(continua da https://www.sherpa-gate.com/grandi-storie/cordillera-blanca-1/)
Ferragosto in Cordillera
(l’avventura dei lombardi in Perù)
di Stefano Ardito
Ande del Perù, giugno 1961. Due grandi nomi dell’alpinismo lombardo affrontano le pareti del Rondoy, una delle montagne più pericolose e difficili della Cordillera di Huayhuash. Cordata di punta di una piccola spedizione monzese, Walter Bonatti e Andrea Oggioni hanno già salito il Cerro Paria Nord 5172 m insieme a Giancarlo Frigieri. Sul Nevado Ninashanca, una cima nevosa che raggiunge i 5637 metri, hanno condotto anche Bruno Ferrario, il pellicciaio di Monza che ha finanziato l’impresa. Ora, però, i due Pell e Oss affrontano un osso più duro. Il Rondoy è «il più difficile di tutta la Cordigliera», «una massa di ghiaccio che sarebbe stata il nostro tormento», annota Bonatti dopo aver osservato la montagna dal campo base. Sono parole profetiche. La notte tra il 4 e il 5 giugno, i due alpinisti affrontano un pendio «straordinariamente ripido, che spingeva nel vuoto». Ore di acrobazie su insidiose canne d’organo portano Andrea e Walter sulla cresta sommitale a duecento metri dalla vetta. Le cornici e i funghi di neve che li separano dalla cima trasformano quella breve distanza in una barriera insuperabile.
La notte successiva i due attaccano più a destra, salgono un altro ripidissimo pendio sotto a una fitta nevicata, poi si fermano per attendere che il tempo migliori. Ripartono all’alba, con qualche sprazzo di sole, addentrandosi tra stalattiti «che parevano fauci di pescecane». Per raggiungere la cima devono entrare in una grotta, scavare un cunicolo fino al versante opposto, poi affrontare un muro verticale di neve alto un’ottantina di metri. Dopo aver raggiunto la vetta fuggono schivando le valanghe «che col primo caldo cominciavano a precipitare rombando sul ghiacciaio». Un mese più tardi, per entrambi, arriverà il tragico appuntamento con il Pilone Centrale. Difficile e drammatica, raccontata al grande pubblico da uno dei primi reportage di Walter Bonatti su Epoca, la vittoria sul Rondoy merita un posto importante nella storia dell’alpinismo extraeuropeo italiano. Vista da Como, da Bergamo o da Lecco, invece, è solo una delle tante pagine di una lunga storia d’amore. Quella che ha per protagonisti gli alpinisti lombardi e le grandi vette ghiacciate del Perù.
Signore montagne
A vederle dalla pianura o da vicino, anche quando l’inverno le ricopre di neve e ghiaccio, la Presolana e le Grigne hanno poco a che vedere con l’Alpamayo o il Huascarán. Anche se più imponenti, nemmeno il Disgrazia, il Gran Zebrù o il Bernina, le grandi montagne a portata di mano dei lumbàrd, possono reggere il confronto con i giganti delle cordigliere peruviane.
Pure, dagli anni Cinquanta, un filo tenace lega gli alpinisti lombardi alla Cordillera Blanca, alla Cordillera di Huayhuash, alle catene meno conosciute del paese e ai grandi vulcani di Arequipa. Anche le montagne della Bolivia sono mete apprezzate a Lecco, Bergamo e nelle decine di centri minori che fanno della fascia pedemontana lombarda uno dei più formidabili vivai alpinistici d’Europa. E anche i rifugi e le scuole della Operazione Mato Grosso sono frutto del legame della Lombardia con il Perù.
A capire questa storia ci aiuta un fortissimo e poco noto esponente di questo alpinismo così tipicamente lombardo, fatto di poche parole e di molte (e spesso eccezionali) salite. Nato a Merate nel 1930 («una classe di ferro, la stessa di Bonatti, di Carlo Mauri, di Oggioni»), Tino Albani ha salito negli anni Cinquanta e Sessanta molte grandi pareti delle Alpi, è diventato istruttore nazionale nel 1956 e accademico nel 1968, è stato il primo a ripetere tra il 1959 e il 1964 i tre capolavori di Riccardo Cassin sulle Nord della Walker, della Cima Ovest e del Badile.
Oggi, se ne hanno voglia, gli alpinisti di punta riescono a partire in spedizione a vent’anni. Tino ha lasciato l’Europa per la prima volta nel 1965 con una spedizione del CAI Milano in Groenlandia. Ha scoperto la Cordillera Blanca nel 1973. Poi è tornato cinque volte sulle montagne del Perù e della Bolivia. Ha percorso da solo la via dei Ragni sull’Alpamayo, ha salito più volte Illimani, il Pisco, l’Ishinca. Nelle ultime estati, a settant’anni suonati, si è caricato sulle spalle mattoni e cemento per aiutare i cantieri dell’Operazione Mato Grosso.
«Quando ho iniziato ad arrampicare, subito dopo la guerra, anche arrivare in Dolomiti era un’impresa», racconta con un sorriso. «Negli anni Cinquanta si stava un po’ meglio ma ci si muoveva ancora poco. Per andare in Bregaglia si prendeva il treno fino a Chiavenna e si continuava con il “postale” svizzero, ai Resinelli si saliva in corriera da Lecco. Poi qualcuno è andato in Perù, ha fatto delle salite, è tornato. Noi ci conoscevamo tutti, c’incontravamo in Grignetta e in Badile, quei racconti sono diventati famosi. Sono bastati pochi anni, poi il “Ferragosto in Cordillera” è diventato un’abitudine». La scelta della meta è stata quasi obbligata. «In Patagonia si deve andare d’inverno, ma le nostre ferie arrivavano in estate. Ad alpinisti giovani e forti come noi l’idea di pestar neve sui vulcani della Bolivia e del Cile non interessava. L’Himalaya era caro, complicato per via dei permessi, bisognava sapere l’inglese. In Perù c’erano delle signore montagne, non c’era burocrazia, e con lo spagnolo ce la potevamo cavare. Poi c’erano i missionari e gli emigrati, e lì ci davano una mano loro». «Un personaggio fondamentale è stato Celso Salvetti, un friulano di Palmanova che aveva aperto a Lima una fabbrica di chiodi. Fino agli anni Ottanta, quasi tutte le spedizioni italiane si sono appoggiate a lui. Si andava a dormire al Circolo degli Alpini della capitale, Salvetti organizzava il trasferimento a Huaràz, ci trovava i muli e i portatori. A un certo punto ha iniziato a farlo per lavoro: la sua agenzia, la Julia Tours, esiste ancora».
Arma segreta
Il primo italiano a percorrere le montagne del Perù è stato Piero Ghiglione, con cinque spedizioni tra il 1950 e il 1960. «È vero, ma faceva delle salite esplorative, non del grande alpinismo», commenta Tino Albani. «Le prime spedizioni serie sono arrivate nel 1958, quando un gruppo di Como (Luigi Binaghi, Vittorio Meroni, Pier Luigi Bernasconi e Mario Bignami accompagnati da Mario Fantin) ha salito undici vette della Cordillera de Urubamba, e una spedizione del CAI di Milano (con Romano Merendi e Andrea Oggioni) ha raggiunto diciannove cime della Cordillera de Apolobamba».
Nel 1960 i lumbàrd sbarcano sulla Cordillera Blanca con una spedizione di Bergamo (Bruno Berlendis, Santino Calegari e altri) che compie le prime ascensioni del Nevado Bergamo e del Nevado Giovanni XXIII, due nomi che lasciano pochi dubbi, e sfiora la cima del Pucajirca Central. Il primo italiano a scoprire le montagne affacciate su Huaràz è stato però, due anni prima, il torinese Giuseppe Dionisi. È stato lui, nel 1958, a compiere con Giuseppe Marchesi, Piero Fornelli e Luciano Ghigo le prime ascensioni di alcune vette minori e del magnifico Ranrapalca, che raggiunge i 6162 metri. Dionisi e compagni tornano nel 1961 completando l’ascensione al Pucajirca Central (vedi articolo in seguito). Sull’ultimo muro di ghiaccio spugnoso e instabile i torinesi usano una “arma segreta” che sa di primordi dell’alpinismo. Sono dei lunghi picchetti di legno, con la punta metallica, a permettere di salire in relativa sicurezza su un terreno altrimenti da kamikaze. Qualche anno più tardi, nelle officine di Lecco, quest’arma verrà perfezionata. «Sono stati i nuovi picchetti di metallo a consentire delle grandi ascensioni su ghiaccio come la prima dell’Aguja Nevada vinta nel 1965 da un team di Monza, la prima dello Huantsán Ovest compiuta nel 1973 da una spedizione di Gallarate, la conquista della parete sud-ovest dell’Alpamayo, percorsa nel 1975 da sei Ragni di Lecco diretti da Casimiro Ferrari», spiega Tino Albani.
