di Flavio Paoletti
“Mia moglie ha avuto una crisi di panico perché le ho detto che uscivo con le pelli, ho dovuto rinunciare, a momenti la strozzo”, questo è il messaggio mattutino di un mio amico, ex atleta, montanaro, ciclista, viaggiatore, un mio simile.
Dal suo messaggio parte la riflessione. Vado in montagna da quando avevo 13/14 anni, ora ne ho 46, ho iniziato con mio padre, con le escursioni del CAI di Carsoli (AQ), a piedi, sui sentieri boscosi dei Simbruini, poi il Velino, il Gran Sasso e via dicendo. La prima volta al Gran Sasso fu una notturna, la notte di San Lorenzo: luna piena e stelle cadenti a non finire, le frontali appena acquistate non servirono, una notte indimenticabile. Roba che ai giorni d’oggi, sui social, scriverebbero un poema, e parlerebbero a sproposito di EROI.
Le prime escursioni allegre e spensierate. A fine giornata, o già sulla via del ritorno, i vecchi intonavano canti che ancora ricordo, complici i bicchieri, che all’epoca erano d’alluminio, a volte penzolavano dallo zaino già dalla mattina. Guardavo quegli uomini con la pelle cotta dal sole e immaginavo chissà quali vette impervie avessero scalato, le mie domande erano sempre le stesse: “quanto manca?”… la risposta era quasi sempre “se ti piace la montagna non pensarci”. Io rispondevo “sì, mi piace”, ma era una risposta dettata più dal timore dell’eventuale risposta rude e dalla voglia di non mollare che dalla sincerità. Ancora non sapevo se la montagna mi piacesse o no, ma andavo.
Da quei primi sentieri con quegli uomini dal passo lento e silenzioso ho imparato l’Amore per la montagna. Negli anni, per me, quell’Amore è diventato semplicemente sacro, intoccabile, da difendere.
Pian piano progredii tecnicamente e nel giugno 1994, a 20 anni, acquistai al Passo dello Stelvio la prima attrezzatura completa da scialpinismo: i TLT 3 (quelli grigi) ancora li conservo, così come conservo gelosamente un pezzo di quelle prime pelli di foca, azzurrine.
Ora non so se la moglie del mio amico è influenzata da questo chiacchiericcio che si crea ultimamente ad ogni incidente, lieve o grave che sia. Gli incidenti in montagna ci sono sempre stati, SEMPRE. Gravi o meno. Ora ne parlano tutti, troppi, soprattutto quelli che hanno iniziato a frequentarla l’altro ieri, magari partendo direttamente da una gara di scialpinismo senza saper camminare su un sentiero, che non è esattamente come camminare sull’asfalto. Ripeto, non so se la moglie del mio amico è influenzata da questo fastidioso, invadente, inopportuno chiacchiericcio di “eroi” da fotografare, di tragedie che “si potevano evitare”, di “irresponsabili che hanno scelto di andare incontro alla morte”, o sta semplicemente attraversando un periodo della sua vita in cui la paura di rimanere sola è aumentata rispetto a qualche anno fa; di sicuro, a mio parere, se ne parla troppo, forse anche per colpa nostra, di questo nostro mondo di selfies, di autoreferenzialità e bisogno famelico di appartenere a qualcosa, a qualche associazione dal nome assurdo che in qualche modo ti fornisca una merda di patacca da appiccicarti sul petto e ti dia la possibilità di dire, prima di tutto a te stesso “io sono”.
Qualcuno diceva “ i monti fanno maestri muti e discepoli silenziosi”.
Mi verrebbe da firmare: “un appassionato anonimo e incazzato”.