Cercando le michètte

di Alessandra Panvini Rosati

Mi chiamo Stephen, Steve per gli amici e per chi non riesce a pronunciare il ph. Sono di Bristol, United Kingdom. Mi trovo in Italia per il programma Erasmus, presso il Politecnico di Milano.

Mi chiederete perché abbia scelto proprio Milano che, almeno sulla carta, non è tra le mete più attraenti.

Il motivo è affettivo, calcisticamente parlando: mio padre è un tifoso dei”Pirates” ossia del Bristol Rovers ma, diciamocelo, non è una grande squadra. Così si è appassionato al campionato italiano seguendo principalmente il Milan e l’Inter.

Eccomi qua. Poteva andarmi peggio (Ternana?). Abito in un quartiere molto caratteristico che, per certi aspetti, mi ricorda la mia città, percorsa dal fiume Avon. Condivido un appartamento con due studenti italiani, a due passi dalla Darsena, zona Navigli.

Avevo cercato un po’ per Città Studi, piazza Leonardo, un appartamento che non mi facesse perdere troppo tempo negli spostamenti per recarmi al Politecnico ma quella è una zona troppo cara e non mi è piaciuta così tanto!

Invece i Navigli, da subito, mi hanno suscitato quel ”thrill” che non saprei come tradurre.

I miei coinquilini sono simpaticissimi, con loro mi trovo bene e m’insegnano un italiano decente.

A mia volta rendo loro il favore”teaching them a better English”. Adesso però mi trovo in un”big mess”.

Entrambi sono andati a trovare le loro famiglie (uno a Belluno, l’altro a Matera) per una breve vacanza con ritorno alle origini. Mi hanno chiesto di sostituirli nell’aiutare la Signora Elvira.

Spiegazione: Elvira è la nostra padrona di casa, una gentile persona (così pare, non l’ho mai vista fino ad oggi) che abita sul nostro stesso pianerottolo. Non so se abbia un marito, dei figli o nipoti.

Ci ha affittato l’appartamento a un prezzo davvero”cheap” e, in cambio, le diamo una mano a tenere pulita la ringhiera comune e a farle qualche commissione, come ad esempio la spesa, dato che cammina a fatica.
Dove sta il problema? I will be pleased to help her!
I miei amici sono andati via. Salutandomi dal cortile, mentre trascinavano rumorosamente i trolley sulle beole, sghignazzavano con un’espressione strana.
“Noi a volte non la capiamo. Magari tu ci riesci meglio!”.
E così ha inizio la mia adventure con Elvira.

Busso alla porta, viene ad aprirmi, mi fa accomodare. Ha un certo gusto minimal, strano per persone della sua età che a volte accumulano collezioni di ninnoli orribili. Non vedo le”buone cose di pessimo gusto” (citando un vostro poeta…) che riempiono le case delle old ladies di mezzo mondo.
“Venga venga, si accomodi. Da dove viene lei?”.
“Da Bristol”.
“Ah, dove si fa la carta?”.
“What? Bristol, città inglese, sul fiume Avon”.
“Ciumbia, inglès? Fate la carta e anche le creme?”.
“What?”.
“Va che l’era una battuta, neh?”.
“Of course… Luca e Antonio sono andati in vacanza; io sono a sua disposizione per aiutarla”.
“Bene bene, sei proprio un brau fioeu”.
“Fioeu?”.
“Sì, un bravo figliolo.
“Ah, ok… sa, suona un po’ come few, pensavo parlasse (straparlasse) inglese”.
“Fioeu, fioeu, va là che non sai pronunciare la ‘oeu’? Anca ti…!”.
“Mi scusi, che cosa dice? Ha dolori all’anca?”.
“Chi? Mì?”.
“Yes, you!”.
“Scusi giovinotto, ma io non capisco mica!”.
“Signora… si figuri io!”.
“Vabbeh, comunque per oggi il balcone l’è nét, però avrei bisogno della spesa”.
“Elvira, mi aiuti, che cosa vuol dire che il balcone è una rete?”.
“Rete? Ueh, ma te set ciuc?”.
“Nèt uguale pulito, uguale che l’ho pulito io me medesima ‘stamattina; olio di gomito e varda adess me l’è sberlusent! Sarò vecchia e malmustusa, ma ancora so dare due spazzate di scopa, va là! Dai, su, alùra, ciapi il bursìn per darti i danèe per farmi la spesa”.
“Oh my God”.
“Che cosa fai lì? Impalato? Sei mica il palo della Banda dell’Ortica!”.
“Elvira, io non capisco niente, ma che lingua sta parlando? Mi perdoni”.
“Uh Signur, un alter terùn, per giunta inglès! Potevi dirlo prima che eri come gli altri due? Ma la colpa l’è mia, nani. Mi parli el Milanés! El dialét de Milan! Ti ho detto di prendere su i soldi e andare a farmi la spesa.

