Nell’Eden dei Laghi Prespa

Sono i più antichi d’Europa, studiati dagli specialisti e ignoti ai turisti: ecco un habitat ancestrale sospeso tra Grecia, Albania e Macedonia.

Nell’Eden dei Laghi Prespa
(tra icone bizantine, orsi e pellicani)
di Maurizio Menicucci
(pubblicato su lastampa.it/tuttoscienze il 3 luglio 2024)

In paradiso si può arrivare anche per caso. A noi è successo. Eravamo partiti dal porto greco di Igoumenitsa, acquisito un anno fa dal gruppo italiano Grimaldi, con fotocamera, bloc notes e tutt’altro programma. Volevamo documentare qualcuno dei tanti siti archeologici, tra cui le celebri meteore, disseminati lungo Egnazia, la nuova autostrada che, non solo nel nome, ricalca la via costruita nel 146 avanti Cristo dal proconsole di Macedonia, Gneo Egnazio. Invece, incuriositi dai sempre più numerosi cartelli con la sagoma di un’orsa adulta e del suo piccolo, abbiamo tirato dritto, di casello in casello, per 320 chilometri di boschi, vallate e acque, al confine tra la Grecia, l‘Albania, e la Repubblica di Macedonia. Usciti a Florinas, siamo sbucati in vista di quella che, senza saperlo, era la nostra meta: i laghi di Presta, il Grande e il Piccolo.
Estesi insieme poco meno del Garda, origine tettonica tra i 3 e i 5 milioni di anni – i più antichi d’Europa – sono famosi tra gli studiosi e gli appassionati di natura, quanto ignoti al turismo di massa. Da lì in poi, attirati dal flauto muto di un invisibile dio Pan, abbiamo scoperto un altro mondo, in bilico fra tradizioni millenarie e cambiamenti che, a partire dal clima, potrebbero spopolarlo oppure trasformarlo in un distretto agricolo intensivo: ma in ogni caso, distruggerne l’equilibrio.

I Laghi Prespa. Foto: Francesco Cabras.

Nel villaggio di Psarades, nascosto in una profonda insenatura del “Megali Limni” (il Lago Grande), arriviamo che è buio. All’alba, dopo una notte in una camera sobria come il suo prezzo, decine di volatili cominciano a ciarlare, chiarendo subito che siamo in uno dei santuari europei del “bird waching”. A colazione, davanti a uno yogurt greco talmente duro che si spalma sul pane, confrontiamo il livello del lago davanti a noi con una gigantografia alle nostre spalle. Porta la data del 2010. Da allora, l’acqua s’è ritirata di 500 metri. Più tardi, sul molo, uno sconsolato Kostas si lamenta: “Anche la pesca s’è ristretta”. Una ventina di carpe si agitano, rassegnate, nella cesta. “Specialità!”, ci dice, indicandole. Ci rassegniamo anche noi e per cena prenotiamo fette di carpa fritta. Per arrotondare, Kostas ci porta in barca ai romitaggi ortodossi. Le pareti carsiche a picco sul lago sono costellate di cavità che i monaci, scampati alle scimitarre turche dopo la presa di Bisanzio, avevano trasformato in celle, costruendo al loro interno monasteri in sedicesimo affrescati con magnifiche icone policrome.

Nel pomeriggio, costeggiando campi coltivati, dove uno stormo di oche selvatiche festeggia il probabile termine della migrazione, andiamo a Lamios. Lì, in un tipico casale in pietra e legno, c’è la società per la protezione della natura del Parco Naturale di Prespa, che comprende quasi tutto il “Mikrì Limni”, il Lago Piccolo. Due naturaliste, Irene Koutseri e Julia Henderson, ci riassumono la sua varietà: il 30% della flora greca – 800 specie vegetali – con un centinaio di endemismi; 272 specie di uccelli; 4 pesci endemici, tra cui un barbo e una trota, che si riproduce soltanto nelle fredde acque del rio di San Germano (Agios Germanos). Le lontre sono comuni. Mancano quasi del tutto i pesci carnivori, che invece si ritrovano nel terzo lago del sistema: quello di Ohrid, in Albania. Più basso di 200 metri, Ohrid è tributario del lago Piccolo, che a sua volta versa nel Grande attraverso una rete di canali anche ipogei, probabilmente collegati all’Adriatico. Considerando, poi, orsi, lupi, gatti selvatici, tassi, martore e faine, il Prespa rappresenta il catalogo completo dei mammiferi europei.

