gialli, persistenti e molto decorativi. È un arbusto o un alberello che raggiunge rapidamente la sua massima altezza ma il tronco ingrossa lentamente e non raggiunge diametri considerevoli. Il legno è molto duro ed elastico, resiste alle intemperie senza deteriorarsi per molti anni.
Il frutto è un legume che, a stagione inoltrata, si apre spontaneamente lasciando cadere dei semi bruni e reniformi che contengono la citisina che è l’alcaloide che provoca gli avvelenamenti o altri inconvenienti. Una curiosità: la citisina, sotto forma di cloridrato, veniva impiegata nella disassuefazione dall’abitudine di fumare.

Lasciato crescere allo stato spontaneo nei luoghi meno produttivi, presenta molte caratteristiche non comuni alle altre specie.
“L’amboùërn al marco pa (Nino dal Mori)”;
“Lou dëdin de l’amboùërn, lou nie, ar l’é dur coumò lou fère (Bep ‘d Lino)”;
“L’amboùërn al s’asquio pa e l’è ën bosc coumò ar l’è, al resto“;
“Lh’aoutri bosc ën sëchont i së rëtirën, ënvece l’amboùërn pa (Carlin Quiriot)”;
“L’amboùërn ar l’è amar coumò la suo (Quino dë Mecolesto)”.
“II (legno) di maggiociondolo non marcisce”;
“La parte interna del maggiociondolo, il nero, è dura come il ferro”;
“II maggiociondolo non si scheggia ed è un legno che com’è, così rimane”;
“Le altre specie seccando rimpiccioliscono, il maggiociondolo no”;
“II maggiociondolo è amaro come la fuliggine”.
Viene maggiormente utilizzato dalla gente dell’alta valle, oltre che per le caratteristiche sopra descritte, anche per la maggior facilità di reperimento. È frequente infatti dai 900-1000 m. fino oltre i 1500 m.
«Lo usavamo molto per fare i lëxoun del bèrs (1). La parte bassa della pianta è quasi sempre curva e si potevano fare uno o due lëxoun, dipendeva da come il maggiociondolo era grosso. Se era di maggiori dimensioni lo si frëndavo (2) a metà. Non potevamo ricavarne quattro a causa della curvatura; con le nostre seghe non ci riuscivamo. Sull’esterno veniva rifinito con l’accetta ed anche la parte di sotto, ma questa scivolando veniva liscia da sola.
Alle volte con il maggiociondolo si facevano anche gli stëvëlhoun (distanziatori, NdR), rotondi.
Con i fiori fatti con la tinivella nel banquet e nel lëxoun rimanevano più robusti. Soltanto che noi lassù non avevamo tinivelle grosse (di diametro). La più grossa era quella per fare i fori nella greppia. E non tutti ce l’avevano e bisognava chiederla in prestito.
Invece con la mourtazo (3) era più comodo. Il più delle volte le manette (impugnature, NdR) erano di frassino o di betulla come i banquet (Bep ‘d Lino)».
«Nella nostra famiglia avevamo un bèrs a un pezzo unico, manette e lëxoun assieme. Mio papa lo usava nel bosco, per trasportare i tronchi d’albero. Lo usavamo anche per trasportare il fieno giù dalla grangia. Sopra si sistemavano comodamente due fai (4) di fieno, anche tre; purtroppo però era pesante da trasportare (vuoto per il ritorno) (Ma(r)selo)».
Il maggiociondolo aveva una notevole utilizzazione alle méire, le case costruite ad una maggiore altitudine per l’alpeggio estivo, quasi sempre poste al limite tra la proprietà privata e il territorio comunale. Case generalmente a due vani frammezzati dal trabialum. Inferiormente la stalla e sopra l’abitazione. Di solito erano fiancheggiate da una costruzione più piccola adibita a deposito per il latte, burro, patate, ecc.