Non solo climber
Ma la grande stagione dei lombardi in Perù sta volgendo al termine. Mentre i Ragni sono impegnati sull’Alpamayo, si affaccia sulla Cordillera una spedizione diretta dal vicentino Renato Casarotto, e della quale fa parte anche Sergio Martini di Rovereto, futuro collezionista di Ottomila. Un anno dopo Casarotto raggiunge la vetta del Huandoy Sud insieme a un altro bergamasco di belle speranze come Agostino da Polenza. Nel 1977 Casarotto lascia il segno, tracciando in solitaria sul Huascarán Nord una delle vie più difficili delle Ande. Tre anni dopo il genovese Gianni Calcagno organizza una spedizione alla quale partecipano Stefano De Benedetti, il viareggino trapiantato a Courmayeur Cosimo Zappelli e il lombardissimo Giuseppe Lafranconi. L’epopea degli alpinisti lombardi si conclude tragicamente nel 1981, quando una valanga uccide tre componenti di una spedizione di Bergamo al Pucajirca Central (Livio Piantoni, di 29 anni, guida alpina, di Colere; Nani Tagliaferri, di 41 anni, guida alpina, di Vilminore; Italo Mai, di 30 anni, di Schilpario, NdR). Nel 1993 un altro lutto, la scomparsa di Battistino Bonali e Giandomenico Ducoli, precede l’avventura dei rifugi dell’Operazione Mato Grosso.
Tornando alla storia, però, c’è un dubbio che vale la pena chiarire. Gli alpinisti lombardi degli anni Cinquanta e Sessanta erano fortissimi su roccia. Come se la cavavano sul ghiaccio? «Non eravamo solo dei climber» sorride Tino Albani. «Io ho salito la Nord del Roseg, la Major al Bianco, la Nord del Disgrazia. Tutte salite sui 55°-60°, che oggi si fanno in piolet-traction, e che noi salivamo con un’unica piccozza a becca dritta. Molti altri hanno ripetuto le stesse vie. E poi, dai, se sai arrampicare su roccia sai andare anche su ghiaccio». La prima volta di Tino sulla Cordillera Blanca è arrivata nel 1973, con la spedizione che celebrava i cent’anni della sezione di Milano del CAI. Insieme a Salvetti, si occupava dell’organizzazione Beppe Tenti, che aveva appena fondato la prima agenzia di trekking italiana. «La meta era il Huascarán, che di solito è facile. La montagna, però, era ancora sconvolta dal terremoto del 1970 che aveva sepolto con una valanga Yungay. In basso, al posto dei prati, c’erano solo pietraie. In alto c’erano dei crepacci giganteschi». Più delle difficoltà della montagna, però, ha pesato l’inesperienza ad alta quota. «È vero» sorride ancora Tino Albani. «Il primo errore è stato nell’acclimatazione. Ero allenatissimo, in due ore sono arrivato al primo campo e ho continuato salendo in giornata da 4200 a 6000 metri. Due giorni dopo sono stato malissimo». «Il secondo errore è stata la mancanza di informazioni. Sono partito per la cima con Giuseppina Locana, ma non conoscevo la via. Emilio e Macario Angeles, i portatori, mi hanno detto di salire direttamente. Invece bisognava arrivare alla Garganta, il colle tra le due cime, e passare da dietro. Siamo finiti tra enormi crepacci, e a 6400 metri abbiamo dovuto rinunciare. Quando gli altri sono partiti per la Cima Nord, la più bassa delle due, io ho detto che “quella roba lì” non mi interessava, e sono rimasto in tenda a dormire. Ero giovane, e allora ragionavo così».
Alpamayo, consigli per l’uso
di Marcello Cominetti
(come abbordare la più classica meta andina)
Definita la “più bella montagna del mondo” l’Alpamayo bella lo è per davvero, ma non esageriamo. Per me la più bella montagna del mondo è il Civetta forse perché lo vedo dalla finestra di casa… e non oso pensare a colui che definì così l’Alpamayo, al suo stato emozionale del momento, a quante montagne aveva visto prima, ecc. Anzi, se ci ripenso, per me la montagna più bella del mondo è il Cerro Torre, ma potrei cambiare ancora idea, lasciamo perdere. L’intera Cordillera Blanca lo ha eletto a suo simbolo pur esistendo cime nello stesso gruppo dall’estetica straordinaria (che dire del Pico Este de Huaripampa?), ma io credo che la facilità d’accesso che presenta questa onesta cima peruviana stia alla base del suo esito estetico ed alpinistico. È sempre così: le cime più rinomate sono anche quelle più facilmente osservabili, fotografabili e discusse. In verità il suo versante sud-ovest, il più noto e fotografato, lo si vede solo una volta che si è guadagnato, e neppure tanto facilmente, il colle che divide l’Alpamayo dal vicino Quitaraju, quest’ultima una cima ambigua, facile tecnicamente ma chiaramente fabbricatrice di valanghe e pericoli visibili anche all’occhio più inesperto.
I Ragni di Lecco capitanati da Casimiro Ferrari vi tracciarono quella che oggi è considerata come l’obiettivo più ambito dell’intera Cordillera ma, vista la levatura dei primi salitori è facile che quella volta si siano un po’ annoiati. L’Alpamayo è alto “solo” 5900 metri e si fa presto a salire i circa 350 metri della via Ferrari (o dei Ragni): è come fare la Nord della Tour Ronde con qualche enorme cornice sulla testa, che sulla classica del Bianco per fortuna non ci sono. Mi ha sempre meravigliato che non sia mai stata discesa in sci… non fossi padre di due figli ci proverei anch’io! Si può considerare questa via come la “normale” all’Alpamayo in virtù della sua relativa sicurezza e logicità di accesso. Intendiamoci, per guadagnare la base della parete non ci sono funivie o altre facilitazioni di tipo alpino ma due giorni “effettivi” di cammino dall’abitato di Cashapampa, dove si arriva in auto in due ore da Huaraz.
Questo non significa che in una settimana andata e ritorno dall’Italia ci possiamo mettere in saccoccia la montagna più bella del mondo, infatti il mio consiglio è di prevedere almeno 16 giorni. Ci si deve acclimatare a dovere per godersi una salita di grande soddisfazione come questa! È sempre la stessa solfa: l’alta quota non è fatta per chi ha fretta, eppoi se ci scappa qualche visita culturale e un paio di giorni di ozio ai campi base mica vi farà schifo, no?
Trascorrete almeno due notti a Huaraz, non perché sia un bel posto ma vi ristabilirete da un inevitabile, anche se piccolo jet lag dopo il viaggio da casa e il vostro organismo inizierà a produrre globuli rossi a manetta per far funzionare tutto anche dopo. Non imbarcatevi subito in noiose gite nei dintorni (che semmai potrete fare al ritorno) e pensate semmai a controllare l’attrezzatura e bevetevi una birra al “Vagamundo”, un baretto veramente speciale e ben frequentato. Salite a Llamacorral e dormiteci. Siete a 3700 m. Raggiungete Taullipampa a 4200 m, che tra l’altro è un bel posto, e trascorretevi almeno 3 notti. Potrete salire fino al Passo Punta Union 4750 m per vedere da vicino lo splendido Taulliraju e salire il Millisraju di 5400 metri, che è facile e bellissimo. Fare le cose per gradi è sempre meglio, e scusate se dico banalità!
Il campo base dell’Alpamayo è a meno di due ore da qui e quel giorno non fate altro… vi siete portati un buon libro? buona musica nel walkman?
Qui c’è una specie di rifugio gestito da due ceffi poco raccomandabili dove acquistare qualche birretta e poco più; ma ancor più loschi sono quelli che vogliono costruircene uno nuovo… 700 metri più su c’è uno scomodo campo su massi granitici, utilizzatelo solo se non vi sentite bene perché se invece state bene vi conviene portarvi solo il grosso dell’attrezzatura per ridiscendere ancora al base. Il giorno dopo arrivate al Colle a 5500 m, salite piano, avete tutto il giorno. È la tappa più faticosa perché gli zaini sono pesanti. L’Alpamayo è lì davanti e dopo la faticata per arrivare al Colle vi sembrerà la montagna più bella del mondo…
La via Ferrari percorre la rigola centrale della parete iniziando dove la terminale è a quota più alta. Fate attenzione se ha nevicato da poco e non c’è nessuna guida locale che fa la traccia a non salire direttamente verso l’attacco. Se guardate bene le pendenze si rivelano ai vostri occhi più sicure (se ci capite un po’ di valanghe) facendo un ampio giro sulla sinistra. La via inizia ripida (80°) perché bisogna superare la crepaccia terminale, ma subito dopo la pendenza si fa costante intorno ai 50° fino alla cresta di vetta. Ogni 60 metri circa si trovano ancoraggi fissi, ma un paio di estacas è meglio averle con sé. Lassù c’è posto per una sola persona e la cresta è piuttosto aerea e inconsistente anche perché se è una bella giornata e siete partiti molto presto nella notte, il sole sta già scaldando il versante opposto al vostro rivelandovi di essere su un fungo di neve marcia dalla dubbia solidità.
La cima vera e propria è lì a pochi metri ma solo un pazzo proverebbe a raggiungerla: andateci e capirete perché! Si scende comodamente in doppia, le calate sono 6, e auguratevi di non incontrare altre cordate perché sarebbe una guerra a colpi di grovigli di corde e pezzi di ghiaccio in faccia per nulla piacevole. Giunti al Colle c’è tempo per un po’ di relax, per smontare il campo e guadagnare il campo base prima che faccia notte. Se non avete fretta… fermatevi qui una notte in più, è un posticino niente male!