E il palo dell’Ortica l’era un malnat che ci vedeva di notte come di giorno e fare il palo l’era minga il so mestè… devo averci il disco da qualche parte! Enzo, te set andà via anca tì…”.

Il mio pensiero corre a Luca e Antonio”. Bastardi… ma tornerete, eccome se tornerete!”.
“No problem signora e mi scusi, non mi hanno avvisato. E’ già tanto se capisco l’italiano!”.
“Ma sì, anch’io lo parlo, l’italiano. Ogni tanto la lingua mi scappa via verso il milanese, che l’è inscì bel! Se parli il milanese, ti esprimi in contemporanea in tre lingue: l’italiano, il francese e il tudesc! Il crucco, il tognino, il tedesco! Lo sai perché diciamo: ”Non ho un ghello” per significare che siamo al verde, senza una lira, ops… senza un euro? Te, come dici?”.
“Io direi: ‘Being without a penny’!”.

“Ecco, il ghello arriva da geld, che in crucco è il soldo. Qui avevamo gli austriaci! Josef Radetzky! Tutti i dialetti sono belli perché profumano l’anima di aria di casa e fanno sentire legati a qualcosa.  Quando ero bambina, era vietato parlare il dialetto. I miei genitori lo parlavano tra loro, con i figli si rivolgevano sempre e solo in italiano. Il fascismo, caro il mio giovinotto, voleva esaltare l’italianità. Oltre a non vedere di buon occhio i dialetti, represse anche le rivendicazioni dei cittadini di lingua francese in Val d’Aosta, di lingua tedesca nell’Alto Adige, di lingua slovena a Trieste. Tutto inutile. Il fascismo è morto, i dialetti no! Non si cancella un’identità con la forza e non si dimentica una lingua se è quella che ti ha cullato quando eri in fasce! Così, per restare in tema, ‘me ne frego’ e parlo il Milanese. Ciapa… ! So bene, va là, che adèss c’è l’internet, il gugl, le piattaforme digitali e tutti chi robb chi. Anca mì navighi nel computer. Un queicussurina riesco a fare col maus, il ctrl-alt-canc, tiro giù anche qualche sacramento! A mio parere, che conto come il due di picche, essere al passo con il mondo che cambia, non significa rimuovere il passato, bensì riuscire a far convivere tutto il rebelòt che ne salta fuori. Se so chi sono e da dove vengo, forse riesco ad andare da qualche parte… e già così è dura, mio caro giovinotto. Si è più alternativi a parlare in dialetto ormai, invece di riempirsi la bocca con l’inglese, pagament se t’el set gnanca parlàa… Già, ma tu lo sai perché sei un inglese vero! Chissà quante risate ti farai! Una volta si diceva ‘parla come mangi’. Se la cucina italiana è la più buona del mondo… mi farei un paio di domande. Ti farò la traduzione simultanea, come a quegli altri due pelabrocch. Che vuol dire brocchi, stupidotti, ma sto scherzando… neh? Ti do del tu, va ben?”.
“Sì, sì… grazie…”.
“Alura, tirem innanz, tiriamo avanti: se vai a farmi la spesa ti invito a cena, che te set magher impicaa!”.
“Cioè?”.
“Ma sì, magro, impiccato…”.
“Ah, ok”.
“Alura, prendi la biro e scrivi: riso, buter…”
“Alt, questo è quasi inglese? Burro vero?”.
“Bravo! Burro, che qui al nord si usa il burro! E ch’el vada a dà via i ciapp el colesterolo! Quindi, riso, burro, erburin… ops… prezzemolo, poi mi serve un pulaster, un pollo, che lo facciamo arrosto o con la pucia, te pias? Per finire, un po’ di frutta! Ti piacciono i magiuster?”.
“Oh my God!”.
“Te capisset propi nient! Magiuster uguale fragole! Ti piacciono le fragole?”.
Non ne uscirò vivo, lo sento…
“Sì, vada per le fragole”.
“Ma la buca l’è minga straca se la sa minga de vaca. Per favore, vai in Corso di Porta Ticinese, dal Piero el furmagiatt, quello che ha il figlio che l’è un pistola, te ciapet un para de etti de gorgonzola”.
“Jesus! Chi è che porta un’arma?”.
“Eh?”.
“Pistola! Sarà pericoloso?”.
“Pericoloso? Chi? Il Pistola? Ah, Pistola! Ma và…. ! Un pistola uguale un mezzo cretino! Tutto sbirulent!”.