«Lo usavamo (il maggiociondolo) per fare il trabialum. Il trabialum è un solaio della grangia. Si mettevano le travi e quindi, di traverso, i barot(5) di maggiociondolo uno vicino all’altro, poi le quie (6) e sopra le zolle (di terra erbosa). Lo usavamo anche per i cantìe (travetti) del tetto della grangia.
Dipende dalle zone, ma noialtri del Sëre adoperavamo quasi sempre i travetti di maggiociondolo. Giù di lì per i Ruet (una località a valle di Serre) c’è quasi solamente quella specie di pianta. Dipenderà dal fatto che è situato più all’inverso (e gli esemplari più belli crescono all’inverso).
I lindal (gli architravi) delle porte delle stalle erano di maggiociondolo.
Ho anch’io una trave del trabialum a casa mia. Ma abbiamo dovuto metterci una pietra (sporgente dal muro) per farlo appoggiare, perché in punta si biforca (Bep ‘d Lino)».
Questo fatto spiega perché non si usava quasi mai come trave ma bensì come barot e cantìe.
Tutto il territorio di Ostana è esposto all’adrech, al sole. Le poche eccezioni, come i Ruet, sono comunque di estensione limitata. Questo può essere uno dei motivi per cui il maggiociondolo a Ostana non raggiunge l’altezza, la linearità e la dimensione uniforme che presenta alla medesima altitudine nel territorio di Oncino che è situato parzialmente all’ënvèrs (a mezzanotte).
«Una volta ad Ostana la vigilia di San Giovanni (23 giugno), si metteva un rametto di maggiociondolo fiorito al di sopra o sull’architrave stesso della porta e alla sera, verso le nove, sulla soglia si bruciava una gèrbo di paglia. Al mattino, uscendo, le mucche passavano sulla cenere e così venivano preservate dall’infiggersi le broquëtte (7), dall’azzopparsi. Tale consuetudine è rimasta fino a quando si è cominciato a fare i margari (cioè la transumanza) (Nino ‘d leto)».
L’ornare in segno augurale le porte delle stalle o altro con i fiori di maggiociondolo trova riscontro in altre località delle vallate alpine. A San Michele di Frazzo, in alta vai Maira, la sera del 23 giugno quando si rincasava con il bestiame, c’era la consuetudine di ornare le corna, il collo, qualche volta la coda (ad opera dei bambini) delle mucche. Così addobbate, con le guirlandos, si lasciavano trascorrere la notte.
«I paletti che sostenevano la paglia che ci preservava dall’umidità quando facevamo il letto nella stalla, erano di maggiociondolo (Nino dal Mori)».
«I cunei per la falce. Finito di batterla, per incunearla usavamo cunei di maggiociondolo. Sopporta bene il bagnato della rugiada e battendogli sopra non si scheggia. È così duro, compatto, che com’è così rimane. Non come il legno delle altre specie di piante che seccando si rimpicciolisce (Carlin Quiriot)».
Vige tuttora tra le genti di Ostana la consuetudine di dare in pasto ai conigli rami fogliati di maggiociondolo. Ne sono ghiottissimi, tanto che ne rodono anche la corteccia. Se se ne abusa, influisce sul fegato degli animali ma integrato dovutamente con fieno, erba, segala… li ingrassa e ne migliora la qualità della carne.
«Quando le pecore erano gonfie, per aver mangiato il trifoglio, invece di “forarle” gli facevano lou sëbouc (lo sbocco): un ramo attorcigliato in bocca, legato al collo. Innanzitutto il maggiociondolo è amaro e la pecora deve tenere la bocca aperta. Così l’aria esce e con il vomito anche l’erba.
Lou sëbouc lo facevamo anche alle mucche (Bep ‘d Lino e Carlin Quiriot)».
“As-tu damanco dal sëbouc?”, “ti necessita lo sbocco?”. Era la maniera di dire a chi doveva liberarsi delle conseguenze di una sbornia.
«Era quasi sempre di maggiociondolo la forca per il toro. Era facile a fare perché il maggiociondolo si biforca in maniera regolare. Le prime grondaie di Ostana erano di maggiociondolo, così come lo sono i pali più robusti dell’orto, per le stalle… le barre per il cavalat del letame (Bep ‘d Lino)».
