L’arte del foraging

di Valeria Margherita Mosca
(pubblicato su innesti.com)

Mi chiamo Valeria Margherita Mosca e sono una forager.
Una delle domande più ricorrenti che mi viene posta sul mio lavoro è come ho iniziato e cosa mi ha spinto a intraprendere un cammino di questo tipo, parecchio insolito agli occhi di molti. Io rispondo sinceramente, senza romanzare troppo, dicendo che è qualcosa che mi porto dietro da sempre, fin da bambina, che appartiene per me al fatto stesso di esistere e che è profondamente radicato nel mio cuore e nelle mie radici.

Il foraging in realtà è un’attitudine che appartiene al genere umano e animale da sempre. L’uomo è nato raccoglitore ed è rimasto tale fino a poco più di un secolo fa.
Oggi il termine identifica l’azione di andare a raccogliere vegetali o parte di essi, molluschi di acqua o terra e insetti adatti al nutrimento umano in territori naturali il più incontaminati possibile. Quando il foraging era un’attività comune, la conoscenza riguardo la raccolta era contemplata dall’alimurgia, una vera e propria scienza che studiava la possibilità di cibarsi di alimenti selvatici in periodi di carestia, povertà, per scelta o necessità. Fino alla fine del 1800, la dieta del ceto medio o basso era composta per gran parte proprio da cibo selvatico. Gli ingredienti selvatici sono stati, quindi, parte importantissima della nostra identità culturale.

Recuperare queste tecniche, continuare la catalogazione degli ingredienti di origine selvatica andando oltre a quelli già utilizzati nella nostra tradizione e analizzarne di nuovi sotto il punto di vista nutrizionale, proprio come stiamo facendo a Wooding, il primo food lab italiano che ho fondato nel 2010, è una scelta molto contemporanea di recupero della nostra identità e tradizione e veicolo di concetti molto attuali come la sostenibilità alimentare, la cooperazione e la tutela dell’ambiente.

Il cibo selvatico, se raccolto con coscienza e conoscenza, è cibo a zero impatto sull’ambiente e può essere considerato una forma di sussistenza enorme e immediatamente disponibile.

Cimentarsi seriamente in questa disciplina significa prima di tutto conoscere l’ambiente, studiare gli ecosistemi, le dinamiche che li muovono, l’etnobotanica, il territorio, la botanica e la geografia. Questa conoscenza ci rende rispettosi e cooperativi con l’ambiente. Ravvisare la possibilità di utilizzare cibo a origine spontanea e comprendere quanto questo sia legato alla nostra esistenza e alla salute del pianeta, ci regala davvero la possibilità di essere “connessi”.
In questo senso, il foraging diventa un mezzo o un pretesto per insegnare un’educazione ambientale cosciente e attiva. Le persone che scoprono i misteri della raccolta spontanea cambiano il loro atteggiamento perché questa scoperta modifica il loro modo di osservare. Una delle soddisfazioni di tenere corsi è appurare come i partecipanti diventano più presenti e attenti e vivono con maggior consapevolezza l’attimo presente e il rapporto con l’ambiente. Due importanti necessità di questo momento storico.

Avvicinarsi al foraging vuol dire, quindi, imparare a riconoscere nell’ambiente una risorsa da utilizzare, ma anche a farlo nel rispetto più totale. Di cosa abbiamo più necessità al giorno d’oggi se non di questo, pensando nell’ottica di uno sviluppo più sostenibile?

Ricordo perfettamente la prima volta che pensai di mettere delle bacche e alcuni rametti di conifere miste in padella. Avrò avuto 6 o 7 anni, stavo giocando nel grande giardino della casa di montagna e fu naturale chiedermi se quella vibrante materia vegetale potesse avere lo stesso inebriante, intenso e aromatico sapore che le mie narici catturavano nell’aria sotto forma di odore. Perciò, iniziai a immaginare e fantasticare, cucinando per gioco, a riempire i miei pentolini di aghi, cortecce, foglie e persino sassi. Pochi giorni dopo, osservando la nonna, di origini contadine, mi accorsi che non solo raccoglieva alcune parti delle stesse piante, ma che le stava utilizzando per preparare il pranzo. Da quel giorno raccogliere vegetali è entrato a far parte della mia quotidianità.
Crescendo ho semplicemente fatto collimare le mie esperienze di giovane raccoglitrice negli studi e nella mia attività di guida in montagna, dedicandomi a un continuo approfondimento delle scienze alimurgiche e pensando con convinzione che quello era il lavoro che volevo fare: qualcosa che in primo luogo potesse essere considerato utile per il pianeta e che, inoltre, appassionasse il mio spirito ogni giorno nel profondo.

Guardo sempre con gratitudine al giorno in cui l’amore per la foresta e il suo sapore hanno aperto la porta a un mondo dove esplorazione, antropologia, identità culturale, geografia, botanica, tutela ambientale, gastronomia e scienza collimano in un insieme ragionevole, necessario, entusiasmante ed estremamente attuale.

Quando si sperimenta l’utilizzo e la conservazione del cibo selvatico disponibile sul pianeta si sta comunicando la propria visione, il proprio intento di salvaguardia ambientale.

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