Pucajirca ’61
(raccontare con la fotografia)
Testo e foto di Giuseppe Garimoldi
In alpinismo il racconto per immagini non è una novità, nel 1932 Alpinisme, la prestigiosa rivista del GHM, diede vita a una rubrica significativamente intitolata, “Course en images” in cui, attraverso una sequenza fotografica si raccontava un’ascensione classica. Tuttavia, malgrado casi illustri, l’uso più frequente della fotografia è quello illustrativo, con una netta preferenza per le immagini stupefacenti o estetizzanti, mentre rimane più raro l’impiego della sequenza significativa, con fotografie che collegate fra di loro dipanano un racconto. Di qui, in omaggio alla Cordillera Blanca, la proposta di ritornare alle immagini di una spedizione vecchia di oltre quarant’anni, quando l’entusiasmo per l’ascensione era coniugato alla sofferenza, in un corto circuito vagamente penitenziale. Anche il mito e l’esotismo del Perù concorrevano a farne una meta da sogno a occhi aperti e può essere interessante misurare, attraverso la testimonianza fotografica, la distanza da questa stagione nemmeno troppo remota negli anni, ma lontana nel rituale preparatorio e dominata da spazi psicologici, tempi d’attuazione, tecniche e costi, oggi fuori misura.
Nei decenni Cinquanta e Sessanta la Cordillera Blanca, con i suoi centoquaranta chilometri di lunghezza e decine di cime al di sopra dei 6000 metri, godette di un eccezionale prestigio alpinistico. È una considerazione che troviamo nelle parole di Lionel Terray, in quelle di Raymond Lambert e, ancora negli anni Settanta, confermata da alpinisti come Nicolas Jaeger e René Desmaison. Quest’ultimo, autore nella Cordillera Blanca di imprese d’eccezione, la definì «les plus beau massif tropical du monde». Nel 1961, ai tempi della nostra spedizione, le cime maggiori erano state in gran parte raggiunte, resisteva il Pucajirca Central, che aveva sino a quel momento evitato la visita degli uomini, grazie allo stratagemma strategico dell’ultima ridotta: un muro eretto a sbarramento della cresta, a poca distanza dalla cima, ma reso serio e insidioso dalla particolare qualità del ghiaccio tropicale, lavorato dalle fortissime escursioni termiche. Per questa estrema resistenza il Pucajirca era cresciuto in popolarità e il suo nome aveva fatto il giro del mondo, richiamando pretendenti dai quattro angoli delle Terra. Arrivammo in vista del suo candido profilo nella seconda metà di maggio.
I numeri del Pucajirca
Nevados Pucajirca, gruppo di più cime nel settore nord della Cordillera Blanca. Le tre cime principali sono indicate come: Sud, Centrale e Nord.
Quest’ultima si compone di due vette distinte, indicate come Pucajirca Nord I e Pucajirca Nord II, poste agli estremi di una lunga cresta senza apprezzabili flessioni intermedie.
1936
Ascensione del Pucajirca Sud da parte di Erwin Schneider della spedizione geografico-alpinistica austrotedesca.
1955
La spedizione statunitense della Colorado University, diretta da Nick Clink, sale il Pucajirca Nord II.
1957
Claude Kogan e Raymond Lambert scalano il versante sud-est del Pucajirca Centrale lungo un poco pronunciato sperone che prende il nome di sperone Lambert. Non riescono tuttavia a raggiungere la cima a causa di un muro di ghiaccio che sbarra la cresta terminale.
1960
Una agguerrita spedizione del CAI di Bergamo, diretta da Bruno Berlendis, sale lo sperone Lambert, ma è a sua volta arrestata dal muro di ghiaccio. I bergamaschi ottengono un significativo successo con l’ascensione di una cima di 5800 metri che battezzano Nevado Giovanni XXIII.
1961
Centenario dell’unità d’Italia. A Torino sono previste importanti manifestazioni per la ricorrenza risorgimentale. Il CAI di Torino e la Scuola di alpinismo Giusto Gervasutti si inseriscono nei programmi celebrativi e con l’appoggio della Città, del Comitato Italia ‘61 e di altri importanti enti, preparano una spedizione al conteso Pucajirca Centrale.
Il 7 maggio i dieci componenti la spedizione, otto alpinisti scelti fra gli istruttori della Scuola di alpinismo, più due membri della parte scientifica, si riuniscono a Lima. Grazie anche alle informazioni degli amici bergamaschi, il muro di ghiaccio viene superato e la vetta raggiunta il 13 giugno. Nello stesso giorno i giapponesi della spedizione diretta da Yoshizawa, raggiungono la vetta del Pucajirca Nord I.
Parte scientifica
La spedizione prende il nome di “Italia 61” e ottiene l’appoggio e il finanziamento del CNR per un programma scientifico parallelo a quello alpinistico (geologia e fisiologia di alta quota, anche sulla popolazione stanziale).
Organizzazione e costi
Le tre tonnellate di materiale, diviso in colli registrati, viene spedito via mare. Il volo da Milano a Rio de Janeiro dei componenti la spedizione avviene su aerei a elica DC6, ha una durata di trenta ore a cui si aggiunge la tratta successiva per Lima, via San Paolo. Volare è ancora un lusso, il costo pro capite della sola andata è di 593.300 lire (pari, secondo l’aggiornamento Istat, a 11.370.700 lire dell’anno 2000).
Su quella parete proprio no!
(la dura solitaria di Casarotto sulla Nord dell’Huascarán)
di Goretta Traverso
Tutto era cominciato l’anno prima. Era il giugno 1976, quando con Renato avevo partecipato alla spedizione del CAI di Val Gandino (Bergamo), nella quale il gruppo alpinistico era riuscito ad aprire una nuova via lungo la parete sud del Nevado Huandoy. Nei giorni in cui Renato era al campo base, andavamo spesso a camminare lungo le rive della laguna di Llanganuco; e ogni volta, immancabilmente, finivamo sotto la parete del Huascarán Nord. «Gori, guarda che montagna straordinaria! Sai, lassù, proprio al centro della parete, si potrebbe aprire una bella via. Pensa che bello!». Renato era entusiasta dell’idea, e mi spiegava come sarebbe stato possibile salire lungo quella muraglia concava senza finire sotto le scariche di sassi e ghiaccio che la bersagliavano di continuo.
Non avevo bisogno di altre parole per capire, e subito ebbi un moto di rifiuto. «Su quella parete proprio no! Non pensarci neppure», risposi drastica. Solo pochi giorni prima erano arrivati al nostro campo base due Scoiattoli di Cortina che, con due compagni, avevano tentato il pilastro est del Huascarán. Erano sfuggiti a una valanga enorme, venuta giù dalla cresta. Erano salvi per puro miracolo, ma per Raniero Sfero Valleferro e Carlo Caisar Demenego non c’era stato scampo. Che Renato volesse scalare proprio quella montagna, e per di più da solo, proprio non mi andava giù. Ne rifiutavo persine il pensiero. Poi, nei mesi che seguirono il nostro rientro a casa, mi resi conto che la mia adesione al progetto per lui era importante. Così, alla fine, accettai di condividere l’esperienza del Huascarán.
Arrivammo ai 3800 metri di Llanganuco il 23 maggio del 1977, e montammo il campo base tra le due lagune, nello stesso luogo dell’anno precedente.
Il 6 giugno, trasportato quanto serviva per la scalata sotto lo sperone centrale del Huascarán, Renato riaccompagnò i portatori per un tratto, lungo il tragitto del ritorno, e poi risalì verso l’attacco della via. L’indomani sarebbe iniziata l’avventura. Scriveva Renato nel diario di quei giorni lontani: «L’itinerario di salita l’ho individuato durante la scalata al Huandoy Sud. La gigantesca parete nord del Huascarán era sempre di fronte a me, e mi veniva spontaneo cercare una via che solcasse la muraglia rocciosa proprio al centro: logica dal punto di vista alpinistico, ma anche sicura dalle scariche di sassi e di ghiaccio. Già nel corso delle mie precedenti esperienze solitarie invernali sul Pelmo e sul Civetta i motivi che mi avevano spinto erano stati il desiderio di misurarmi con la montagna in maniera leale, usando materiali del tutto normali, e la ricerca del limite delle mie capacità, come uomo e come alpinista ben preparato e allenato. Ed era nata in me la certezza che i limiti esistono solo perché li poniamo in noi stessi». Renato partì con uno zaino enorme, circa 50 chili. Aveva preventivato 10-12 giorni di scalata; invece, per superare i 1600 metri delle parete, ne impiegò 17: le difficoltà tecniche della via erano molto forti e continue, anche perché era obbligato a seguire il percorso più difficile e strapiombante per ripararsi dalle scariche di pietre e di ghiaccio.
Rileggo il suo diario: «Ho con me alcune corde da 50 metri del diametro di 9 millimetri, 40 chiodi da roccia di tipo diverso, 8 da ghiaccio, 2 martelli, una piccozza, un paio di ramponi. La rimanenza del peso è costituita dai viveri».
Come nelle precedenti scalate solitarie in Dolomiti, Renato avrebbe usato un suo personale sistema di autoassicurazione, dinamico e funzionale. In quel modo, i tempi di scalata si sarebbero dilatati: in pratica, sarebbe stato costretto a ripetere la via tre volte, due in salita e una in discesa, per recuperare zaino e chiodi. Ma quell’accorgimento era essenziale per procedere in costante sicurezza anche in caso di brutto tempo. Era una scelta di grande umanità, di responsabilità verso la vita e verso chi gli voleva bene.
Dividevo quei lunghi giorni d’attesa con Maria, una ragazza schietta e leale, ma anche una compagna attenta e sensibile. Renato ed io eravamo in contatto radio. Il collegamento più lungo era quello della sera e, mentre al bivacco lui scioglieva la neve per preparare la minestra o il tè, avevamo il tempo di fare il punto della situazione. Quel contatto era un conforto per entrambi, un momento in cui la lontananza veniva annullata dall’intreccio delle nostre voci.
