di Paolo Rumiz
(pubblicato su repubblica.it il 28 aprile 2020)
Con l’età mi commuovo facile. Succede quando un piccolo gesto sembra riassumere il mondo. È accaduto anche ieri, quando nello smartphone ho scoperto un breve filmato spedito da un’amica di Monaco di Baviera. Era Samuel, tredici anni, suo figlio, che da una stoffa a fiori cuciva mascherine sulla vecchia Singer a pedale, che Coronavirus aveva svegliato da un letargo di quindici anni in soffitta. La macchina da cucire della nonna. E lì ho pianto, in modo incontrollato. Non riuscivo a smettere. Da vergognarsi. Non era solo per il simbolo di speranza di resurrezione contenuta in quel gesto, per il suo stupendo messaggio generazionale o per la bontà e dedizione che esso esprimeva, ma soprattutto perché dietro a quel gesto c’era una coscienza civica e un rapporto di fiducia tra cittadino e istituzioni. C’era un popolo, che un governo chiamava a raccolta per vincere una sfida comune.
E lì è arrivata la stilettata, quasi insopportabile, perché è stato fatale pensare che quel rapporto di fiducia nel mio Paese è più debole, in certi casi inesistente. A quel punto il piccolo Samuel ha scatenato in me una tempesta di pensieri, dubbi, sconforti, speranze di resurrezione e risorgimento. In fondo, mai un 25 Aprile si integrava in modo così forte col mistero pasquale appena rivissuto. La pandemia ci diceva che proprio l’immagine terrificante dell’abisso poteva renderci più chiara la visione della luce, e che mai come stavolta sentivo nascere il bisogno di una preghiera laica per rifondare una religione civile. Capivo che gli effetti letali del virus erano dipesi anche dai nostri costumi e malcostumi, e che le nostre diversità civiche coloravano in modo nuovo e spietato la carta d’Europa, costruendo una cesura netta tra i Paesi che per fronteggiare la pandemia si erano affidati all’autodisciplina dei cittadini e quelli che, per sfiducia, avevano preferito inondarli di sanzioni.
Forse non siamo mai stati così al bivio tra crollo e rinascita, perdita della libertà e indipendenza. Tra coraggioso salto evolutivo e involuzione definitiva. Tra lo spettacolo indecente dei personalismi e delle divisioni e il ritrovare unità come nazione, nel nome di un grande obiettivo comune. Perché quelli del Nord, che pure hanno mille difetti, si presentano compatti, e noi in ordine sparso in momenti così estremi? Ma il bivio cui siamo di fronte lo possiamo forse ridurre a due sole, semplici parole: la scelta tra fiducia e paura. Ed è una cosa che parte dai piccoli gesti, come quello di Samuel. Per esempio, noi italiani stiamo disciplinatamente a casa per rispetto dell’altro o per paura dell’altro? È una domanda cui nessun sondaggio sembra rispondere. Ma è la chiave del problema, perché se prevale la paura, il dopo-pandemia potrebbe diventare una guerra di tutti contro tutti. Una gigantesca banlieue di furore. I Francesi lo sanno. La resa finale di una società impoverita e disintegrata, segnata da diseguaglianze ancora più indecenti e da una sfiducia totale nei confronti dello Stato.
Se invece prevarrà il rispetto, potremo dire che questo disastro avrà gettato le fondamenta di un Paese nuovo, a partire dall’integrazione delle centinaia di migliaia di illegali stranieri che garantiscono il nostro Pil agroalimentare ma che preferiamo non vedere, confinandoli in ghetti. Un’emarginazione che non dipende solo dal pensiero populista ma anche dal fatto che l’Italia urbanizzata ha perso l’uso delle mani e il contatto con la terra. Mio fratello è veterinario in una grande stalla, ma quando cerca dei mungitori non c’è un italiano che si presenti. Come uscirne? Anche qui – mi duole dirlo – impariamo dalla Germania. Charlotte, la sorella maggiore di Samuel, ha dovuto fare per programma scolastico un servizio civile (Landwirtschaftspraktikum) in una stalla vicino a Kassel, alzandosi ogni giorno alle cinque e crollando ogni sera alla nove. Ha allattato vitelli neonati mentre la mucca si mangiava la placenta. E al ritorno ha detto al padre: non è possibile che il latte costi così poco, con la fatica che si fa a produrlo.
