Gervasutti sul Monte Bianco

di Alessandro Gogna
(a 75 anni dalla morte)

Giusto Gervasutti, nato a Cervignano del Friuli il 17 aprile 1909, compie le prime esperienze alpinistiche nelle Dolomiti, quindi su un terreno estremamente diverso da quello cui era destinato, cioè le grandi salite di stampo occidentale. Ma questa sua formazione gli servirà tantissimo, anzi contraddistinguerà proprio il suo modo di agire sulle montagne più alte, alla ricerca delle pareti più poderose. Le difficoltà che aveva imparato a padroneggiare sul terreno puramente roccioso delle Dolomiti gli permettono di risolvere con grande efficienza i problemi ancora insoluti ed evidenti del Monte Bianco e del Massif des Écrins (Delfinato). Con lui, si può dire, nasce l’alpinismo moderno: con la fusione della corrente dolomitica e di quella occidentale, divise precedentemente da polemiche assurde tese a negare l’una il valore dell’altra.

Giusto e Valentino (padre) Gervasutti

«A Torino si era stabilito nel 1931 e aveva subito cercato contatti con alpinisti della sua età. Chabod l’aveva preso in esame e condotto alla palestra, da poco “lanciata”, dei Tre Denti di Cumiana. Sulla prima placca, poco ripida, ma fornita d’appigli irrisori, il candidato s’era innalzato d’un paio di metri, convinto di trovare i buchi che nel calcare permettono di salire su inclinazioni ben più esposte, poi li aveva riscivolati fino in fondo. Aveva sbuffato un po’ col naso, come faceva spesso, poi ci si era rimesso, e fu chiaro che aveva subito capito la situazione (Massimo Mila)».

Già nel 1931 Giusto assaggia la grande montagna proprio sul Monte Bianco, quando sale il trittico Aiguille Verte-Grépon-Dru, vie normali sulle quali sperimenta tutto il catalogo delle piacevolezze dell’alta quota con le immancabili bufere.

Nell’estate 1932, Gervasutti continua il suo “apprendistato”: con Gabriele Boccalatte e Renato Chabod traversa l’Aiguille Verte, salendo per il Canalone Mummery (sesta ascensione) e scendendo per il Canalone Whymper. Il brutto tempo continuato lo convince a spostarsi in Dolomiti.

Gervasutti in vetta alla Dent du Requin

Nell’estate 1933, realizza due imprese di rilievo con Piero Zanetti. Anzitutto la prima ripetizione della cresta sud dell’Aiguille Noire de Peutérey, allora considerata il massimo su roccia nel gruppo del Bianco: la via era stata aperta tre anni prima dai tedeschi Karl Brendel e Hermann Schaller, i grandi campioni di mentalità orientale che così avevano esportato per primi nel Monte Bianco tecniche e mentalità dolomitiche. In seguito, ecco il grande tentativo interrotto dal maltempo sul grande problema dell’epoca: la parete nord delle Grandes Jorasses. Intuisce che, se la muraglia ha un punto debole, questo è in corrispondenza dello Sperone della Punta Croz. Un tentativo che non è un’esplorazione: c’è la decisa volontà di salire. E ciò è tanto più stupefacente se pensiamo che avviene dopo solo due anni di esperienze personali nel Bianco e ben tre anni prima che a Rudolf Peters e Martin Meier arridesse la vittoria su quello sperone. Questo la dice lunga sull’ambizione, ma anche sulla lungimiranza del nostro.

Da sinistra, Giusto Gervasutti, Loulou Boulaz, Raymond Lambert e Renato Chabod, luglio 1935, dopo la seconda ascensione dello sperone Croz alle Grandes Jorasses

Nel 1934 ritorna ancora senza esito positivo sulla Nord delle Jorasses, dove ormai è iniziata quella che il suo compagno Chabod chiamerà la “Corsa alle Jorasses”. I due si consolano poco dopo salendo in prima ascensione il Canalone nord-est del Mont Blanc du Tacul (oggi Canalone Gervasutti), anticipata dalla prima salita del Canalone ovest della Tour Ronde.

Nel 1935 la corsa alle Jorasses si conclude grazie alla vittoria dopo due giorni di lotta di Peters e Meier. Molto sportivamente Gervasutti e Chabod, giunti due giorni dopo, attaccano l’itinerario e ne effettuano con un bivacco la seconda ascensione assieme agli svizzeri Raymond Lambert e Loulou Boulaz.

Segue la prima ascensione assoluta (con Chabod, Boccalatte e Ninì Pietrasanta) del Pic Adolphe, per lo spigolo ovest. Da questa vetta appare in tutto il suo splendore il vicino Pilier del Mont Blanc du Tacul, quello che gli sarà fatale: lo tenta con Luigi Binaghi; poi, con Mario Piolti e Michele Rivero, fa la terza ascensione della Cresta des Hirondelles alle Jorasses: da lì Giusto vede assai da vicino la parete est e se ne innamora.

