Chiara Bau
Lo chiamavano “Avez del Prinzep”.
Quando lo sentii per la prima volta pensai si riferisse a qualche personaggio leggendario, protagonista di avvincenti saghe medievali. Quel nome mi rimandava ad episodi quali le crociate o la ricerca del Sacro Graal e con la fantasia immaginavo una sorta di cavaliere solitario intento a lottare contro le avversità.
In effetti non ero tanto lontana dall’aver indovinato. Si trattava sì di qualcosa o qualcuno che aveva lottato per tutta la vita contro tempeste, vento, intemperie, ma quel nome non identificava né un personaggio mitologico né chissà quale altra strana creatura.
Era semplicemente il nome di un albero, un magnifico abete bianco, uno dei monumenti naturali più prestigiosi del Trentino, situato nel comune di Lavarone presso l’Alpe Cimbra nelle vicinanze di Malga Laghetto.
Erano circa 250 i suoi anni e presentava solo una ferita sulla corteccia, causata da una specie di carie che aveva richiesto un intervento dendro-chirurgico ad opera dell’Istituto di San Michele all‘Adige per rimuovere il marciume e otturare la cavità con materiale sintetico.
Il grande abete era alto 54 metri.
Avez in Cimbro, un’antica lingua un tempo parlata sugli altipiani tra il Veneto e il Trentino, e tutt’ora in uso a Luserna, significa abete bianco. Per Lavarone e per tutto il Trentino l’Avez del Prinzep costituiva una meta turistica di primo piano, ma anche una meta didattica.
Il Corpo forestale ed il Comune per evitare danneggiamenti alla pianta, avevano emanato precise disposizioni che portarono a costruire intorno al tronco una sorta di recinto in legno.
Il nome “Avez del Prinzep” è legato alle leggende della montagna. Si narra che quella pianta fosse denominata il “Prinzep” cioè principe perché era la più bella, la più maestosa, la più forte all’interno di una foresta contornata da molti alberi giganti.
Sembra anche che “Prinzep” traesse origine da un racconto popolare secondo cui la pianta sarebbe appartenuta al Capo-Comune di Luserna, soprannominato appunto “Prinzep”. Ad ogni sindaco cimbro veniva infatti dato in dotazione un albero. Si narra che quell’abete sia stato dato al borgomastro di Lucerna, che di cognome faceva “Nicolussi Principe”.
Questo magnifico abete svettava elegante alla ricerca del sole e della luce, godendo di un microclima umido grazie a un piccolo bacino lacustre. Incuriosita, cercai subito delle foto di quell’albero tanto famoso e notai in tutte le immagini la presenza di persone che lo abbracciavano come fosse un amico o un babbo natale.
Per abbracciarlo occorrevano ben sei persone, la sua circonferenza aveva un diametro di 5,60 metri con un peso di circa 5 tonnellate, uno degli abeti più alti d’Europa, inserito nei testi degli alberi monumentali. Tra me e me trovai da una parte singolare, dall’altra affascinante che il telegiornale riportasse una notizia riferita ad un semplice albero, certamente dalle dimensioni maestose e di grande valore naturalistico, ma dalla notizia traspariva ben altro.
Perché mai prestare tanta importanza ad un singolo albero, da meritare una notizia al TG in prima serata? Il Notiziario riportava che “in una domenica di novembre il forte vento che aveva spirato sulle foreste dell’Alpe Cimbra aveva fatto cadere l’Avez del Prinzep”.
L’intensità della tempesta aveva letteralmente spaccato l’albero ad un’altezza di 3-4 metri. Le forti oscillazioni a cui era stato sottoposto avevano fatto cedere il colosso naturale alla base, dove risultava piú debole per via della cavità prodotta da un antico formicaio, facendolo precipitare a terra.
Ad accorgersi che il grande abete aveva ceduto era stato il custode forestale di Lavarone durante una visita di controllo alla zona per una stima dei danni causati dal maltempo.
Infatti ogni volta dopo un temporale o una forte nevicata si premurava di verificare la salute del suo Avez, come fosse una persona, tanto era l’affetto per quest’albero. Quando quel giorno si era recato a Malga Laghetto aveva notato un vuoto nel bosco: mancava la chioma.
Sperò fino all’ultimo fosse solo una preoccupazione vana, ma sapeva cosa lo avrebbe aspettato, infatti percorse la strada che porta al Prinzep con un groppo in gola.
La notizia in televisione riferiva che durante la perturbazione che aveva spazzato il Nord Italia nelle giornate di domenica e lunedí 12-13 novembre 2017 forti raffiche di vento che rasentavano i 100 km orari avevano spezzato l’Avez de Prinzep facendolo cadere quasi per intero contro la pedana costruitagli attorno: alla base rimaneva solo un troncone di 4 metri mentre i restanti 50 metri apparivano schiantati al suolo.