Ci rinuncio.

“El pan! Smentegavi el pan!Se non hai pressa, per favore vai dal prestinè di Viale Gorizia e prendi un chilo di michètte. Al dì d’incò, per trovarle, bisogna accendere un cero alla Madonna. Ma pensa te! Perché mi guardi come un tarluc? Prestinaio, panettiere, pane, michètte, un chilo… te capì?”.
“No!”.
“Il pane di Milano è la michètta. Adesso trovi tutti i pani del mondo perché, ridendo e scherzando, tutto il mondo nel bene e nel male si trova qui: italiani, arabi, cinesi, inglesi, russi, filippini, indiani… tedeschi, francesi, american! Si diceva che: ‘Chi volta el cu a Milan, volta el cu al Pan’. E come te lo traduco senza dire brutte parole? Libera traduzione della Sciura Elvira: Chi rifiuta Milano, rifiuta il pane inteso come lavoro.

Adesso mi pare che sia Milano a voltare el cu al pan, a voltare el cu alla michètta! Va bene il casareccio, il filoncino al sesamo, il pane carasau, quello di Altamura, in cassetta, integrale, l’arabo, quello agli otto cereali, la piadina, il kamut, il pane di segale, con le olive, quello per celiaci… e la tartaruga e il mantovano e la baguette e la pita e il vattelappesca! E il vadavialcu! Una banale michètta non si trova più. La nostra prestinaia, la Sciura Angela qui sotto, le vende solo il giovedì! Una volta si diceva ‘giovedì gnocchi’. Lassèm perd! Mi han detto che l’è perché le michètte costan poco e non hanno il compenso a venderle, dentro sono vuote… non pesano.  Meglio il pane ‘moderno’, sarà… Va ben, dai… vediamo se riuscirai nell’impresa! Fat minga vegnì i vessigh! Che non voglio avere un inglese sul groppo!”.
“Pardon?”.
“Non farti venire le vesciche se non trovi le michètte, non voglio averti sulla coscienza!”.

Così, frastornato dalla conversazione con la Signora Elvira, vado a farle la spesa. I mean, ci provo, non ho capito granché.

Ho scritto la lista un po’ in inglese, in italiano, in milanese… what a confusion!
Trovo tutto, anche il gorgonzola dal padre del pistola!

In effetti, Elvira aveva ragione… I would say he’s really a nerd.
Al contrario il panettiere, che avrebbe dovuto avere ‘ste benedette michètte, le ha terminate!
Non ho granché da fare, voglio accontentare la signora, se riesco!

E’ una persona speciale, l’ho capito.
Inizio a vagare per la Darsena ed entro in ogni bakery che incontro.

In una mi offrono persino i bagels! Delle michètte nemmeno l’ombra.

In un’altra c’è un panettiere egiziano che inizia a mercanteggiare su ogni tipo di pane che sforna ogni mattina. Sì, ok my friend, ma le michètte?

Tenta di convincermi che con il suo pane si prepara lo shawarma migliore di Milano! Da leccarsi i baffi!

Mi trattiene per un braccio e sono costretto a sorbirmi la ricetta: pollo a striscioline, laban, succo di limone, tahine, aglio, olio, sumak, fette di pomodoro, fette di cetriolo…
“Amico! Sentirai che bontà! Nemmeno al Cairo!”.
Come glielo spiego che tutto questo ben di dio non credo ci stia in una michètta?

Alla fine mi libero e scappo.
Vado avanti verso est, in Viale Bligny. Anche qui niente da fare.
Mi ritrovo in zona Bocconi. Ci sono ben 4 panettieri.