Gervasutti e Bollini, 14 agosto 1940, di ritorno dal Pilone di Destra del Frêney, al rifugio Gonella

Nel 1937 effettua la terza ascensione della parete nord del Petit Dru. Poi intraprende con Leo Dubosc il primissimo tentativo alla Est delle Jorasses, dove però per un errore d’itinerario sul ghiacciaio non riesce neppure a toccare roccia. Prezioso insegnamento per quando invece, anni dopo, ritenterà e poi infine salirà quella parete.

Il 1938 è l’anno delle ultime grandi vittorie sulle pareti nord più difficili delle Alpi. Dopo la salita dei fratelli Schmid alla Nord del Cervino (1931) e dopo lo Sperone Croz delle Grandes Jorasses, rimanevano ancora da risolvere la parete nord dell’Eiger e lo Sperone della Walker alle Jorasses. Entrambe cadono in quell’anno, frustrando perciò le ambizioni di Gervasutti.

4 agosto 1940. Da sinistra, Riccardo Cassin, Paolo Bollini, Giusto Gervasutti, Aldo Frattini e Molinato. Gervasutti e Bollini sono reduci dal Pilone di Destra del Frêney. Gli altri dall’Innominata.

Nel pieno dell’estate però (17-18 agosto), a Giusto è concessa una degna rivincita: la parete sud-ovest del Picco Gugliermina, un appicco di 700 metri che si erge a spalla dell’Aiguille Blanche e a contraltare della possente e slanciata parete ovest dell’Aiguille Noire de Peutérey, entrambi precipiti sul tormentato Ghiacciaio del Frêney. Per quest’impresa, assai temuta, si uniscono in cordata quelli che sono i massimi campioni dell’alpinismo piemontese di quegli anni, appunto Gervasutti e Boccalatte. La bellezza del loro itinerario si impone ancora oggi, con una linea assai elegante e grande purezza di arrampicata libera.

Nel 1940, dopo una sua seconda salita della cresta sud dell’Aiguille Noire, si avventura con il giovanissimo compagno Paolo Bollini sul Pilone di Destra del Frêney, quello a destra appunto del Pilone Centrale, la cui salita costò tante perdite umane nella tragedia del 1961 di Walter Bonatti e compagni. Salendo quel pilastro (che giustamente in seguito verrà chiamato Pilone Gervasutti), il Fortissimo pone rimedio alla scherzosa, non si sa fino a che punto, presa in giro degli amici che gli rinfacciano di non aver mai calcato la vetta del Monte Bianco. Ebbene, lui lo fa, aprendo però un itinerario di una grandiosità quasi incomparabile e nello stile che gli era più congeniale: in giornata (13 agosto) e in arrampicata libera. L’attività del 1940 si conclude con un altro sfortunato tentativo (sempre con Bollini) alla Est delle Jorasses: la partita è ormai aperta, è solo rinviata.

Infatti tutto il 1942 è fondamentalmente incentrato sull’ascensione della Est delle Jorasses: dopo una serie di tentativi e di ritirate, il 16 e 17 agosto Gervasutti e Giuseppe Gagliardone realizzano la vittoria finale.

E’ questa probabilmente la sua impresa più compiuta e certamente quella che maggiormente aveva esaltato la sua fantasia: la parete est delle Grandes Jorasses, difficile, selvaggia e remota, forse la meta ideale dei suoi sogni e delle sue aspirazioni. Una curiosità: nei suoi appunti, questa via è l’unica che egli valuta indiscutibilmente di VI grado. Non sappiamo però se tale giudizio Giusto l’abbia dato per le difficoltà dei più difficili passaggi in libera o invece per quei tratti in cui è ricorso all’arrampicata artificiale con chiodi e staffe, quella che a quel tempo nell’immaginario collettivo rappresentava il sesto grado. Di questo equivoco si fece chiarezza definitiva solo la bellezza di un quarto di secolo dopo! Ma, VI o non VI, la Est delle Jorasses è considerata dai più il capolavoro alpinistico di Gervasutti.

Nei disagi della guerra e nelle traversie del suo lavoro, nel 1943 riesce comunque a concedersi di salire per la terza volta la Sud dell’Aiguille Noire e di ripetere anche la Cresta nord-ovest dell’Aiguille de Leschaux: in discesa da questa vetta si fa sorprendere da una piccola slavina che lo trascina in un crepaccio. Ne esce con lievi danni alle ginocchia.

Gervasutti sulla Est delle Grandes Jorasses

Anche il 1944 non può essere un anno di intensa attività alpinistica, ma, ciò nonostante, Gervasutti realizza una traversata completa dell’Arête du Diable al Mont Blanc du Tacul e la salita della Cresta Kuffner al Mont Maudit terminata con la successiva salita alla vetta del Monte Bianco e soprattutto la prima ascensione (con Gigi Panei) del Pic Adolphe per una breve via ma molto difficile sulla parete sud-est, ancora oggi assai temuta per i numerosi passaggi assai rudi e atletici di VI grado.