Come una persona, l’abete presentava qualche acciacco; guasto almeno per una decina di metri d’altezza, prima o poi sarebbe caduto. Dato l’enorme volume, la sua caduta ha finito col coinvolgere altre 5 o 6 piante limitrofe.
La natura lo stava consumando dall’interno, minando la sua stabilità; il formicaio che aveva attaccato la parte cariata dell’albero, era stato combattuto per anni. Nonostante ciò, venne stimato, solo un anno fa, sano e forte.
Significativo il fatto che le radici dell’albero non abbiano ceduto alle pericolose oscillazioni, resistendo al forte vento.
Chiunque passasse in quel bosco sentiva di doverlo abbracciare come fosse una sorta di padre.
Leggendo le notizie pubblicate sui quotidiani il giorno dopo, mi accorsi che il sentimento scaturito dalla notizia era quello di un profondo rammarico da parte della popolazione locale senza contare i numerosi messaggi sui social network da parte dei turisti.
L’albero come ben sapevano i nostri nonni e bisnonni è un fedele e puntuale registratore delle vicende storiche che caratterizzano il territorio, una vera e propria scatola nera della natura. Grazie ad esso si possono individuare i tempi delle variazioni climatiche, le catastrofi naturali , le interferenze antropiche. Ma era il valore affettivo che gli abitanti trentini avevano perso.
Quel gigantesco abete era una sorta di confidente per le persone. Chiunque si recasse alla base del tronco si fermava, lo abbracciava per rimanere qualche minuto o più tempo, intento ad affidare a quell’albero ogni intimo pensiero o confidenza.
Immaginavo che la sua spessa corteccia si aprisse, pronta ad accogliere queste confidenze per farle poi arrivare al midollo, la parte più interna dell’abete ed essere lì custodite per sempre.
Alle persone che si confidavano con l’Avez del Prinzep, non servivano risposte, ma semplicemente un albero cui potersi affidare e in cambio avvertire che l’abete avrebbe ascoltato in silenzio i loro pensieri. Questa era la grande ricompensa, una condizione che poneva ogni suo confidente in uno stato di grande sicurezza.
Trovai questo modo di aprirsi completamente fuori dal tempo, in un’epoca in cui ormai i sentimenti più intimi vengono messi allo sbando sui social in attesa di like o immobili faccine col sorriso.
I suoi veri interlocutori traevano beneficio dalla sua maestosità, dalla sua potenza, dall’affidare i propri intimi pensieri ad un elemento naturale che fino all’ultimo aveva combattuto. La dimostrazione più significativa di tanta forza era data dal fatto che le radici erano ancora ben salde, come a voler dimostrare che ogni singolo pensiero non era volato via, ma si trovava ancorato a quelle radici che per nulla al mondo si sarebbero fatte sradicare dalla tempesta. Come se l’albero non dovesse mai abbandonare i suoi confidenti.
Mi trovai in una dimensione che sfuggiva persino a Google Earth.
Nonostante quasi tutto il mondo sia cartografato, scoprii che esistono molti posti dove il motore di ricerca e i satelliti non danno informazioni, proprio per via della coltre di alberi che costituiscono tutt’oggi una sorta di barriera, proteggendo ciò che rimane inesplorato. Ora l’assenza della chioma avrebbe svelato qualche metro quadrato in più al satellite, ma i pensieri dei suoi confidenti sarebbero rimasti ben nascosti nelle sue radici.
C’era un mondo tutto da scoprire tra le rughe dell’Avez, quello delle confidenze e dei sentimenti di migliaia di persone.
L’abete bianco il cui nome scientifico è Aries alba è una specie ombrivaga che appartiene alla famiglia delle Pinacee. Durante la fase giovanile l’abete presenta una chioma piuttosto conica, mentre con l’aumentare dell’età essa assume una forma più appiattita, assomigliante al nido di cicogna.
Gli aghi dell’abete bianco presentano una punta arrotondata che non punge, hanno una forma appiattita con una leggera incisione verso la punta. Il lato superiore degli aghi è lucente di colore verde scuro, mentre quello inferiore è contraddistinto da due linee di colore bianco-azzurro, di consistenza cerosa.