Uno si chiama col nome strano che mi ha insegnato la Signora: El Prestìn de Milan. Beh, devono avere per forza le michètte! O no?

No!
Però mi offrono il pane preparato con la frutta: uva passa, fichi secchi, noci, mosto d’uva; pare sia particolarmente energetico e adatto per la merenda e per il breakfast.
Mi sto immaginando la faccia della Signora Elvira e soprattutto quello che direbbe: ”Ma va a dà via el cu ti… e l’energia!”.
Mi consigliano di proseguire verso Piazza Medaglie d’Oro dove, pare, ci sia un panettiere che fa al caso mio.

E lo spero perché le borse della spesa iniziano a farsi sentire, fa caldo, sudo e inizio anche ad avere fame.
What a pain in the neck!
Da noi si dice ”no pain, no gain”, chissà come si direbbe in milanese?

Devo ricordarmi di chiederlo alla Signora Elvira.
Anche qui, no michètte at all.

Certo che è singolare!

Mi spiegano che non le chiede più nessuno.
Polemizzo: non le chiede più nessuno magari perché non le sforna più nessuno?
Ricevo uno sguardo rassegnato, quasi infastidito e un invito a provare in viale Lazio, dove, testuale, ci sono parecchi anziani poco avvezzi all’acquisto di pane particolare. Là, può darsi che si trovino le michètte.

Ok, ormai è questione di vita o di morte. Sono quasi esasperato e mi sa che mi siano venute davvero le vesciche.
In effetti, sbucando in piazzale Libia, vedo dei veri giocatori di bocce.

Non per essere offensivo, ma inizio a pensare che mi abbiano dato la dritta giusta. At last!
Mi avvicino al gruppetto e attendo che chi sta giocando abbia terminato il tiro.

I giocatori si mettono a discutere animatamente sul tiro di raffa e di volo (non chiedetemi altro… please) ed io non voglio disturbare con la mia richiesta quasi ridicola.

Non appena la discussione si placa m’impongo alzando il braccio manco fossi in classe. Chiedo dove possa trovare un panettiere che venda le michètte.

Si voltano tutti in simultanea.
Il giocatore che ha appena tirato, peraltro magistralmente colpendo la boccia dell’avversario, che ha commentato il colpo con sportività, urlando qualcosa in dialetto che non oso pronunciare, mi chiede:
“Lei non mi pare mica di qui, come mai cerca proprio le michètte?”.
“Non sono per me ma per la mia padrona di casa, che fatica a trovarle nella nostra zona.

Le sto dando una mano, se riesco. Sto facendo l’Erasmus, vengo da Bristol, Regno Unito”.
“Ah ben, a ghè anca mò qualche brau fioeu, anca in due sta la Regina!”.
Stavolta ho capito e ringrazio.
“Ma da dov’è che vieni? Da Porta Romana?”.
“Ier sera piuveva…” Dicono in coro tutti gli altri 3 giocatori.
Non faccio domande, è meglio.
“No, vengo dalla Darsena, Naviglio Pavese”.
“Oh la Peppa! Te set vegnì fin chì per truvà i michètt? Brau, brau”.
“Ho abitato anch’io in Ripa di Porta Ticines, almen 60 an fa! Prima che diventasse il paiolo di tutti quelli che vengono giù con la piena, el sabet de sera! Che cattabuj! Alura l’era quasi anca mò un quartiere di ligera”.
“Ho capito quasi tutto, davvero! Ma che cosa è una ligera? Un qualcosa che pesa poco? Cat a buy?”.
“Che pesa poco, cosa? No no, spèta! La ligera l’è la nostra malavita, i noster lader, i furfanti! Che con quello che vedi in televisiùn adesso, fan quasi teneressa, poesia! Cattabuj è per dire confusione, rebelot”.
“Ah, ok, sorry…”.
“Ma figuress, vuraria parlaa ingles cume ti te parlet l’italian! Va ben, comunque il naviglio è bello. Ho fatto in tempo a vedere qualche chiatta che trasportava materiale da fuori città, ma non coi cavalli. Una volta le chiatte venivano trainate controcorrente dai cavalli che caminaven pian pian ai due lati del naviglio, legati ai barconi con le alzaie, cioè lunghe funi. Il mio povero papà le ha viste, prima della guerra. Ai tempi della mia gioventù, erano già motorizzate. Adesso non ci sono più e se parli di chiatta, a te vegn in ment una culona!”.
“Oh, I see… big ass!”..
“Però ho fatto in tempo a vedere le ultime lavandaie! Quelle che avevano il posto prenotato sul brellìn sulla riva e, di prenotato, avevano anche le ginocchia callose e distrutte. Adesso, anche lì, c’è rimasto il vicolo col ristorante famoso, caro come il fuoco. E pensare che lì davanti fino ai primi anni ‘60 gheràn i donn a lavare indumenti e biancheria dei sciuri, giù in ginocchio e via di spazzola e palton, che sarebbe una specie di sapone! Tanto tempo fa il ristorante era la vecchia drogheria che vendeva l’occorrente alle donne del lavatoio”.