«9 giugno: continuo su ghiaccio e neve, in un ambiente di sogno. La parete è esposta a nord, il mezzogiorno dell’emisfero australe; e quando c’è il sole il calore scioglie la neve e la lavora nei modi più incredibili, creando enormi stalattiti e fantastiche cascate di ghiaccio. Le difficoltà massime che incontro sono di sesto grado superiore, anche se, in effetti, non sono solo tecniche, ma ambientali e morfologiche. A tratti la roccia è saldissima; in certi punti, invece, si sfalda».
A causa delle difficoltà tecniche, Renato arrampicava senza guanti e la pelle delle mani gli si spaccava in profondità. Nevicava ogni giorno, talvolta anche la notte, e nei tratti più delicati e verticali la scalata era un problema tutt’altro che banale. Una sera mi comunicò d’aver pensato di rinunciare. All’uscita di un diedro verticale, con fessure cieche e roccia friabile, si era trovato di fronte a uno strapiombo di roccia marcia. Non era possibile evitarlo. «Quattro metri, solo quattro metri, ma la roccia non tiene assolutamente. Tento di agganciare più volte un grosso spuntone con il lazo, ma non ci riesco. Sono sfinito: devo fare l’operazione con una mano sola. Alla fine lego un sasso alla corda e riesco a farla passare attorno allo spuntone».
Per orientarci, facevamo entrambi riferimento alla grande “L” di ghiaccio vivo che stava proprio al centro della parete, ben visibile dal mio punto di osservazione. Per alcuni giorni fu l’argomento principale delle nostre conversazioni. Man mano che si avvicinava, Renato scopriva le reali dimensioni di quella lingua ghiacciata, ben maggiori di quanto sembrava dal basso, e la sua pericolosità per via delle continue scariche di ghiaccio e sassi. Intanto i giorni trascorrevano e i viveri di Renato diminuivano, mentre la salita pareva non avere fine. Per scrupolo, avevamo ipotizzato 15 giorni di permanenza in parete e avevamo preparato i viveri di conseguenza. La vetta non era lontana, ma le difficoltà continue non permettevano di raggiungerla nei tempi previsti. Così Renato fu costretto a razionare il cibo. Per il freddo e il contatto con il ghiaccio, i polpastrelli delle sue dita erano davvero malridotti: le screpolature iniziali si erano trasformate in profondi tagli, e già s’intravedeva la carne viva. Avrei voluto fare tante cose per lui, ma non potevo dargli altro che il mio conforto morale, e aiutarlo, se possibile, a chiarirsi le idee. Il 19 giugno Renato prese una decisione drastica: abbandonare la maggior parte del materiale per progredire più velocemente. Nelle notti successive avrebbe dovuto dormire all’addiaccio, e io mi auguravo che fosse la decisione giusta.
«Salgo, salgo il più possibile, ma ogni volta che supero un tratto difficile me ne trovo davanti un altro. Vedo una grande meringa di ghiaccio, ne allargo l’apertura con la piccozza, poi m’infilo dentro per passare la notte. Frugo nello zaino alla ricerca di cibo: nulla, ho proprio ripulito tutto».
«21 giugno: supero l’ultima lunghezza di corda su granito. Continuo senza un attimo di tregua fino a giungere in prossimità della calotta sommitale di ghiaccio. Devo allacciarmi i ramponi, ma che pena per le mie mani! Risalgo il pendio di ghiaccio “verde” e devo per forza gradinare. C’è molta nebbia. Finalmente mi accorgo che il pendio non sale più. Sono in vetta!». «Goretta, ce l’abbiamo fatta: siamo arrivati!». Renato mi comunicò così il suo arrivo sulla cima del Huascarán Nord: erano le 16.30 del 21 giugno. Poi cominciò la discesa dal versante opposto, e da quel momento le radio, che funzionavano solo a vista, restarono mute. Lo rividi due giorni dopo. Lo trovai dimagrito, con le mani malconce e una forte oftalmia: una lente degli occhiali da sole che aveva riposto nello zaino si era rotta. La discesa non era stata semplice… ma ormai era tutto finito. Avevamo parlato molto, quando lui era lassù, e tuttavia avevamo ancora tanto da raccontarci sui lunghi e difficili giorni della salita.
Quota interiore
(l’alpinismo umanitario di Battistino Bonali)
di Franco Michieli
Il 4 agosto 1993 quattro alpinisti lombardi risalivano il ripido vallone che dalla base del Huascarán sprofonda alle Lagunas Llanganuco. Avevano un obiettivo ambizioso: realizzare la prima ripetizione della via Casarotto, un tracciato grandioso, oltre che assai pericoloso.
Ma, ricorda Oreste Forno nel libro Battistino Bonali. Grazie montagna, si portavano dentro idee non comuni sul senso di quella scalata, specialmente Bonali: «Il giorno in cui andrai in montagna solo per far vedere la tua forza, o per farti applaudire dalla gente, ti converrà prendere la corda e buttarla via -disse a un compagno – perché allora non sarai più un uomo libero e avrai perso la cosa più importante: la semplicità e la ricchezza interiore che sa dare la montagna». Aldo Moscardi, che era tra i quattro, conferma qual era lo spirito che spinse Battistino a organizzare quella spedizione: «Credeva nel valore dell’esperienza alpinistica come bene per la persona, per la sua crescita. Quell’anno era stato invitato da Forno al Makalu, meta più prestigiosa, ma preferì il Huascarán perché gli permetteva di fare una scalata dedicata ai campesinos che aveva conosciuto negli anni precedenti, e che aveva accompagnato sulla Normale della stessa montagna per far loro conoscere l’alta quota». Aveva perciò deciso che l’impresa dovesse contribuire, per mezzo degli sponsor e della vendita di cartoline, alla costruzione dell’ospedale di Chacas avviata dall’Operazione Mato Grosso.
Il mattino dopo, 5 agosto, i quattro attaccarono la via, ma proprio Moscardi fu colto dalla febbre e a 5600 metri gli fu impossibile proseguire. «I compagni mi calarono fino al ghiacciaio e tornammo al campo a 5000 metri. Giovanni Bianchetti rinunciò alla salita e discese con me alle Lagunas Llanganuco. Andai poi a Yanama a curarmi». Il giorno dopo Bonali e Ducoli tornarono in parete e raggiunsero la base del gran diedro che costituisce il passaggio chiave della salita. Lo superarono il mattino successivo, 7 agosto, proseguendo poi nella parte superiore della parete. Comunicando via radio lasciarono intendere che la scalata li impegnava molto ma che tutto andava bene. Tanto che il mattino dell’8 agosto chiamavano via radio dicendo di aver già percorso 5 tiri e di sperare nell’uscita in giornata. Ma da quel momento non risposero più agli appuntamenti, né scrutando la parete si riuscì più a individuarli.
Famigliari e amici presenti in varie località della Cordillera Blanca organizzarono perlustrazioni con cannocchiali e spedizioni di soccorso; un elicottero giunse ripetutamente da Lima, senza risultati. In Italia la vicenda occupò a lungo i giornali dell’area bresciana e fu ripresa dai tg nazionali. «Quando seppi che Battistino e Giandomenico non chiamavano più, tornai a Llanganuco – ricorda Aldo Moscardi – e dopo aver scrutato la parete capii quello che era successo. C’era una linea di distacco proprio sotto la cima, forse quella era stata la causa dell’incidente. Non c’era niente da fare, non c’era più nessuno». Qualcuno, come Virginio Ragazzoli e alcune guide di Huaraz, passò parecchi giorni sulla cima del Huascarán nella tormenta, effettuando lunghe calate sulla Nord, ma invano. Proprio il giorno in cui arrivava a Huaraz una nuova spedizione di soccorritori partiti dall’Italia, il 21 agosto, Giorgio Gemmi e alcune guide trovarono i corpi dei due amici sul ghiacciaio, ai piedi della parete. Tutto sembrò confermare l’ipotesi di un volo a causa di una scarica.
L’impresa non finì lì, proprio perché i protagonisti avevano scelto di darle un significato particolare. I loro amici e i moltissimi volontari che sostengono l’Operazione Mato Grosso decisero di continuare a pensare la montagna come una via verso la solidarietà.
************************************************************
Stéphane Benoist, Patrice Glairon-Rappaz, Patrick Pessi: in Italia qualcuno li conosce, forse, come gli ideatori delle falesie di Castillon o della grotta di Peillon, ma neppure in terra transalpina sono delle star. Anche se quando lasciano le calde rocce del Nizzardo è per confrontarsi con salite tipo la Gousseault alle Jorasses o la Superlntegrale di Peutérey d’inverno (2003). Sono un trio di tranquilli e forti climber allround. In queste pagine la loro ripetizione della difficilissima via aperta sul 5830 metri del Taulllraju da un altro discreto ma ormai leggendario alpinista, il britannico Mick Fowler. Il racconto è di Patrick Pessi.
