Presentazione di Il mare davanti-storia di Tsegehans Weldeslassie, di Erminia Dell’Oro, Pickwick, 2016, euro 9,90.
In questo libro la scrittrice Erminia Dell’Oro, nata in Eritrea da famiglia italiana e vissuta per molto tempo ad Asmara, racconta la storia di Tsegehans Weldeslassie, Ziggy per gli amici, un profugo eritreo che alla fine ha trovato in Italia il posto dove finalmente poter esercitare il suo diritto alla libertà. La testimonianza del protagonista non poteva essere raccolta meglio di così, con la sensibilità che può avere solo chi ha vissuto in quei luoghi e ne conosce bene la gente.
Prima per anni è stato ostaggio di una guerra dimenticata del suo paese, l’Eritrea, contro l’oppressore etiope, il tristemente famoso colonnello Hailé Mariàm Menghistu, supportato dall’Unione Sovietica; in seguito, con il crollo di questa, venne meno il suo aiuto militare e finalmente l’Eritrea poté dichiarare nel 1991 l’indipendenza. Sembrava l’inizio di un’era felice, invece la dittatura del presidente Isaias Afelwerki portò presto il paese di nuovo in guerra, ancora con l’Etiopia, ma questa volta la disputa era sui confini.
Ziggy, dopo essersi laureato in matematica, come tutti i suoi coetanei viene destinato a uno dei campi militari che si trovano in Eritrea. Non ha scelta, per la dittatura infatti è un incarico obbligatorio e a tempo indeterminato, chi lo rifiuta finisce in prigione come disertore. Ziggy però non ci sta. Non vuole rinunciare al suo futuro e sceglie la strada più incerta e pericolosa: la fuga verso l’Europa. Che intraprende infatti dopo un atroce periodo di detenzione che segue a una lunga e paurosa clandestinità nella propria patria.
Il viaggio, attraverso il Sudan e la Libia, fino a Lampedusa, come ormai sappiamo dalle cronache, si confermò anche per Ziggy quell’odissea moderna di atrocità e di sofferenze in cui migliaia e migliaia di Ulisse hanno tante probabilità di non farcela e di certo non si coprono mai di gloria. Nessun Omero ha ancora cantato le loro gesta oscure e dimenticate, nel disinteresse europeo che si commuove solo quando vede il corpo esamine di un bimbo su una spiaggia. Nei propri meschini timori, nessuno di noi accetta realmente, come scrive Vincenzo Consolo, che “sono sempre i fuggiaschi a creare nazioni e culture”.
Ovviamente Ziggy non poteva, e di certo non lo ha fatto almeno fino all’uscita del libro ormai sette anni fa, ritornare in patria a riabbracciare i pochi amici sopravvissuti e i tanto amati genitori. La paura colpisce lontano, la paura anche di ritorsione su coloro che sono rimasti: il nome del presidente nel testo non è mai neppure citato.
Il racconto è in prima persona, come fosse autobiografico: una scelta precisa e azzeccata a mio avviso. Perché la terza persona non avrebbe potuto rendere l’intimità di cui è pervasa l’intera vicenda.
Non voglio qui anticipare nulla di quanto potete leggere. Mi limito a mostrare, con brevi citazioni, quanto il racconto sia corale, come in una tragedia greca, e il focus non sia mai l’individuo Ziggy, bensì il popolo cui appartiene. Una sofferenza collettiva che per puro caso ci è raccontata da un singolo.
Qui la parola “io” non ha mai avuto e non ha il significato cui ormai siamo abituati nella nostra civiltà. Qui oggi sono tanti piccoli “io” trattati come numeri, classificati con codice fiscale, con un incombente ulteriore greenpass e con l’inserimento nei giganteschi database di Google, ormai così potenti da influenzare le masse sbandierando finte libertà. Làggiù la parola “io” serve solo di sfuggita a indicare qualche vicenda personale, “io” è solo un pronome che si fa carico, nelle gioie come nelle tragedie, nelle piccole come nelle grandi cose, delle emozioni di un gruppo, di una famiglia, di un popolo che vive, giorno per giorno, nel futuro più incerto che ci sia.
Leggete attentamente, e ne converrete.
Quando Ziggy, nella propria miseria del viaggio nel deserto, osserva i trafficanti e, invece di commiserarsi, si chiede “guardando quei volti bruciati dal sole, quali drammi o miserie li avessero portati a un lavoro, se lavoro si poteva chiamare, così degradante, dove l’uomo per loro era soltanto una merce”.
Quando, arrivato in Italia, considera: “la maggior parte di noi veniva dall’Eritrea, sapevamo che l’Italia aveva colonizzato il nostro paese, e che molti italiani ci erano rimasti per quasi un secolo, Asmara era stata costruita da loro. ma nessuno ci guardava come se sapessero dove fosse il nostro paese, eravamo africani uguali a tutti gli altri, un paese o l’altro era lo stesso, tutti profughi che cercavano aiuto”.
E, nella delusione, denuncia: “Un’umanità sofferente affollava lo spazio in cui ci portarono, uno spazio che sembrava una grande gabbia… […] Noi eritrei cercavamo di stare vicini, vicini con la nostra storia, con la nostra lingua. Eravamo una piccola Eritrea trasferita oltre il mare, tutti uniti dallo stesso senso di appartenenza al paese che eravamo stati costretti a lasciare, e dall’inestinguibile forza della speranza”.
Poi ci confida, alla notizia di due naufragi vicino a Lampedusa avvenuti nei giorni seguenti al suo arrivo: “Quella notte non riuscii a non pensare alle barche affondate, agli uomini, alle donne, ai bambini che, dopo essere riusciti a sopravvivere ai deserti e ai trafficanti di uomini, erano morti in quel mare finalmente raggiunto. […] ”Nei pochi attimi tra il sonno e la veglia vidi il fondo sabbioso del mare e una danza di piante marine attraversate dalle correnti. Tra le piante gli sguardi stupiti, quasi increduli, di chi aveva smarrito la vita. […] ”Mi svegliai e pensai al sogno, ricordando che dopo la liberazione dell’Eritrea, una sera io ed Henok eravamo andati a vedere il lungo corteo di donne sul viale fiancheggiato da palme. C’erano anche le nostre madri. Ogni donna aveva in mano una candela, e ogni fiamma era l’anima di un combattente morto per la libertà”.
Mentre dorme, a Milano, nei pressi della stazione ferroviaria, sente qualcuno che passa e se ne lamenta con fastidio. Lui si concede un leggero rimprovero e scrive: “Loro una casa l’avevano, era facile buttare al vento quelle poche parole e non riflettere. Ma riflettere vuole dire anche affrontare la propria coscienza, che non sempre è al suo posto”.
In attesa di salire di nascosto su un camion che l’avrebbe portato attraverso il tunnel oltre la Manica, riassume sinteticamente: “Eritrei, etiopi, sudanesi, somali, afghani, iracheni, kurdi, il popolo dei senza terra in fuga da un confine all’altro, portandosi dietro dolorose esperienze e vacillanti speranze. Io ero uno di loro”.
Il lettore pian piano è preso per mano e portato, attraverso il dolore altrui, a dimenticarsi, anche solo per un attimo del proprio “io”, inflazionato da piccoli desideri quanto realmente insignificante perché slegato dalle vere emozioni che solo la relazione con gli altri sa dare: ignaro d’essere solo un numero nel mare del consumo.
Allora anche noi, per un momento, possiamo “chiudere gli occhi la sera e pensare al cimitero che abbiamo dentro”.