L’abete bianco è così chiaro a causa del colore della corteccia e dei riflessi della chioma. Si tratta di un albero monoico cioè con la presenza di fiori maschili e femminili sulla stessa pianta; rispetto alle altre conifere risulta essere una specie particolarmente prediletta dagli ungulati, i quali ne brucano i giovani germogli. Gli animali preferiscono queste conifere perché presentano germogli senza resina e ricchi di sostanze nutritive. Si dice che il legno dell’abete bianco sia affetto dal fenomeno del “Cuore bagnato”, ossia la parte centrale del tronco presenti un elevato contenuto di umidità con colorazione bruno lilla. Il legno dell´abete bianco si asciuga più lentamente in quanto trattiene l´acqua più a lungo. Le sue punteggiature, le sue dighe interne, si chiudono efficacemente ad evitare ogni forma di prosciugamento. Tutte queste doti conferiscono alla conifera uno dei legni più resistenti. Venezia non a caso é costruita su pali di larice e abete bianco. Il legno presenta anche il difetto della cipollatura ossia il materiale si spacca in corrispondenza di un anello di accrescimento. L´abete bianco é una specie delicata e piuttosto esigente. Non sopporta gli estremi termici, la siccità, la scarsità di nutrienti e l´insolazione eccessiva. Parliamo di un albero dalla vita lunga in grado di raggiungere fino ai 600 anni d´età.
In passato quando l´abete bianco era molto più frequente di oggi, i giovani esemplari venivano spesso utilizzati come alberi di Natale, in quanto gli aghi rimanevano molto più a lungo sui rami rispetto all´abete rosso.
I coni dell´abete bianco dette anche pigne o strobili sono disposti in senso verticale, dunque al contrario rispetto alla posizione pendente dei coni di abete rosso.
A differenza delle altre conifere il legno dell’abete bianco non é resinoso.
Per quanto riguarda le radici, l´apparato radicale dell’abete è inizialmente di tipo fittonante: un ‘unica radice, molto grande, penetra nel terreno anche alla profondità di 1,60 metri, e si ancora saldamente al suolo. In seguito si formano radici laterali. L’abete bianco è, per questo, una pianta ben ancorata al terreno e quindi poco soggetta a sradicamenti. È quindi ottima per prevenire frane, non solo a trattenere le confidenze delle persone.
Chissà quante cose avrebbe da raccontare l’Avez del Prinzep. Ma non era certo questo il suo destino.
“Un albero che tutti noi conoscevamo fin da piccoli. Quassù si facevano le feste degli alberi, per tutti gli abitanti di Lavarone era la “nostra pianta” racconta il sindaco. “Oggi avuta la notizia mi sono recato subito a Malga Laghetto, percorrendo quel sentiero che porta a Lui. E trovarlo abbattuto fa sembrare tutto diverso: entra più luce che illumina e risalta la ferita. La stessa sorgente che lo ha nutrito per anni, gorgoglia ma il rumore è completamente differente, non c’è la stessa pace. Il masso al suo fianco, che lo ha protetto dal freddo, ora sembra più grande e solo. È una situazione triste per tutti noi, l’Avez del Prinzep era una certezza”.
Capii così quanto gli abitanti di Lavarone e tutti coloro che avevano potuto abbracciare l’Avez del Prinzep potessero essere nostalgici per la perdita del loro grande simbolo.
Reduce da un corso di scultura mi venne in mente l’artista François-Auguste-René Rodin (1840, Parig , 1917 Meudon ) e la sua opera più celebre “Il pensatore”, una celebre scultura bronzea che rappresenta un uomo intento a una profonda meditazione. Inizialmente chiamata Il poeta, la statua faceva parte di una porta monumentale in bronzo commissionata a Rodin come porta d’ingresso di un Musée des Arts Décoratifs progettato a Parigi, ma in realtà mai inaugurato.
Nel progetto dell’artista francese c’erano molte figure, ognuna rappresentante uno dei principali personaggi presenti nel poema dantesco: in questo contesto Il Pensatore avrebbe dovuto raffigurare lo stesso Dante Alighieri.
La statua è nuda, poiché Rodin voleva una figura eroica di stampo michelangiolesco, per rappresentare insieme intelletto e poesia.
Posto in cima a una roccia, al centro del timpano, in solitaria meditazione, il Dante di Rodin guarda verso il basso in direzione del mondo dei dannati. Nel giro di pochi anni la figura assume un’immagine e un significato più generico, anzi universale, tanto da entrare nell’immaginario collettivo come una sorta di definizione, di fatto un simbolo e un’icona dell’attività intellettuale.
Nell’osservare col mio maestro di corso quella scultura pensante, trovai un’analogia con l’Aver del Prinzep che di sicuro non condannava i suoi confidenti come faceva Dante, ma esprimeva la stessa sensazione di ascolto e meditazione che probabilmente infondeva calma e sensazioni di pace in qualsiasi persona gli dedicasse del tempo.
