di Giorgio Giua, racconto pubblicato sul libro Giorni Diversi
Ferragosto 2002: è uno di quei pigri pomeriggi leonessani in cui, dopo le abbondanti libagioni, fa piacere starsene a leggere un buon libro all’ombra di un alberello. Sento in lontananza gli schiamazzi dei ragazzi che, riuniti in bande di tutte le età, scorrazzano in bicicletta nel giardino condominiale o gozzovigliano in giro ascoltando musica e raccontandosi aneddoti; i più grandi, appartati, fumano le prime sigarette.
Sono il loro beniamino, l’unico genitore che li accompagna in montagna e uno dei pochi che li guida in bicicletta sugli sterrati con discese mozzafiato. I genitori me li affidano ed io, pur consapevole dei rischi legali a cui vado incontro in caso di guai, non mi tiro indietro.
Sto bene con i ragazzi, sono semplici, se una cosa gli piace sono subito entusiasti, mentre se una cosa non gli piace te lo dicono senza tanti giri di parole. Mi sono conquistato la loro fiducia in anni di Terminillo, cresta di Sassetelli compresa, e di bagni alle piscine naturali di Rocca Porena; oppure nelle discese infangate tra Leonessa e Monteleone di Spoleto, riparando al volo camere d’aria e aiutando i più piccoli nelle dure risalite sull’asfalto. I più grandi li ho accompagnati anche alla vetta orientale del Corno Grande e, da allora, mi cercano sempre per le attività sportive.
Mentre sonnecchio con il libro che mi casca dalle mani, un gruppo nutrito di costoro mi si piazza davanti: “Papà” dice Luca, 14 anni “ci manca un difensore per la partita di questa sera; siamo nove”.
“Ragazzi” ribatto io “lo sapete che non so giocare a pallone, chiedete a qualcuno con i piedi buoni, io sto facendo la siesta, ma possibile che non c’è un altro ragazzino che viene a giocare?”
“Papà” rincara la dose Lorenzo, 11 anni “abbiamo chiesto a tutti; molti sono andati a pranzo fuori per Ferragosto, altri sono infortunati, non viene nessuno. Sei la nostra unica speranza”.
“A Giò, vieni dai, tanto è solo un’oretta a calcetto, non è faticoso come sul campo da calcio; abbiamo già prenotato il campo per le sette” mi incalza ancora il leader del gruppo, un ragazzo che poi diventerà calciatore professionista.
Ripenso terrorizzato a tutte le mie esperienze di calcio precedenti, a partire da ragazzino, quando dovevo subire l’umiliazione di essere scelto puntualmente per ultimo nel momento in cui i due capisquadra facevano a pari e dispari per accaparrarsi i giocatori migliori. Oppure alla caviglia distorta da grande, atterrando male dopo un salto per aver cercato di prendere la palla di testa. Lo so, il calcio non è per me; in generale tutti i giochi con la palla mi riescono male, devo avere qualche problema di coordinamento. Però corro benino e ho una buona resistenza; inoltre sono il loro beniamino, non li posso deludere. Le mie proteste si fanno più deboli e alla fine accetto.
Quando inizia la partita non fa più tanto caldo, il sole sta tramontando dietro le montagne verso Terni e la brezza di ponente asciuga che è una meraviglia. Finisco in squadra con Luca, mentre Lorenzo, il più piccolo di tutti, finisce in porta dall’altra parte. È la dura legge del calcio e delle comitive in generale. Se sei più piccolo e vuoi giocare con i più grandi, devi fare quello che dicono loro; punto e basta.
Per la prima mezz’ora non tocco palla; è sorprendente ammirare dei ragazzini di 12 o 13 anni, ai quali pochi anni prima ho insegnato ad affrontare in bici le sterrate, che mi fanno i giri intorno con il pallone: stoppano, fintano, allungano e tirano; mi fanno ammattire e non faccio altro che correre su e giù per il campetto come uno scemo. I miei compagni di squadra saggiamente tendono a non passarmi la palla e agli avversari non sono capace di toglierla. “Sono veramente negato per questo sport, ma che ci sono venuto a fare?”, rimugino sempre più tetro.
Poi la musica cambia; i ragazzi più cicciottelli cominciano ad essere stanchi e si fermano a bere, gli altri resistono, ma non hanno la stessa brillantezza di prima. I più bravi si fermano davanti alla porta avversaria in attesa del passaggio giusto per il “colpaccio all’incrocio dei pali”.
È il mio momento: non solo non sono stanco, ma sono anche arrabbiato per la mia performance mediocre e ho voglia di riscatto.
Ed ecco il miracolo: una palla mi casca davanti ai piedi lentamente, ad un velocità tale che riesco a stopparla senza fare pasticci, e davanti non ho nessuno a difenderla; per cui allungo e scatto in avanti, supero facilmente sulla fascia due bambini cotti di fatica e mi trovo a pochi metri dalla porta con Lorenzo, ultimo difensore, solo a proteggerla.
Sono molto veloce e non posso essere così scarso da non riuscire a mandare il pallone in rete; Lorenzo è così magro che riesce a coprire una porzione veramente piccola della porta. Già gongolo al pensiero di riuscire a fare almeno un goal dopo 40 minuti di agonia.
Ma il mio bambino è un folle: con un coraggio da leoni, per nulla coerente con il suo carattere morigerato, mi si butta in mezzo ai piedi come un adulto, portiere consumato! Mentre sto per calciare la palla vedo il suo viso davanti al mio piede. Con l’istinto del genitore, faccio un balzo con l’altro piede per scavalcarlo e riesco a sorvolarlo, sento le sue mani che sfiorano la mia scarpa, ma è salvo.
Cado a terra con la spalla sinistra, struscio il mento e lo zigomo sul sintetico verde, ma non mi fanno male; è la spalla che non va: mentre provo a rialzarmi ho un mancamento e devo rimanere seduto a terra. Si vede che è più bassa dell’altra e mi fa un male cane.
Qualcuno mi accompagna al pronto soccorso e il medico di guardia mi dice che si tratta di una lussazione. Mi dà un antidolorifico e mi consiglia di andare all’ospedale di Amatrice o di Rieti. La “lussazione” mi sembra meno grave della “frattura” o della “distorsione” e forse, complice l’antidolorifico, mi tranquillizzo in merito ai danni che mi sono procurato a causa di una stupida partita a calcetto con i miei figli.
Ma solo all’una di notte, dopo ore di tribolazione al reparto di radiologia di Amatrice e altre ore di attesa al pronto soccorso di Rieti, mi viene dato il responso definitivo: “Lei ha una lussazione acromion-claveare di terzo grado. Significa che si sono strappati completamente i due legamenti che tengono la clavicola attaccata alla scapola e che il legamento che unisce l’acromion alla testa della clavicola è completamente sfilacciato. La dobbiamo operare d’urgenza”, mi dice l’ortopedico.
Così senza “se” e senza “ma”, mi ritrovo sul lettino della sala operatoria ad affrontare l’operazione più complicata della mia vita, tra l’altro
in anestesia parziale: “Tanto la totale non serve” dice il chirurgo. E mentre lo sento che sferruzza intorno alla mia spalla, rimango di stucco quando dice all’assistente: “Passami il trapano che gli devo fare il buco per allineare acromion e clavicola; ci dovrebbe essere anche un chiodo da 12 sul tavolo da qualche parte”.
Ma ancora più agghiacciante è il puzzo di carne bruciata che sento quando il trapano comincia a fare il suo lavoro.
“Il calcio è proprio uno sport di m…da”, rifletto abbandonandomi alla disperazione più cupa.