Alcune canaoule, quell’attrezzo che infilato al collo delle bestie permette di sostenere il campanaccio, sono di maggiociondolo. Bagnate dalla pioggia o in presenza di umidità, il legno si inscurisce nella parte mediana, lou nìe, mentre rimane chiara la parte esterna.
Infine l’Amboùërn è il nome di una località che si trova a monte della cappella di San Nicolao mentre con l’Ambournet si distingue un gruppo di case sopra la borgata di Ciampagna, sul territorio di Ostana.
«Dalle nostre parti il maggiociondolo è sempre stato considerato una pianta malefica. Si diceva persino di non usare quel legno per far bollire il latte perché lo faceva inacidire.
Si diceva che se c’era una pianta da far seccare, era sufficiente prendere un piccolo pezzo di maggiociondolo, praticare un foro nella pianta e inserirvi quel pezzo di legno e nel giro di un anno quella pianta moriva.
I rami e le foglie si usavano per scacciare i pidocchi dai pollai. Si prendevano delle stanghe di questo legno e si sistemavano nei pollai ad una certa altezza da terra a forma di cavalletti sui quali le galline potessero andare a dormire. In questo modo i pidocchi sparivano… La corteccia, invece, si metteva a macerare per due o tre giorni nell’acqua e poi l’infuso ottenuto lo si adoperava per scacciare i pidocchi dalle capre e dalle mucche.
II maggiociondolo era usato anche come purgante.
Una volta, sui cantieri, quando c’erano ingordi che andavano a bere il vino nella borsa dei compagni di lavoro, il maggiociondolo era molto utile. Per riuscire a scoprire gli ingordi, si prendeva una bottiglia di vino, vi si introduceva una buona quantità di questa corteccia e la si lasciava in infusione per un giorno. Poi si colava il tutto e si portava la bottiglia sul cantiere e la si sistemava nella borsa in cui di solito si andava a bere e si aspettava di scoprire chi era il golosone. Quando si notava che uno aveva notevoli problemi di intestino e doveva spesso correre al cesso, si era sicuri di avere scoperto il colpevole. In seguito a quell’esperienza il colpevole non si vedeva più per due o tre giorni e per l’avvenire si era sicuri che quel tale non sarebbe più andato a bere il vino degli altri.
Sotto il maggiociondolo non cresce più nulla. Il maggiociondolo è un buon legno da bruciare.
L’essenza di quei fiori provoca notevoli giramenti di testa (Testimonianze dalla zona collinare di Barge e Bagnolo)».
L’articolo è un adattamento tratto dalla rubrica “II mondo vegetale nella cultura popolare” pubblicato sul Quaderno n. 4 (1984) del gruppo di ricerca etnografica “Da pare ‘n fieul”. Nell’originale le testimonianze sono in lingua occitana della valle Po con traduzione a fianco. “Da pare ‘n fieul” (di padre in figlio) nacque a Bagnolo Piemonte (CN) nel 1976 e tra gli anni ’70 e ’80 raccolse le ultime testimonianze della civiltà contadina nelle valli Po, Varaita, Pellice e Chisone contenute in quattro quaderni pubblicati tra il 1976 e il 1984 e in 2 musicassette per quanto riguarda il canto popolare spontaneo. Queste preziose ricerche sono state oggetto di un convegno che si è svolto a Ostana (CN) nel l’ottobre 2022.
Bibliografia
Aldo Poletti, Fiori e piante medicinali, vol. 1, Musumeci editore, Aosta, 1978;
Regione Piemonte, Guida alle specie spontanee del Piemonte, (a cura di) Istituto per le piante da legno e l’ambiente, Blu edizioni, Torino, 2004.

Laburnum alpinum, maggiociondolo alpino
Caratteri distintivi
Albero o arbusto mai più alto di 10 metri, il fusto è spesso inclinato e contorto. Corteccia: liscia, bruno-verdastra, con evidenti lenticelle, fessurata irregolarmente negli esemplari più invecchiati.