Tre sudisti sulla Sud
(anniversario sull’estrema via Fowler-Watts al Taulliraju)
di Patrick Pessi
Foto di Stéphane Benoist
5600 metri circa, sesto bivacco sulla Sud: emergo con stupore dal mio sacco a pelo completamente chiuso e bagnato che mi impedisce di respirare. Soffoco. Ho bisogno d’aria, di vedere che tempo fa. Guarda, nevica! Altra neve rotola giù dalla montagna, i nostri sacchi vengono sommersi da una spessa coltre bianca, umida e pesante, che arriva a contatto con il corpo. Getto uno sguardo furtivo ai miei compagni: Steph’, più riparato, sembra dormire, mentre Patrice, anche lui intirizzito dal freddo, si raggomitola tremante nel sacco a pelo. È passato esattamente un anno da quando il cattivo tempo, la stanchezza per il tedio dell’attesa ci avevano costretti a fare dietrofront a soli 200 metri da terra. Qualche giorno dopo quel memorabile fallimento, Steph’ mi confidò che avrebbe voluto riprovarci. Così, questo 2002, ventesimo anniversario dell’itinerario di Fowler e Watts, per me e per Steph’ è l’anno del ritorno, assieme a Patrice, non pago della precedente spedizione in Patagonia.
25 giugno
Abbiamo già preparato i primi due tiri, partendo dal nostro campo base a pochi minuti dal Passo di Punta Union, a 4700 metri. Il cielo è stellato. Andiamo! Dopo un’ora di cammino incerto sul ghiacciaio, sentiamo che il fisico non va. Steph’ è febbricitante. Quanto a me, sono colto da un terribile attacco di tosse. Un’indisposizione che alimenta una sensazione di déjà vu. Il dubbio ci assale. Arrivati ai piedi della montagna, Patrice, il più in forma, attacca per primo. La giornata trascorre abbastanza bene, con difficoltà simili alla mitica Beyond the God and the Evil all’Aiguille des Pélerins. Fin dall’inizio adottiamo la tecnica di progressione “bigwall”, piuttosto lenta. Ogni giorno percorriamo un leggero dislivello, tanto più che la compattezza della roccia e della neve polverosa rendono difficile la posa degli ancoraggi. Bisognerà abituarsi. Così, ad ogni lunghezza, siamo costretti a grattare o a raschiare la neve o il ghiaccio per individuare la fessura adatta.
27 giugno
Patrice tenta a fatica di aprire un passaggio fra le protuberanze del fungo di neve, fino a poco prima nostro rifugio. Poi, stordito dall’energia spesa, prepara l’ancoraggio dritto sulla grossa meringa di ghiaccio. Udiamo appena il grido, sempre atteso, di “sosta”! Dopo qualche lunghezza con tecnica mista, la nostra progressione è interrotta da una parete apparentemente invalicabile, a forma di scala, ma disposta lateralmente e verticale: assomiglia al soffietto di una fisarmonica allungata. Una breve pausa, e Steph’ parte in testa, mette un nut, estrae la staffa, ci sale sopra. Gli faccio notare che potrebbe tentare un’arrampicata libera, che sarebbe l’occasione giusta per fare una lunghezza di 8a a vista, a 5000 metri… invano.
Lo vedo che conficca chiodi nella roccia e nel ghiaccio. Una lunghezza che farà in A4, A2, forse neppure… e tutto per tre ore di fatica. Che delusione! Da quel momento le difficoltà le affronteremo in modo classico. Dopotutto, la via non era definita sulla guida un «test assoluto di alpinismo classico»? Aspettando Steph’, Patrice e io prepariamo il secondo bivacco su un banco di neve tagliato accanto a un provvidenziale fungo.
28 giugno
Dopo un risveglio muscolare sulla corda fissa messa da Steph’ il giorno precedente, nella fitta nebbia che cela la parete, raggiungo con un piccolo pendolo una serie di grosse fessure. Al terzo bivacco, una strana lastra granitica, simile a una spada di Damocle, pende sulle nostre teste… ma che importa, dopotutto saremmo rimasti lì solo qualche ora, il tempo di una notte. Niente di più falso! Il mattino seguente le condizioni meteo ci impongono un giorno di riposo forzato. L’indomani è quasi bel tempo. Ma per quanto ancora? Patrice conduce da vero maestro il passo chiave della giornata: una lunghezza in arrampicata artificiale in una stretta fessura.
La neve ci accompagna anche di notte, creando la giusta atmosfera per una serata intimista. Veniamo pervasi da una sorta di rassegnazione. Sapevamo che non ci saremmo dovuti aspettare condizioni meteo particolarmente buone, in questo anno di Niño. Al mattino ci assale un desiderio furioso di scendere, che non osiamo nemmeno confessare. Una schiarita molto relativa ci dissuade dal farlo, spingendoci a salire. Poco dopo, a 30 metri dal punto di sosta, Steph’ è appeso a uno strapiombo, come sospeso tra le nuvole. Mentre addento il mio sostituto di pasto in barretta e lo tengo stretto, grossi blocchi di ghiaccio mi piombano sul ginocchio e sulla spalla. Per disattenzione, Steph’ ha staccato una stalattite da un tetto. Più paura che male. Me la cavo con qualche ematoma, mentre una sensazione di dolore si sostituisce definitivamente al mio senso di fame. Dopo la psicotica lunghezza successiva, dove le lame delle piccozze eccessivamente affondate nella neve mi avevano dato una sensazione di equilibrio precario e di follia controllata, giungo finalmente ai piedi del magnifico e tanto atteso Free Standing!
L’instabilità della colonna sospesa impedisce di mettervi piede direttamente, e la parete concava oltre la verticale che la costeggia appare insuperabile. Perpendicolarmente alla colonna, una stretta fessura a due metri e mezzo sembra essere la soluzione, ma Patrice, che è in testa, è frenato dalla sua massiccia corporatura. Mi propongo di andare a vedere. Così, sulle punte anteriori dei miei ramponi, braccia tese, dall’alto del mio metro e novanta, raggiungo al limite la fessura con la lama della piccozza. Faccio forza sulla dragonne (sacrilegio!), sembra reggere. Metto un nut, poi la staffa, e riparto per una breve arrampicata artificiale (pazienza per la lunghezza in dry tooling che avevo promesso ai miei compagni!) fino a rimettere piede sulla parte superiore della cascata, dove il volume maggiore sembra più adatto alla mia stazza. Riparto per il pendio ornato da grossi funghi sommitali. Vista da qui, la cima, in realtà a 200 metri, sembra vicinissima. Dopo questa sublime visione, con la corda aggrappata a due viti, mi lascio scivolare fino alla sosta precedente, dove Steph’ e Patrice hanno già preparato il bivacco. Li rendo partecipi del mio ottimismo per la parte restante, ma Steph’ è dubbioso… Avrà ragione. Dopo uno spuntino ingoiato in fretta e furia (non abbiamo più gas), estraiamo i nostri sacchi a pelo appiattiti dall’umidità e appesantiti dalle palle di piuma ghiacciata. Siamo pronti ad affrontare una delle notti peggiori. È ora di arrivare!
2 luglio
Anche se le condizioni meteo sono finalmente buone, le difficoltà restanti ci impongono purtroppo un’ultima notte in parete. Finalmente, il 3 luglio, dopo qualche tiro arrancando con la piccozza in mano, tra le fessure dei funghi sommitali, Steph’ è il primo a passare dall’altra parte della cresta. Sono le dieci.
Qualche istante dopo, abbandoniamo anche noi il buio della parete sud per ritrovare il sole del cono sommitale. Felici, meravigliati e sollevati, dopo i consueti rituali in questi luoghi celesti, mettiamo la nostra prima doppia su un corpo morto. Patrice è il primo a scendere nell’abisso. Io, tormentato sempre dalla tosse, mi lascio scivolare lungo la corda. Segue Steph’, con lo zaino da arrampicata tra le gambe, mentre Patrice continua a fissare le doppie…
Inarrestabile Fowler
a cura della Redazione di Alp
Mick Fowler è nato il 15 maggio 1956 in Inghilterra e ha iniziato a scalare giovanissimo. Linden (E6, uno dei primi) del 1976, a Curbar Edge nel Derbyshire, fu uno degli itinerari che lo posero in luce come uno dei migliori climber della sua generazione. Henna e Bukator (1979 e 1981) in Cornovaglia contribuirono invece allo sviluppo di falesie marine sempre più impegnative, senza dimenticare che Mick fu l’autore delle prime arrampicate su “ghiaccio”, ovvero con picca e ramponi, lungo le scogliere di gesso di Dover! Poi, via su un canotto a motore per abbordare i più spettacolari “faraglioni” marini del Regno Unito, come Branaunmore, Lovers Leap Rock e Doonbristy in Irlanda.
È anche conosciuto come il pilota di un assatanato gruppo di londinesi che si sciroppavano 1400 miglia in auto a weekend per scalare sul ghiaccio in Scozia (11 fine settimana consecutivi è il suo record). The Shield al Ben Nevis è forse la sua via nuova più impressionante, per la quale venne disturbato la prima volta il grado VI (non da Fowler che la valutò V) e che non è stata mai ripetuta. E il terribile Mick non si è fatta sfuggire neppure la prima salita del flusso ghiacciato di quasi 20 metri che trasbordava da una toilette in piena Londra, guadagnandosi la copertina del Daily Telegraph! Autore di ripetizioni dei maggiori itinerari di alta quota delle Alpi, non ha trovato ispirazione per nuove vie nei settori ancora liberi della catena alpina, tracciando invece una nuova diretta nel Caucaso, sulla parete ovest dell’Ushba, la più alta parete di misto d’Europa. Nel 1982 ha aperto con Chris Watts l’itinerario sul Taulliraju trattato qui. Dopo il pilastro nord del Mount Kennedy nello Yukon, si è dedicato a vie estremamente tecniche sulle grandi pareti di misto sotto i 7000 metri in Himalaya, divenendo uno dei maggiori apritori al mondo di vie valutate ED sup di questo genere: il pilastro nord-est del Taweche (Nepal), il Golden Pillar dello Spantik (Pakistan), la parete nord-ovest del Kishtwar (India), la parete nord del Changabang (India), la parete nord-ovest dell’Arwa Tower (India) e per ultima (2002) la parete nord-ovest del Siguniang (Cina), che gli ha valso il Piolet d’Or 2003 (nella foto con Paul Ramsden, a destra). Sono parametri mondiali, vie create da un alpinista padre di due figli, che vive nel Derbyshire e che continua la sua attività nel tempo libero dal lavoro (all’ufficio delle imposte britannico).