Il fatto è che non sappiamo ancora che umanità troveremo alla fine dell’emergenza. Con un Paese recluso, come capire se il disastro ci ha modificati in peggio o in meglio? I segnali sono contrastanti: le cronache mostrano esempi mirabili di solidarietà e comprensione e contemporaneamente scene indecenti di insofferenza e aggressività. Ma allora, mi chiedo, perché aspettare la fine dell’emergenza? Perché non usare queste irripetibili settimane di riflessione e clausura per imparare un po’ di educazione civica? Perché la Presidenza della Repubblica, in questo strano 25 aprile senza cori partigiani e senza superstiti con fazzoletto rosso al collo, non approfitta del fatto che mai come ora gli Italiani sono incollati al computer, per organizzare una campagna a reti unificate sulla Costituzione e il destino di questo Paese?
Uomini capaci di farlo ne conosco. L’Italia è piena di profeti inascoltati che il pensiero medio bolla come “originali” se non addirittura “matti”. Uomini in trincea per l’ambiente, la cultura, il paesaggio, l’istruzione. Ci sono dei momenti in cui penso che gran parte del buono di questo Paese dipende dalla silenziosa Resistenza di alcuni contro la burocrazia, il conformismo, le invidie, la paura. Antonio Calò, per esempio, professore di lettere in un liceo di Treviso, nel cuore dell’Italia leghista. Da quando c’è la peste, tiene serrati corsi online di educazione civica. Ascoltarlo è come trovarsi in un fiume in piena. Bisogna allacciarsi le cinture. L’oggetto delle lezioni può essere riassunto da una sola parola: fiducia. Una cosa che nasce dal rapporto con l’insegnante e si costruisce a partire dai temi in classe. “Io non sono il vostro gendarme, non sto lì a controllarvi se copiate, non posso presupporre che volete farmi fesso. Voi dovete rispondere, prima che a me, alla vostra coscienza. Ma sappiate che, se oggi copiate, domani sarete evasori e pessimi cittadini. La comunità andrà a quel paese, e con essa la Costituzione”.
Dobbiamo liberarci da…
(preghiera laica)
di Paolo Rumiz
Dobbiamo liberarci
dalla corsa folle che ci ha intrappolati e dal credere che il tempo sia solamente denaro;
dalla bramosia del superfluo;
dalla tirannia delle cose, che ci allontana dall’Uomo;
dall’illusione che il possesso sia sufficiente a renderci felici dall’indifferenza verso l’albero, il fiore e la lucertola;
dall’idea che la terra madre sia una vacca da mungere fino allo sfinimento;
dalla manipolazione della natura e dall’illusione che il genio, una volta disturbato, possa restare nella lampada dall’inflazione indecente dell’Io, dal dimenticare che esiste anche il Noi, e che senza comunità non c’è società né nazione;
dalla tentazione di svendere la nostra libertà pur di avere un’illusione di sicurezza; dall’istinto bestiale di fare giustizia da sé dalla tentazione di essere sudditi e piegare la schiena;
dalla rassegnazione che impedisce la lotta;
dalla paura di una nuova immaginazione del possibile; dal concepire la fine del mondo piuttosto che la fine dell’economia del consumo e del saccheggio dalla Bestia che ci spinge contro il diverso;
dalla paura di rispondere ai violenti con parole dure;
dal gridare “assassini” ai medici per poi esaltarli come eroi;
dall’abuso della parola “guerra” che ci fa credere che il male sia cosa che riguarda solo gli altri dalla tentazione di credere che da soli è meglio e che l’Europa
sia un peso, non uno scudo benedetto;
dal disamore per la nostra patria e dalla fuga in paradisi artificiali;
dallo scaricare il nostro disastro di nuovo sulle spalle delle donne;
dalla bestemmia di scomodare Iddio per assolvere e santificare ruberie;
dalla tentazione di usare la Croce contro i poveri cristi;
dal credere di non essere tutti sulla stessa barca e dalla presunzione di non poter mai diventare poveri e migranti;
dal tacere la morte, vissuta come indecenza;
dallo spregio per le mani ruvide e il sudore della fronte;
dallo snobbare chi in silenzio garantisce il nostro nutrimento;
dalla mancanza di rispetto verso il pubblico ufficiale, dal maestro allo spazzino;
dalla sottomissione al virtuale che occulta la vita e ruba la gioia del ritrovarsi;
dall’impazienza, nemica dell’ascolto e della tolleranza;
dal frastuono che stordisce gli uomini e uccide il silenzio, che è il padre dell’armonia e della Creazione;
dalla rinuncia a dedicare tempo ai nostri figli e a crescerli con l’esempio, le regole di vita e la buona narrazione;
dall’emarginazione dei vecchi, portatori di memoria;
dallo scandaloso sfruttamento dei giovani e dal disprezzo per chi li educa;
dal rifiuto della nostra fragilità e dei nostri limiti, la cui accettazione è invece saggezza;
dal sottovalutare i piccoli gesti, che fanno la differenza;
dal credere che la felicità sia solo un diritto, quando il sorriso è un nostro dovere verso il mondo.