Trovai nella filosofia di Rodin un’altra analogia con la vicenda dell’Aver del Prinzep.
Nel suo testamento spirituale scriveva:
“L’Antico è la Vita stessa, scriveva il maestro nel testo che apre la raccolta, pubblicato la prima volta nel 1904 sulla rivista Le Musée . Non v’è nulla di più vivo dell’Antico, e nessuno stile al mondo ha saputo né potuto raffigurare la Vita nello stesso modo. L’Antico ha saputo raffigurare la Vita, perché gli antichi sono stati i più grandi, i più seri, i più mirabili osservatori della Natura che siano mai esistiti”.
“L’Antico è per me la bellezza suprema, è l’iniziazione all’infinito splendore delle cose eterne: è la trasfigurazione del passato in qualcosa di eternamente vivo. I greci ci prendono per mano, ci fanno sentire la bellezza delle forme, l’elemento sacro presente in essa, ci mostrano con il loro esempio che non bisogna esser chiamati vanamente alla festa della Vita. I loro marmi sono i messaggeri divini che ci insegnano il nostro dovere”.
Riflettendo sul messaggio trovai che la parte rimasta dell’abete non fosse un semplice tronco spezzato alla base: quel tronco antico sebbene simile a tanti altri era la testimonianza della resilienza e della forza alla tempesta che aveva abbattuto il resto dell’albero.
Come riportato dalla stampa, con ogni probabilitá la parte sana della conifera sará protetta e una copertura speciale le sarà collocata, quasi a ricordare la base di un tempio sacro.
Mi capitava spesso di camminare nel bosco, da sola o con i miei genitori. Un periodo frequente era ottobre, il mese del consueto appuntamento con l’imbiondimento dei larici.
Nel passeggiare tra gli alberi del bosco ho sempre avvertito una sorta di liberazione come se i pensieri si lasciassero andare. Quest’anno la neve ha preceduto le aspettative, regalando uno spettacolo da anni assente nel Nord Italia. Decisi di recarmi nella foresta dell’Avez del Prinzep dove Lui non c’era più, ma altri maestosi abeti, i giganti del bosco sopravvivevano alle prime nevicate accogliendo il soffice e protettivo manto nevoso.
La forma piramidale delle conifere è un tocco di genio della natura che fa sì che la neve scivoli come da un tetto e non carichi in modo incombente i rami.
Mi fermai nelle vicinanze del tronco spezzato dell’’Avez sotto un altro abete non così grande, ma altrettanto degno di essere abbracciato. Pensai ai caprioli che forse qualche minuto prima si erano strofinati le corna contro il tronco, pensai all’orso bruno che aveva usato la corteccia per grattarsi la schiena, al muschio che con la sua delicatezza tentava di proteggere l´abete come una coperta e al frenetico via vai delle formiche che, superando i ritmi di Amazon, trasportavano le provviste dai rami piú distali al formicaio, in preda ad una frenesia paragonabile a quella dei cittadini che affollano i marciapiedi di New York.
La perdita dell’albero principe aveva suscitato ovunque in Trentino un grande e diffuso dispiacere, come se fosse venuto a mancare un amico di famiglia.
Ma intorno c’erano altri e innumerevoli abeti pronti ad accogliere le confidenze di ognuno di noi.
E nessun albero, nemmeno quello eretto in Galleria Vittorio Emanuele, a Milano, abbellito da oltre 10.000 ornamenti luminosi avrebbe potuto suscitare tanta voglia di abbracciarlo.
E nemmeno i 53 alberi sfoggiati alla Casa Bianca potranno mai incutere la sensazione di accoglienza e protezione che quel semplice abete stava ispirando in me e, ipoteticamente, in tutti coloro che con rispetto e sentimento si avvicinano al complesso e misterioso mondo degli alberi, delle foreste, della natura.
Confidarsi con un abete, significa non essere preda di un algoritmo, come quando al primo clic sui social ci si ritrova inglobati in un mondo virtuale.
Innamorata del legno fin da piccola, pronta ad accendere fuochi ovunque scoprii che abbracciare un tronco vivo potesse darmi lo stesso calore, certo la giacca rimase impregnata dalla resina, ma il profumo del bosco era impagabile.
Per quanto facesse freddo e il mio richiamo fosse rivolto ad una buona tazza di cioccolata calda, la voglia di restare abbracciata a quell´albero sembrava non volermi mai abbandonare.
Ma un leggero fruscio catturò la mia attenzione, un cervo voleva il mio posto per proteggersi dall’imminente nevicata sotto l’abete. Il bosco degli alberi giganti era pronto ad accogliere anche lui.