Bubu e la sua Sfinge
(il più pimpante “pro” italiano fra sviste e entusiasmi)
di Antonella Cicogna
Foto di Boris Strmšek
L’Esfinge irrompe come un grande mistero irrisolto nell’esistenza degli alpinisti cresciuti al canto dell’andinismo. Nome più azzeccato non poteva esserci per questo cerro della Cordillera Blanca. Perché se parli di Esfinge sei di un altro mondo. Non conosci ramponi, né picche. Guantoni di lana e scarponi. E là dove i pascoli si dissolvono nella laguna Paron prendi a salire per un luogo popolato da freeclimber, “bigwallisti”, e “liberisti”.
Sì liberisti, perché qui c’è stato anche lui. Che così si è definito e qui si è scoperto tale. Tutti sanno che ad aprire Cruz del Sur sono stati Bubu Bole e lo sloveno Silvo Karo. Bole adesso non ha più il codino, ma non ha perso la voglia di scherzare e di prendersi in giro. Però a distanza di qualche anno dalla sua entrata nell’alpinismo come professionista, si interroga e interroga. E chiede anche scusa, con quella semplicità e umanità che gli sono proprie.
Cruz del Sur e quell’immagine di Bubu sospeso. Un puntino rosso slegato, appeso a uno “spunzone” di roccia in cima all’Esfinge e, sotto, quasi mille metri di vuoto. Una sfida?
«Una foto supercriticata, ma nata per gioco. “Guarda quella punta Silvo! Vado ad appendermi…”. Silvo non era d’accordo. Non mi voleva neppure assicurare. Perché lui è giustamente più serio di me. Così la corda me la passo nella manica e la fisso dietro una roccia. Sono appeso su questa punta tagliente, che mi porta via i polpastrelli. La valle di sotto, quasi come volare. Non pensavo a un’immagine di scena, né a venderla come simbolo dell'”extreme”. È stata semplicemente un’idea per fermare una sensazione. Grif, la rivista slovena, si è innamorata dell’immagine e l’ha messa in copertina. Con il fotoritocco hanno levato la corda. È stata apprezzata. E molte altre riviste l’hanno utilizzata con quel trucco. Tranne Vertical. E sono stato contento. Perché il messaggio in definitiva è: bella, ma mica scemo! Non avrei mai fatto una cosa del genere rischiando la vita. Né tantomeno è stata una scelta premeditata per la vendita».
Il Perù è stata la tua prima spedizione extraeuropea.
«È stato primo in tutto. Primo viaggio oltreoceano per scalare, prima volta in quota, prima via aperta. Prima volta che lasciavo Trieste senza legami. E senza ripensamenti, contrariamente a quando partivo con la tavola da windsurf sotto il braccio e la mia ragazza non mi seguiva. Quella volta nessuno mi aspettava. Ed ero sereno».
L’Esfinge ha un campo base a 4600 metri. L’acclimatamento com’è andato?
«Ero abituato alla quota in velocità. Nel senso che la mia altezza massima era stata la cima del Mont Blanc du Tacul. Sul Bianco avevo reagito bene perché si trattava di rimanere alti qualche giorno, e di ridiscendere quasi subito. Qui invece ho battuto le corna. Ero frettoloso di vedere la parete. Sai quando ti prende quel sudore alle mani? E così non ho dato retta a nessuno. Potevo fermarmi alla Laguna Paron ma non ho resistito. Ci siamo sparati su a manetta e nel pomeriggio eravamo al campo base».
E allora?
«Il primo giorno tutto tranquillo. Il secondo Silvo sta male. Io no. Ma guarda che bene che sto, mi dico. Intanto mi do da fare, porto materiale alla parete. Silvo mi consiglia di stare tranquillo. C’è tempo. Ma io sempre con quella maledetta fretta. Dopotutto mi sentivo un leone… La notte ne ho viste di tutti i colori. Per la prima volta soffrivo di mal di montagna e non sapevo che fare. Ingurgitavo aspirine e cioccolata. Il giorno dopo Silvo aveva perfettamente recuperato. L’esperienza non è acqua, mi dico mentre sono ancora là, completamente rivoltato come un calzino. Rimango un giorno poi decido di scendere. Dopo è andato tutto a meraviglia. Forse perché il guardiano della Laguna Paron mi ha preparato un tè alle foglie di coca».
A distanza di tre anni, cosa non rifaresti in quella spedizione?
«Conoscendomi, non riuscirei a partire con un altro alpinista testa calda come me. Io e Silvo siamo ottimi amici. E adesso più di prima. Ma in spedizione abbiamo avuto un po’ di problemi proprio per il modo diverso di fare le cose. Lui è più alpinista. Pensava più alla via sulla parete. Io volevo farla tutta in libera. E se c’era da perder tempo per provare un tiro due o tre giorni io l’avrei fatto. Silvo assolutamente no. E infatti dopo cinque tiri mi propone di finire la via in stile alpino, anche portandosi su la portaledge. “No Silvo, non sono d’accordo. È veramente un peccato. Siamo qui, la parete è al sole, ci divertiamo, possiamo fare qualcosa di nuovo, perché dobbiamo andar su in velocità, con passaggi in artificiale?”. Solo negli ultimi cinque tiri abbiamo terminato in giornata senza le fisse».
Hai capito che direzione dare al tuo alpinismo?
«Sono un “liberista”. Non posso pensare all’artificiale… sto male. Abbiamo aperto in alternata, i miei tiri li ho aperti tutti a vista. Tranne il secondo in artificiale perché non c’era altro modo. Facevo un pezzettino, mettevo il chiodo, mi fermavo… Ma è l’unico che ho fatto così. Silvo non apriva tutto on sight. Tutto quello che lui ha aperto io l’ho realizzato a vista».
E il tiro da voi valutato 7c+?
«Quello lo ha aperto Silvo in artificiale e io l’ho ripetuto in libera. È stato un tiro duro: per le mani due piccole tacche, e i piedi ho dovuto alzarli in aderenza. Ho tirato fuori tutto quello che avevo. Anche Silvo nei giorni seguenti è riuscito a risolverlo in libera e abbiamo concordato su quella difficoltà. So che è stato svalutato».
Nel luglio 2002 la via è stata ripetuta on sight dal colombiano Angi Morales e dallo spagnolo Isaac Portés: sono loro che parlano di 7a+.
«Sono i ripetitori che confermano o meno la difficoltà data dagli apritori, ed è giusto che ci siano questi confronti. Io apro a vista e ci si può sbagliare. Forse il mio errore è di non ripetere i tiri. Aprendo on sight ci sono tante componenti in gioco: hai più stress, paura, e questo può indurre a sbagliare le valutazioni. Se questo è successo sull’Esfinge, la valutazione l’abbiamo “cannata” in due e l’abbiamo fatto in tutta onestà. Anche perché né io né Silvo dovevamo vendere alcunché».
Ma è giusto sovragradare una via così bella rendendola (teoricamente) inaccessibile a tanti climber? La domanda se l’è posta in Desnivel lo spagnolo Kepa Escribano, che ha mancato d’un soffio la ripetizione a vista per un errore nella parte alta della parete.
«Ripeto, 7a+ mi sembra troppo poco. Comunque in generale sono del parere che nell’apertura sia meglio aumentare la gradazione piuttosto che tenerla stretta. Non è la prima volta che accadono incidenti perché un tiro è stato sottogradato».
E il futuro dell’Esfinge?
«Oramai sulla Est ci sono troppe vie per parlare di futuro. La parete è stata presa d’assalto dopo Cruz del Sur, ora ve ne sono più di dieci. Il futuro potrà essere piuttosto nella Sud, ma è fredda e strapiomba mica da ridere nella parte iniziale. Però l’Esfinge è una bella alternativa rocciosa per chi è qui in Perù a scalare. Perché il campo base è comodo, l’avvicinamento pure. La Est è sempre al sole la mattina. Insomma è l’ideale per chi voglia salire in libertà. E poi c’è il tè di foglie di coca del guardiano della Laguna…»
E ora la voce di Silvo Karo
(uno dei protagonisti del grande alpinismo sloveno)
di Erik Švab
Allora, quest’annosa questione del grado della via… anche se tutti dicono di arrampicare per il piacere di farlo, poi si finisce sempre per parlare di gradi.
«Il tiro chiave lo ha salito prima Bubu in rotpunkt, il giorno dopo l’ho fatto io utilizzando una combinazione di appigli diversa da quella usata da lui.