La zona più ricca di vita è Koula, la fascia di acquitrini che separa i due bacini, dai cui canneti si leva una polifonia brulicante a ogni ora del giorno. E’ il regno dei pellicani, quelli comuni, e quelli dalmati bordati di nero, che con circa 300 coppie formano la maggior colonia europea. Quando non veleggiano ad alta quota con le loro ali, ampie fino a tre metri e mezzo, scivolano lenti e grevi a pelo d’acqua, sfruttando lo strato di aria più calda che ristagna sulla superficie. La cautela con cui si tengono distanti dagli obiettivi lascia intuire che le relazioni con gli uomini non sono cordiali. Il motivo è quella sporta sotto il becco, dove ogni pellicano riesce a stipare fino a 13 litri di acqua e pesce, arando il lago come un Canadair. E’ vero che la maggior parte degli uccelli acquatici vive di pesce, e qualcuno, come i cormorani maggiore e pigmeo, si abboffa da non riuscirne quasi a volare, ma un pellicano arriva a 15 chili, con una fame proporzionale al peso. E anche lui, dopo ogni pasto, sembra che debba imparare di nuovo a volare.

Per curiosare nella città-canneto di Koula saliamo, a metà pomeriggio, in cima alla collinetta di Krina. Di ora in ora il passaggio dei migratori sia fa più intenso: oche, cicogne, ardeidi, ibis, svassi, folaghe, citando i pochi di un repertorio accessibile solo agli specialisti, soprattutto quando si tratta di dar nome a decine di passeracei. Tra poco, quando il traffico aereo toccherà il massimo, non è difficile immaginare che tutti si prenderanno a spintoni per un nido al Sole, che ora sta declinando. Scendiamo anche noi. Ai piedi di Krina, una lunga passerella galleggiante conduce ad Agios Achilleios. L’isoletta ha 10 famiglie residenti con pollaio, un piccolo monastero omonimo a sovrastar le case, numerose sacre rovine e una chiesa del 1000, bella e diroccata. Completano l’idillio, tenendo l’isola pulita come un prato inglese, una cinquantina di strani bovini, nani e con piccole corna, caratteristici del Prespa, e alcuni bufali d’acqua, che si vuole eredi di quelli persiani arrivati con l’esercito di Serse.
Il giorno dopo giriamo intorno al Piccolo Prespa e, lasciata la macchina nella borgata di Microlimni, imbocchiamo un sentiero a mezza costa che mena al punto più interno, stretto e suggestivo del lago, in territorio albanese. La fascia di acquitrini è fitta ed estesa. Al tramonto gli aironi bianchi, nascosti tra le canne, si levano all’improvviso, come fantasmi irritati, schiaffeggiandole rumorosamente.

Ma gli orsi? Secondo le zoologhe del parco, nella provincia sono pochi – una settantina – e molto schivi. Però, almeno quattro esemplari, tra cui un cucciolo, sono stati uccisi a fucilate, negli ultimi due anni. Le associazioni che li proteggono, Arktouros e Callisto, partner nel progetto europeo Life Bear-Smart Corridors tra Olanda, Italia (Parco Maiella) e Grecia, stanno moltiplicando gli sforzi per indurre gli allevatori a metodi più dolci contro l’intraprendenza di alcuni esemplari.
Per noi, la tentazione di andare a cercarli è forte. Se provassimo in alto, dove il disturbo è pari a zero, allora, forse… Detto, fatto, ci avventuriamo per una strada bianca verso le pendici che fanno da cortina ai laghi, fino a un pratone panoramico. Aguzzando lo sguardo sul versante di fronte, ci sembra di scorgere qualcosa che si muove. Inquadriamo il punto con il teleobiettivo e finiamo per ricrederci. “E’ solo un cespuglio mosso dal vento”.

Ripartiamo con l’auto, ma dopo 10 metri ci blocchiamo: “E’ lì”. Lo vediamo a occhio nudo, inspiegabilmente in forma per essere appena uscito dal letargo. La groppa argentata ben in evidenza, scende lentamente verso di noi, che ci avviciniamo un po’, ripetendoci l’un l’altro a mezza voce: se carica, buttiamo via la camera, che può sembrare un’arma, e ci sdraiamo proni, senza muovere un muscolo. Ma non ce ne sarà bisogno. Dicono che gli orsi hanno occhi deboli. Questo, però, ci ha visto benissimo a 200 metri. Si ferma qualche secondo con il muso per aria, forse perché in realtà quel che “vede” è il nostro odore, poi si volta, ci osserva, poi caracolla senza fretta, sparendo dietro a una costa rocciosa, in fondo alla valletta che lo separa da noi. Ci avviciniamo di una cinquantina di passi e sediamo su un sasso, aspettando che ricompaia, ma lui non lo fa, e non proprio è il caso di accorciare ancora la distanza.

Abbiamo una decina di immagini e, quando ritorniamo, a San Germano, tutti vengono a guardarle e a complimentarsi. Siamo stati fortunati, sì, però, agli occhi dell’orso, possiamoci anche vantare una benemerenza: abbiamo letto “Storia di un Re Decaduto”, di Michel Pastoreau. Parla proprio di quando, prima che la Chiesa lo detronizzasse in favore del leone cristiano, l’orso era stato per millenni il monarca pagano della foresta. Quella di latifoglie, ovviamente. Ve lo raccomandiamo, magari come prologo a una visita di questa Macondo dei Balcani, che chiede passi meditati e discreti per uscire dalla sua secolare solitudine. E poi, potrebbe anche salvarvi la vita…

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