di Smaranda Chifu
(pubblicato su Insalita in data 09 novembre 2019)
“Questo lo fai a vista, ti giuro”, me l’aveva detto Ale, ma ancora lo conoscevo poco. Col tempo poi ho capito che quello che lui fa a vista io lo chiudo al quarto giro, se va bene, quello che io faccio serenamente lui mi guarda e mi dice “tu sei pazza”. Ale è un maschio atipico, è un maschio tecnico, è uno da placca. Uno di quelli che infatti in giro abbiamo sempre fatto le vie a tiri alterni, sì, l’alternato studiato, io quelli da ravanare e arrivare in sosta, lui quelli dove bisogna scalare davvero.
Bè, era l’inverno scorso, non mi ricordo nemmeno bene che punto dell’inverno. Eravamo andati in Stoppani, una falesia lecchese esclusivamente invernale: ci va quella mezz’oretta di avvicinamento, è esposta in pieno sole quindi deve proprio fare fresco per andarci, ha tanti tiri, è proprio bella. Un’opera d’arte del buon Delfino Formenti, una delle sue tante opere d’arte!
Me lo ricordo bene quel giorno invernale, eravamo un bel gruppetto come quasi sempre in falesia. Ero partita su un tiro con un passo in leggero strapiombo che non riuscivo a fare, l’avevo riprovato un numero sufficiente di volte da farmi sentire frustrata e poi l’avevo mollato lì, piuttosto delusa. Poi Ale mi disse “questo lo fai a vista, ti giuro”, questo era un tiro in placca, continuo su movimenti di piedi, di quei tiri che se sbagli un movimento è entropia pura, tempo 6 secondi ti ritrovi tutto al contrario di come dovresti essere, sembri un quadro di Picasso, incrodato come Aldo “non posso più nè scendere nè salire” e se sei 10 cm sopra lo spit scatta il “blocca”, io mi ero trovata 5 cm sotto lo spit, fiduciosa bambina che ancora credeva nei miracoli e negli unicorni, sotto forma di quadro di Picasso presi bracciate di corda in mano, manco dovessi prendere al lazo le mucche in Texas, poi perché quest’abitudine tutti oh, metri di corda in mano quando devi rinviare, crepi l’avarizia, 2 metri fuori dallo spit, due bracciate in mano, il quadro di Picasso su roccia (io) si ritrovò in men che non si dica 5-6 metri più in basso con una balta di quelle da manuale, rinviando. Picchiai leggermente il polso cadendo e la giornata finì così, stampando la relazione della falesia e basta. In realtà dietro le quinte di questa cosa c’è il fatto che scalavo da una manciata di mesi appena, bè dai, ora sono una manciata abbondante, scalavo malissimo, ora solo male, pensavo fosse impossibile migliorare, ora sono solo consapevole che è uno sbattimeno infinito, non devi bere birrette, devi soffrire, fare le trazioni al trave nel van dopo aver fatto Freerider su El Cap in free solo, mangiare spinaci come Popeye e ti deve anche un po’ fare schifo qualsiasi cosa divertente nella vita. Ecco, descritta così, l’arrampicata sembra fare cagare, infatti è così. Mi sto perdendo, non so perché l’ho detto, non sto avvalorando la mia tesi, però oh, a molti piace. A me pure. Ho il cervello in blackout, vabbè, dicevamo?
Dicevamo che me ne andai proprio triste dalla falesia, come una bambina col sogno infranto, Babbo Natale che non esiste, gli unicorni nemmeno, quel tiro mi sembrò impossibile e la giornata proprio brutta.
È passata l’estate, in Stoppani non ci siamo più andati ovviamente, sono cambiate tante cose. Sì, magari faccio meno schifo a scalare, ma di poco, credo che il cambiamento più importante che è avvenuto è che mi sono accorta che davvero, davvero mi piace un sacco questo sport di merda. Mi piace farlo soprattutto in montagna, mi piace l’affinità di cordata, l’ignoto, l’avventura, i bivacchi, quella sensazione che it’s been 84 years e sono passati appena due giorni, l’agghiacciante, le risate isteriche in parete, quelle non isteriche, il silenzio, le linee belle, le ravante brutte, l’impossibile (il mio impossibile), i sogni. Mi’ nonna direbbe che si vede che sono del cancro, che tradotto in gergo razionale significa che secondo mi’ nonna il modo in cui i pianeti erano allineati quando decisi di fracassare a tutti le palle arrivando al mondo influenzerebbe sul mio essere proprio una gran romanticona idealista sognatrice.