Per me i tiri più impegnativi sono stati i due che abbiamo valutato 7a+, per le protezioni distanti e i movimenti aleatori, mentre sui due tiri più difficili le protezioni erano decisamente migliori. Certo, è difficile parlare di salita a vista (come hanno fatto alcuni ripetitori) quando ci si cala su una via che poi si vuole salire: come minimo si dà un’occhiata all’andamento dei tiri, al tipo e alla distanza delle protezioni, e anche agli appigli. Ben diverso è salire dal basso senza sapere quello che trovi».
E la parete com’era?
«Le fessure erano intasate di erba e terriccio. Le abbiamo pulite sui tiri provati più volte, mentre su quelli che abbiamo salito in apertura a vista abbiamo dovuto arrangiarci di mano in mano.
Oggi che la via ha parecchie ripetizioni, le soste pronte e le fessure pulite, tutto è più facile. L’importante è che si tratta di una bella via: ha dei passaggi bellissimi, su roccia di qualità e una linea autonoma dall’inizio alla fine».
Come ti sei trovato in spedizione con Bubu?
«La spedizione è andata benissimo, a parte la nostra diversa concezione dell’alpinismo, della salita e del modo di affrontare la parete. Nulla di strano, data la differente estrazione. Con Bubu mi sono davvero divertito tantissimo: ci siamo fatti delle gran risate e delle belle feste…»
Qual è secondo te il motivo del successo di questa montagna e quale il suo futuro?
«Prima che arrivassimo noi mi sembra ci fossero solo quattro vie, mentre dopo il 2000 e i servizi pubblicati sulle riviste la parete è diventata di attualità. È una specie di Yosemite in quota, con esposizione ideale, bella roccia e un accesso abbastanza facile; grazie alle doppie sistemate in parete anche la discesa oggi è semplificata. E se dal punto di vista classico o semiclassico le possibilità sembrano esaurite, se uno parte con il trapano nello zaino, credo che ci siano ancora tante possibilità di apertura, soprattutto sulle placche. A destra della nostra via la roccia è bellissima, leggermente appoggiata e lavorata dall’acqua con tacche e buchetti che permettono di progredire, ma sono troppo piccoli per protezioni tradizionali».
Mauro Bubu Bole è nato il 21 maggio 1968 e risiede a Trieste. È guida alpina dal 1991 con un’attività che spazia dall’arrampicata sportiva (8a+ on sight e rp fino all’8b+, e l’8c di Bellavista in Lavaredo), al misto moderno estremo (M11), dalle prime libere in Dolomiti fino all’8b su itinerari tradizionali, alle invernali, dalle solitarie alle discese estreme con gli sci (bio non aggiornata, NdR).
I segreti dell’Esfinge 5325 m
(tutte le informazioni per toccare il più bel granito della Cordillera)
a cura di Antonella Cicogna e Planetmountain.com
Accesso
Da Huaraz il sistema più veloce per raggiungere la Laguna Paron è noleggiare un taxi. Con questo in circa 3-4 ore, passando per la cittadina di Caraz, si raggiunge comodamente la Laguna Paron 4140 m. In alternativa, da Huaraz si può prendere uno dei tanti autobus collectivos che portano a Caraz in circa un’ora e mezza. Da qui prendere una camioneta privata fino alla Laguna Paron. Costo jeep: circa 40 $.
Avvicinamento
Dalla Laguna Paron a piedi in circa 3-4 ore (a seconda dell’acclimatazione). Negli ultimi tempi la parete è stata frequentata e per questo s’incontrano diversi ometti che indicano il percorso. Comunque è sempre facile sbagliarsi nel primo tratto di salita, non così evidente. Il percorso inizia scendendo lungo la strada verso Caraz alcune decine di metri, per cominciare a salire sulla destra lungo tracce di sentiero. Seguirlo per circa 30 minuti, passare l’imbocco a due valli fino a raggiungere una terza valle che s’innalza sulla destra. Lasciare il sentiero poco prima di un torrentello, all’altezza di un grosso lastrone molto evidente e ricoperto di muschio situato sulla cresta sovrastante. Salire ora lungo una traccia fino ad arrivare a un’ampia collina: seguirla fino a che il sentiero si spiana. Rimanere alti vicini al ghiaione fino a raggiungere il campo base. Per raggiungere tutte le vie sulla parete est è consigliato mantenersi sempre alti vicini al ghiaione.
Parete sud-est
Via Originale 14 agosto 1988
Prima salita: Antonio Gómez Bohórquez e Inaki San Vicente. 950 m, VII (5.10), A4. Aperta con 15 bivacchi.
Parete est
Volveras a Mi 20 agosto 1987
Prima salita: Eduardo de la Cal, Alejandro Madrid, Manuel Olivera, José Maria Polanco (Spagna). 900 m, 5.10a/A3.
Mecho Taq Inti 26 luglio 2001
Prima salita: Andrej Grmovskek, Tanja Rojs, Aleksandra Voglar (Slovenia).
800 m, 6c/A2+.
Cruz del Sur 10 luglio 2000
Prima salita: Mauro Bubu Bole (Italia), Silvo Karo e Boris Strmšek, fotografo (Slovenia).
800 m. La via è stata ripetuta tre o quattro volte. I ripetitori ne confermano la bellezza, valutandola di difficoltà massima 7a+ (7c+ proposta in apertura). Ripetitori: Andrej Grmovskek, Tanja Rojs, (Slovenia, luglio 2001); Silvestro Stucchi, Anna Lazzarini, Elena Davila (Bergamo, luglio 2002).
Nello stesso 2002, la via è stata ripetuta on sight da Angi Morales (Colombia) e dallo spagnolo Isaac Portés, e fallita per poco anche dallo spagnolo Kepa Escribano. Lo stesso Stucchi ripetendo da secondo in libera i tiri più difficili (il secondo e il terzo), concorda nelle difficoltà.
Via Originale 8 luglio 1985
Prima salita: Antonio Gómez Bohórquez, Onofre Garcìa (Spagna).
750 m, 5.10a/A1.
È la prima via su questa parete, realizzata in 10 giorni, e conta alcune ripetizioni. La prima in libera è avvenuta nel 1997 da parte degli spagnoli Julio Fernández e David Rodriguez e del peruviano Guillermo Mejia, con difficoltà fino al 7a.
Riddle of the Cordillera Blanca 19 maggio 2000
Prima salita: Niels Davis e Todd Offenbacher (Usa). 750 m, 5.10+/A3. I primi tre tiri della via sono in comune con la via del 1985.
Lobo Estepario 18 luglio 2000
Prima salita: Jonás Cruces Fernández in solitaria (Spagna). 650 m, 6b/A3.
Gringos 7 luglio 2001
Prima salita: Zack Martin e Joe Vallone (Usa). 750 m, 5.12/A3+.
Solo in parte nuova, diversi tiri sono in comune con Lobo Estepario, Riddle of the Cordillera Blanca e Papa Rellena.
Papa Rellena 25 luglio 1999
Prima salita: Cédric Cruaud, Girec Devernay, Benoît Peyronnard, Pierre Plaze (Francia). 600 m, 6C+/A3.
Here comes the Sun 3 giugno 2000
Prima salita: Lucy Regan e Brian Bigger (GB). 700 m, A3/E3 5c (scala inglese). Prima ripetizione in libera un mese dopo per Leo Houlding e Sam Whittaker (GB) in tre giorni, con valutazione E6 6b (scala inglese).
Todos Narcos 23 luglio 2000
Prima salita: José Fernández García e Dani Lacueva (Spagna). 750 m, 6c/A3.
Llttle Fluffy Clouds luglio 2000
Prima salita: Patch Hammond e Neil Dyer (GB). 650 m, E5 5c (scala inglese). Aperta in tre giorni in stile alpino senza l’uso di chiodi a espansione.
Ganxets Glacé 21 luglio 1996
Prima salita: Kike Ortuño e Albert Salvador (Spagna). 650 m, VI/A2.
Intuition 20 luglio 2000
Prima salita: Taki Miyamoto (Giappone) e David Sharratt (Usa). 600 m, 5.12c.
Dion’s Dihedral 23 giugno 1999
Prima salita: Larry Dolecki e Sean Isaac (Canada). 600 m, 5.9/A3. La prima ripetizione in libera è stata realizzata dagli inglesi Patch Hammond e Nic Sellers in quattro giorni nel luglio 2000, con valutazione E5 6b (scala inglese).
Cresta Nord-est 26 giugno 1955
Prima salita: Hermann Huber, Helmut Schmidt e Alfred Koch (Germania). È la prima ascensione all’Esfinge. Viene comunemente utilizzata per la discesa. Non presenta difficoltà tecniche.
L’ignoto, oggi
(una nuova alta via, tra rovine preincaiche e valichi selvaggi)
di Franco Michieli
Foto di Franco Michieli
Mi faccio largo nell’intrico della vegetazione, piegato sotto lo zaino nel tentativo di abbassarmi al livello degli angusti passaggi aperti dal bestiame brado. Ogni pochi passi il mio carico si impiglia nelle spine, lo strappo in avanti e mi butto verso un nuovo tunnel tra gli arbusti. Intorno, nella boscaglia, Gabriele, Carlos, Edgar e Anselmo stanno facendo lo stesso: procediamo sparsi per aumentare le possibilità di trovare una traccia buona, residuo di sentieri antichissimi ormai abbandonati che stiamo cercando di riportare in luce. Talora sbuchiamo in una radura pascolata: sotto il sole che ci abbaglia da nord, riappare la mole possente e bianca del Huascarán, formidabile segnavia. Non c’è dubbio che diversi sentieri dei millenni passati corressero sui versanti lungo questa linea. Presso i ruderi della città commerciale preincaica di Honcopampa, a 3500 metri, abbiamo osservato una fila di menhir allineati che puntano al Huascarán; ora, procedendo in questa direzione, incocciamo di continuo in muri crollati senza età, in cerchi di pietre, in tracce che non si sa quando cominciarono a essere battute. E sappiamo che più avanti ci sono resti di altre città. Ogni tanto uno di noi lancia un richiamo: «si passa?». Qualcuno risponde dal folto, oppure agita un braccio dal crinale successivo, raggiunto dopo aver indovinato la traccia buona. Ma già prima di sera una simile marcia si rivela estenuante. Ciononostante ci proponiamo di riscoprire e in parte inventare una nuova alta via nel senso della lunghezza della catena montuosa, in contrasto con tutti i percorsi esistenti che sono trasversali. Ma cosa ci ha spinti su un simile cammino?