Foglie: trifogliate come nel Laburnum anagyroides, un po’ lucenti sopra, glabre e verde chiaro nella pagina inferiore.
Fiori: ermafroditi, gialli, a corolla papilionacea, profumati, riuniti in lunghi racemi lassi.
Frutti: legumi nerastri a maturità che permangono sulla pianta tutto l’inverno e contengono semi tossici.
Radici: piuttosto superficiali anche se molto ramificate, fornite di colonie dì batteri nitrificanti in grado di assimilare l’azoto atmosferico.
Legno: differenziato, con alburno bianco-giallo e durame bruno scuro bronzeo, molto pesante e durevole.
Ecologia
Specie eliofila o di mezz’ombra, mesofila, amante di suoli superficiali freschi ma ben drenati, a pH da basico a subacido. Vive da 1000 a 1500 (2000) m.
Ambienti forestali tipici
• Castagneti neutrofili
• Boscaglie pioniere e d’invasione
• Faggete
• Saliceto di saliconi
• Betuleto montano
• Acero-(tiglio)-frassineto
• Abetine
• Pineta di pino uncinato (solo Alpi Marittime)
• Lariceti (raro)
Impieghi
Utilizzabile in opere di recupero ambientale e in montagna come specie preparatoria consociata in impianti di bosco naturaliforme; si presta inoltre alla creazione di siepi. Trova impiego come ornamentale per la bellezza della fioritura, con l’accorgimento di piantarla in luoghi poco soggetti alla frequentazione dei bambini, data la sua tossicità.
Oggi il legno è sporadicamente ceduato per scopi energetici, mentre un tempo era impiegato per piccoli lavori al tornio e di scultura; il durame era richiesto come sostituto dell’ebano.
Curiosità
Colonizza i pascoli abbandonati e si infiltra nelle faggete degradate insieme con altre specie pioniere e secondarie.
Come molte piante tossiche (corteccia, semi e fiori sono velenosi), si utilizza in fitoterapia e in omeopatia per l’azione purgativa e come colagogo; ciononostante, i frutti sono appetiti dagli uccelli e i fiori dalle api per il nettare e il polline.
Note
(1). Lëxoun: parte di sotto del bèrs che a contatto del terreno (o della neve) permette allo stesso di scivolare; bèrs: grande slitta che, trainata dall’uomo, era usata per il trasporto di materiale di vario tipo.
(2). Frëndà: segare il legno “per punta” onde ricavarne assi di diverso spessore e lunghezza. La sega adibita a tale uso era denominata frëndo.
(3). Mourtazo: scalpello lungo e stretto particolarmente adatto a ricavare incavi e fori.
(4). Fai (de fën): mucchio di fieno, racchiuso in un apposito attrezzo atto a essere portato a spalla da una persona. Nel modo descritto si sveltiva l’operazione caricandone due o tre sul bèrs e quindi trainandolo.
(5). Barot: pezzo di legno, di lunghezza variabile dal metro e mezzo ai due metri, ricavato dalla pianta giovane del maggiociondolo. La definizione vale per tutte le specie di piante.
(6). Quie: sono sempre state di larghissimo uso tra la gente di montagna, per le recinzioni degli orti, il divisorio tra fieno e jaç (le foglie secche usate per la lettiera del bestiame) nel fienile, balconate, reti e sponde dei letti, come assi da costruzione, per barriere contro gli smottamenti, per usci e altro ancora.
(7). Broquëtte: chiodini a testa larga, zigrinati, di varia foggia, infissi negli zoccoli o negli scarponi per aumentare l’aderenza al terreno ed evitare un troppo veloce deterioramento. Però molti cadevano per l’attrito e gli urti dovuti alle strade pietrose. Di qui il pericolo che si infiggessero nelle zampe del bestiame.
Chissà che super cunei da roccia si potrebbero fabbricare…peccato si trovino poche piante sufficientemente larghe di diametro.E comunque sarebbe un vero peccato ucciderle per le nostre smanie per soffocare la noia.