Presentazione di Paolo Crosa Lenz al suo libro Alpeggi delle Alpi
Ai primi di marzo 2022 è uscito un mio libro che mi è molto caro: Alpeggi delle Alpi – Alpi e alpigiani in Val d’Ossola (Grossi Edizioni, Domodossola, 2022). È un libro scritto d’urgenza e in emergenza. L’urgenza è quella di provare a raccontare un mondo che non c’è più: storia e memoria fino a quando ce n’è. L’emergenza è stata quella della pandemia: chiusi in casa a cercare di fare qualcosa di buono. Se nel precedente Leggende delle Alpi (I ed. 2012, II ed. 2021) ho provato a raccontare la mentalità del montanaro ossolano filtrata dal mondo fantastico delle leggende popolari (il confine tra il bene e il male, tra i buoni e i cattivi, la speranza in una vita migliore), in questo ho provato a raccontare la quotidianità della vita materiale che per sette secoli ha segnato la vita di donne e uomini sui monti dell’Ossola. Sono due libri complementari: il primo narra il modo di pensare, il secondo il modo di lavorare. Oggi l’alpeggio tradizionale è morto, non tanto come luogo fisico ma come luogo culturale. Esistono moltissimi alpeggi in Ossola ancora “caricati”, ma il carico non è più quello delle carovane di mandrie, donne e bambini che salivano in quota agli inizi dell’estate. Oggi il carico avviene con i mezzi fuoristrada e la rivoluzione delle strade di servizio, spesso camuffate da “piste agro-silvo-pastorali”, ha trasformato le antiche baite di pietra in moderne casette intonacate, mentre pochi grandi alpeggi integrano la moderna zootecnia e caseificazione con i servizi ai turisti. Di altri alpeggi, quelli dell’abbandono, rimane solo la memoria. Questo libro infatti non è solo un libro di storia, ma soprattutto di memoria. Raccoglie l’urgenza della mia generazione di non dimenticare. È l’esperienza di vita di molti ossolani che da bambini trascorsero i tre mesi delle vacanze scolastiche all’alpe, a mungere mucche e capre, a raccogliere legna, a tagliare fieno.
Lo scrittore svizzero Plinio Martini in un libro (Il fondo del sacco, Edizioni Casagrande, Bellinzona, 1970) ha per primo raccolto questa urgenza. Racconta la storia di un uomo che abbandona giovane le povere montagne del Ticino per emigrare in America da dove ritorna benestante e solo, con il ricordo di una ragazza lasciata.
“Io a Cavergno sono tornato proprio per quel ricordo, e per levarmelo di testa forse devo parlarne una volta fino in fondo, a cominciare da capo per mettere insieme quello che abbiamo patito qui prima di partire, la nostra vita di allora, le bestie il fieno l’alpe il letame il male di schiena, e poi il buono, perché a essere giusto devo dire che abbiamo avuto anche di quello: forse mi può far bene a vuotare il sacco fino in fondo“. È uno dei grandi temi della letteratura del secondo Novecento (Cesare Pavese ne La luna e i falò); la grande domanda irrisolta del migrante (“Ho fatto bene a lasciare questa mia povera terra o avrei dovuto rimanere per renderla migliore?”).
Sono domande che si pone solo chi ha conosciuto il mondo. Questo libro vuole grattare in fondo alla memoria delle genti d’Ossola, ascoltare il ruminìo delle generazioni che per sette secoli hanno vissuto sulle Alpi Pennine e Lepontine e sulle “terre di mezzo” affacciate al Lago Maggiore.
È necessario raccontare tutto questo ai nostri giovani, impegnati in sfide di dimensioni nuove, per capire come eravamo e come siamo oggi.