Percorsi da inventare
All’inizio del luglio 2002 ero arrivato a Marcarà, ai piedi della Cordillera Blanca, all’improvviso, senza conoscere quasi niente di queste montagne, della loro tormentata topografia, dei sentieri antichi come l’agricoltura andina, delle vie glaciali sugli spumeggianti nevados. Non avevo fatto in tempo a leggere nulla, cosa che in verità non mi spiaceva affatto: una consapevole ignoranza è di grande stimolo a guardare con occhi aperti, a creare percorsi dalla relazione viva col territorio anziché da relazioni scritte e standardizzate. Del resto, sapevo di poter contare sulla condivisione di ogni esperienza con i giovani allievi dell’Escuela de alta montana “Don Bosco en los Andes”, che si stanno preparando a divenire guide andine. Anche per loro, figli di campesinos poverissimi, l’alta quota è una scoperta recente: salendo insieme sulla Cordillera possiamo ora mescolare le nostre diversissime esperienze e costruire nuove avventure. Ma c’è davvero qualcosa di originale, qualcosa ancora da mettere a fuoco nella realtà in divenire della Cordillera, che risponda ai desideri più profondi dei vagabondi dei monti di questa controversa epoca?
Certo che sì, e basta poco per accorgersene. Sopra e attorno ai 180 km di lunghezza della Cordillera Blanca tante cose stanno cambiando. Il riscaldamento climatico causa il ritiro e quasi lo sgretolamento di molti ghiacciai, e rende difficili e pericolose vie un tempo classiche. Si può prenderlo come uno stimolo. A scoprire, per esempio, che sotto le cime di ghiaccio, all’ingresso di molti cañon, ci sono strutture granitiche immense, un paradiso per l’arrampicata esplorativa. O a notare che anche il trekking, gestito perlopiù dalle agenzie di Huaraz, nonostante il rapido incremento delle presenze è fossilizzato su pochi percorsi affollati, mentre paesaggi straordinari per la wilderness, o per l’archeologia, o per la struttura antropica rurale, non vedono quasi visitatori. Intanto, la comparsa dei tre rifugi costruiti dai volontari dell’Operazione Mato Grosso, rendendo possibili i rifornimenti, consente permanenze o circuiti più lunghi di prima; e la valenza umanitaria di cui sono portatori invita gli alpinisti a guardare oltre le cime, all’umanità straordinaria e sofferente delle Ande. Ecco perché la situazione richiede percorsi nuovi.
Pittori remoti
La luna piena illumina le tende appena montate, sbianca le erbe rinsecchite e i tronchi d’eucalipto cresciuti fra i tumuli delle antiche tombe di Copa Chico, incontrate quando già è calata la notte. Tutto è pace sotto gli orli ghiacciati dei Nevados Copa e Hualcan, salvo la sete accumulata tra pampas e boscaglie, che ci divora. Ma il mattino dopo, la curiosità di trovare altri passaggi verso le pitture rupestri di cui una studentessa di antropologia di Huaraz ci ha parlato e che ufficialmente nessuno conosce, infonde nuova forza ai nostri passi. Il semplice schizzo tracciato da Ketty su un foglio di quaderno si sovrappone finalmente alle forme di una grande pampa tra le morene. Di fronte a questa prateria, sulla superficie ruvida di grossi roccioni, gruppi di lama dipinti con una sostanza rossiccia e sbiaditi dal tempo vagano su un pascolo simbolico. Qua uno è rappresentato col tipico sputo che schizza davanti al muso, là un piccolo succhia il latte dalla madre, mentre qualche figura rudimentale umana sorveglia la mandria. L’immaginazione ci riporta indietro di 5-6.000 anni, al tempo in cui i primi animali e le prime piante furono addomesticati sulle Ande e, presumibilmente, questi disegni furono tracciati. Scoprirli è un’emozione anche per i miei compagni, discendenti di quegli uomini ma appartenenti a un popolo sottomesso da così tanti secoli a imperi e potenze straniere da ritrovarsi privo delle proprie antiche radici, che ora non è facile recuperare.
Altrettanto entusiasmante è per me dividere con questi ragazzi la scoperta di passaggi in alta quota, fuori dalle vie battute. A 5000 metri, tra le Quebradas Ishinca e Aquilpo, abbiamo scavalcato un passo selvaggio, ma conosciuto; ora, invece, l’itinerario prevede di superare creste e valichi di cui non sono noti precedenti transiti. Le giornate si trasformano così in esplorazioni in quota, dove la carta al 100.000 preannuncia la forma generale dei versanti, ma non i passaggi realmente praticabili. La bellezza scoperta, valicando la cresta ovest del Nevado Hualcan, ci incoraggia ad affrontare il tratto più ambizioso e significativo dell’alta via: il circuito in quota attorno ai versanti sud-ovest e nord-ovest del Huascarán.
Come in sogno
All’accogliente rifugio Huascarán, appena inaugurato, sanno bene quante energie occorrano per affrontare una lunga tappa d’alta montagna: prima dell’alba ci servono la più generosa colazione di rifugio che abbia mai visto, comprensiva anche di pizza cucinata in forno a legna. Inizia così una delle giornate esplorative più formidabili che abbia mai vissuto. Si tratta di trovare una via a mezza costa, fra i 4400 e i 5000 metri, lunga una quindicina di chilometri interamente selvaggi, fino a sbucare a nord del Huascarán. Rocce montonate sotto ghiacciai in disfacimento, crinali morenici, scarpate friabili e caos di macigni si succedono senza tregua, finché nella nebbia sbuchiamo sul filo della cresta ovest del Huascarán. Tra brevi nevicate e schiarite intravediamo sotto di noi l’incassata Quebrada Llanganuco, da cui sorgono le bastionate di granito che sorreggono le cuspidi dei Huandoy. In questa cornice, esaltante per la sua maestosità, ci inoltriamo sotto le nebbiose pareti nord occidentali del Huascarán. È un continuo saliscendi per piccole placche, costoni e ghiaie su terreno ripido, che richiede costante attenzione. Per me avanzare in questo ignoto è come entrare in pieno possesso della vita, e la motivazione che mi riempie si moltiplica grazie alla sintonia con i ragazzi peruviani. Ci alterniamo nella ricerca, ora va avanti uno ora un altro; commentiamo allo stesso modo la meraviglia che proviamo, con sorrisi e battute simili; portiamo ciascuno uno zaino da una ventina di chili sulle spalle. Sembra un sogno, un’utopia.
A ogni sperone roccioso che scende dalla gigantesca montagna l’incognita si ripresenta: cosa ci aspetta al di là? Una volta la discesa ci è permessa da un diedro riempito dai rami di alberi di quenual che formano una scala a pioli naturale; un’altra da placche fessurate, un’altra ancora da cengette erbose esposte sulle pareti; ma sempre si passa. E con commozione transitiamo ai piedi della parete nord-nord-ovest, sotto la via di Casarotto, quella da cui Battistino Bonali e Domenico Ducoli lanciarono la filosofia che ha generato la Scuola di andinismo, cambiando la vita dei miei compagni. Quasi increduli, con le ultime luci, vediamo innanzi a noi l’altopiano erboso che fiancheggia la Quebrada Ancush, sotto il Chopicalqui rosseggiante al tramonto. Sui dossi d’erba bruna, lievi e ondeggianti, sfilano correndo dodici vigogne.
Nuovi valichi
Il Huascarán buca le nuvole lontano, alle nostre spalle. Il calore del rifugio Perù, la cima del Nevado Pisco, il blu zaffiro della Laguna 69, come frammenti di un oggetto misterioso che si scopre a poco a poco, si congiungono in un’armonia che stupisce per primi noi cercatori. La gioia di avere realmente scoperto un percorso originale dall’Ishinca all’Alpamayo la viviamo al momento di varcare un passo, prima solo ipotetico, sotto il Chacraraju, a 5000 metri: oltre un dedalo di zigzag, di prove e riprove per canali, creste, cenge e paretine, ci ritroviamo nella Quebrada Huaripampa. Il seguito fino all’Alpamayo e al villaggio di Cashapampa sarà più semplice. Dopo dieci intensissimi giorni scendiamo a valle convinti che l’alta via potrà stimolare un rapporto nuovo e più fantasioso con queste montagne. Insieme con le guide e gli allievi di Marcarà la descriveremo, puliremo gli antichi sentieri invasi dalle spine, metteremo qualche ometto di pietre. Niente di più. Resterà un percorso prevalentemente selvaggio, che sarà bello condividere con questi giovani.