E arriviamo così al 1946, con la fine della guerra un’esplosione di grandi successi. Dapprima eccolo sul Trident du Tacul, via Lepiney con l’apertura di una breve variante (compagno Andrea Filippi); poi sul Grand Capucin (terza ascensione assoluta, con Giulio Salomone, per la gloriosa via di Adolphe Rey); poi ancora la via Crétier al Mont Maudit (seconda ascensione, con Paolo Bollini); la terza ascensione del Pilier Boccalatte al Mont Blanc du Tacul, ancora con Bollini); Petit Capucin, prima ascensione della parete est (con Gagliardone e Carlo Antoldi), realizzata il 16 agosto, cioè esattamente un mese prima dell’incidente fatale al Tacul nel tentativo di salire il grande pilastro che vinsero poi cinque anni dopo i torinesi Piero Fornelli e Giovanni Mauro.

Gervasutti pochi mesi prima dell’incidente mortale. Foto: Fondo Andrea Filippi.

La quasi inattività forzata del periodo bellico e la generale disattenzione di tutti in quel periodo verso le vicende alpinistiche non gli fecero probabilmente gustare fino in fondo quanto di meraviglioso aveva realizzato. Neppure il suo libro Scalate nelle Alpi, da poco pubblicato a guerra appena terminata, gli serve per distrarsi almeno un poco dalla sua determinazione. Il pilone est-nord-est del Mont Blanc du Tacul è certamente una meta di valore, che ancora una volta gli promette quella lotta alpinistica di cui non può fare più a meno. Non lo soddisfano di certo le salite dell’inizio stagione che abbiamo appena elencate, abbiamo motivo di pensare che non riesca a ritrovare, riconciliandosi con se stesso, quella pace interiore che aveva conosciuto forse solo nella prima infanzia, a giudicare almeno da un’attenta lettura del suo libro, peraltro bellissimo e in seguito ristampato più e più volte. La sua tragica corsa si concluse dunque il 16 settembre 1946 nel tentativo di scalare quello splendido pilastro di granito rosso. Come spesso accade, un banale errore mentre rimediava a una corda doppia problematica gli costa la vita. Gagliardone, il valoroso compagno sulla Est delle Grandes Jorasses, non può che assistere impotente alla scena senza poter far nulla. Nella caduta, Gervasutti trascina con sé le corde, così il compagno deve scendere slegato tutto il pilastro salito fino a lì, fino a unirsi alla squadra di salvataggio.

Di lui lo storico Gian Piero Motti scrisse: “Gervasutti fu ideatore e ricercatore di nuovi problemi, che trovavano forma concreta dopo esser stati a lungo elaborati nella sua fantasia. Romantico, sognatore, teso esasperatamente al raggiungimento di mete ideali irraggiungibili, Gervasutti non fu certo un uomo dal carattere facile e nemmeno un uomo felice e soddisfatto. Era divorato dal fuoco dell’azione eroica e sublime, viveva nel costante disprezzo della normalità e della vita dei comuni mortali, vissuta nella quotidianità. Era costantemente alla ricerca del bello, del nobile e del sublime: l’azione non era che un mezzo per soddisfare, almeno in parte, la sua sete di infinito.

In un circolo chiuso in cui la contemplazione serviva da molla per l’azione nel raggiungimento di una meta ideale insoddisfacente che riportava alla contemplazione, la morte può apparire come la conclusione più logica e scontata. Alla luce della moderna psicologia Gervasutti era affetto da un notevole conflitto nevrotico che giustifica ampiamente il suo rifiuto del sociale, un certo misoginismo, il timore della vecchiaia, della normalità e della decadenza fisica, la costante e lacerante insoddisfazione con la relativa coercizione ad un continuo autosuperamento, la notevole dose di narcisismo evidenziata dal culto del proprio fisico e dal timore della debolezza e infine lo sviluppo inconscio di un desiderio di morte, posto al termine della nostra analisi ma certo causa prima di tutto del formarsi di una personalità”.

Queste parole possono suonare dure, perfino impietose. Sono però espressione della più pura ricerca della verità e delle motivazioni che fanno da base alle grandi azioni storiche, nel riconoscimento profondo che un tale giudizio si possa con facilità riversare su qualunque appassionato di alpinismo, indipendentemente dal livello da questi praticato. Posso infatti garantire personalmente che Motti era un ammiratore sconfinato di Gervasutti, l’eroe alpinistico per eccellenza dei suoi anni migliori. Lo sottolinea la stessa impresa più grandiosa di Motti, la prima ascensione solitaria nel 1969 proprio di quel Pilier che aveva visto la morte del suo mito.

Di Giusto si sono occupati anche altri studiosi d’alpinismo, tra i quali non possiamo non citare Massimo Mila, Enrico Camanni e di certo Carlo Crovella, oggi forse il più accreditato “biografo” del grande Gervasutti.

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