Ma comunque a me la falesia non dispiace affatto, alcune falesie poi sono dei capolavori, la Stoppani è uno spettacolo, ci siamo andati un anno dopo, in un sabato con la prima neve sulle creste del Resegone, la falesia è il bar dell’arrampicatore, non c’è avventura, non c’è eroismo, non c’è vetta, c’è meno cordata, c’è meno storia e c’è meno linea e soprattutto, non c’è proprio nessuna ragione. Sia chiaro, io faccio schifo in falesia. Anzi, rifacciamo: io faccio schifo, anche in falesia. Il grado di scaldo degli altri coincide coi miei progetti, riesco ad avere paura anche tra due spit appena. L’attenzione è tutta lì, sul gesto senza motivi, su quella tacca che non sei in grado di strizzare, su quel piede che non sai proprio dove mettere, solo quello straziante movimento atletico senza alcuna motivazione. Vorresti ci fosse una ragione che spiegasse perché stai cercando di spalmare la punta del piede su 1 cm di roccia stondata e fa sorridere quando sai che semplicemente, in falesia, la ragione è che non c’è nessuna ragione. La passione che ci metti è fine a sé stessa, non si conquista nulla, non si arriva su nessuna cima, non c’è magari nemmeno il panorama, solo un puzzle di movimenti.
Però un motivo l’ho trovato, le rarissime volte in cui ha funzionato, quando parti per un tiro e sei così assorto da quel gesto che finalmente non pensi agli spit, non pensi a cosa succede a terra, quando riesci a ricordarti perfino il colore di quel cm di roccia che prima non vedevi, quando il gesto ne antecede un altro e insieme semplicemente sembrano scorrere, quelle rarissime volte che nemmeno capisci come hai fatto a fare fatica prima, ecco, quelle rarissime volte lì sono un fiume verso l’alto, un puzzle risolto, una gioia senza nessun altro fine o motivo, si torna bambini, una tacca improvvisamente buona, il click finale che non ti porta da nessuna parte ma semplicemente è bello, ti piace, una giornata con gli amici, una giornata leggera, la pace, il gioco. Quando ci credo e mi calmo, funziona sempre. Dovrei ricordarmelo, nella vita dico, l’ho imparato arrampicando e dovrei ricordarmelo nella vita, quando ci credo e mi calmo, funziona sempre.
Bhè, quel tiro in placca io a vista non l’ho fatto, ci siamo proprio incontrati una manciata di volte, ci siamo studiati bene, quel piede che quando finalmente l’ho caricato mi è sembrato un movimento spettacolare e alla fine in catena questa volta ci sono arrivata. E come sempre, dopo, sembra quasi facile. Quel tiro poi la sezione dura ce l’ha in mezzo e la sensazione più buffa l’ho provata quando l’ho superata, consapevole che se non avessi fatto cavolate, da lì in catena mancavano i metri della goduria e quasi quasi, sotto sotto, quasi dispiace. Perché il bello del gesto, della sua meravigliosa inutilità, è che è bello sognarlo, maledirlo, poi quando finalmente il piede sta davvero su e la mano trova davvero la tacca perfetta, è come una bolla di sapone che esplode.
Puff.
Un mix di felicità e tristezza, volevo che durasse per sempre, che bella sensazione.
Un gioco. Che poi m’immagino, visto dall’esterno questo gioco, tipo mi’ nonna sempre, “Cos’è che fai? Ma in che senso t’arrampichi su un pezzo di roccia? Ma perché lo devi fare? Ma cosa sei studiata a fare? Ma hai mangiato?”.
PS: volutamente non dichiarerò nome, grado e identità di nessuno dei tiri maltrattati e coinvolti in questo racconto, perché davvero, chisseneffrega.
Sì vabbè dai, anche un po’ per dignità.