“Pardon, però io ho letto la targa e il vicolo è ‘dei lavandai, non è maschile? Perhaps I’m wrong”
“Giuinot, l’ultima frase l’è arabo per mì! No, hai letto giusto. Il vicolo è dedicato ai lavandai perché nell’Ottocento il servizio di lavaggio era riservato agli uomini che avevan tirato su una vera e propria associazione: la Confraternita dei Lavandai di Milano. Sant’Antonio da Padova era il loro protettore. Eh ben, per le donne è più santo l’inventore della lavatrice va là… Che non Sant’Antoni!”.

I tre giocatori stanno rumoreggiando perché, se il quarto non torna, il gioco non può ricominciare!
“Alura, t’è finì de cuntà sù la storia de la vaca Vittoria? Che sennò ‘sto giovinotto qui le michètte non le trova più, lassel andàa…”.
“Sì, l’è vera…”.
“Giovinotto, si vede che han fretta di perdere!”.
“Arrivederci, a noi ci trova sempre qui il pomeriggio. Se vuol provare a fare qualche tiro. Come si dice gioco delle bocce in inglese?”.
“I would say to play bowls. Very kind of you, thanks. Molte grazie”.
Mi devo sbrigare o davvero rischio di perdere the last chance for michètte!
Almeno questa volta ci siamo! Mi indicano il Forno di Via Cadore.
Elvira mi avrà dato per disperso, sono passate più di tre ore da quando l’ho salutata.
Arrivo al Forno, vedo la scritta ‘oggi michètte’ ed esulto come ad una finale di Coppa del Mondo! Yeah!
Il negozio è pieno. Ci saranno almeno 10 clienti e tutti ordinano proprio le michètte.
Deduco quindi che non sia così vero che non le richiede più nessuno!
My turn: ne acquisto un chilo per Elvira e un chilo per me (oh well…).
Mi rifilano due sacchetti abbastanza ingombranti ripieni di queste pagnottelle gonfie che emanano un profumo delicato che fa venir fame e stuzzica ancor di più il mio stomaco.
Essendo piene di aria, fanno volume.

Ora mi ritrovo con due borse della spesa e due sacchi di pane e non sono assolutamente vicino a casa.
Mi trascino a ritroso e, in piazza Medaglie d’Oro, prendo il tram n. 9 che mi riporterà in Darsena.
Mentre siedo sulle panche di legno del vecchio tram, non resisto (I’m starving!) e mi auto rubo una michètta. La mangio, tutta! Sarà la suggestione ma è buonissima.

Noto che il tram è, stranamente, quasi vuoto. Usually it’s packed… è strapieno di gente perché questa è una linea che ruota intorno alla città.

Durante i miei primi mesi a Milano, sedermi su un mezzo pubblico e fare tutto il giro da capolinea a capolinea era un modo a poco prezzo per visitarla.

L’idea non è mia ma rubata alla mitica Lonely Planet che consiglia di salire sugli autobus urbani e lasciarsi trasportare, senza una meta precisa, al prezzo di un ticket.
Ho trovato posto davanti, vicino al guidatore.

Alla prima fermata, sale un uomo di mezza età che non mi degna di uno sguardo e a momenti inciampa nelle mie borse della spesa perché intento a leggere qualcosa sul suo telefono.

Meno male che ho parato le borse in tempo, altrimenti tornavo a casa dalla Signora Elvira con delle belle smashed strawberries! O smashed magiuster?
E’ salito, dal fondo della carrozza, anche un ragazzo di colore col classico armamentario d’ordinanza di chi svolge vendita ambulante.

Viene a sedersi di fronte a me. Credo che potrebbe avere la mia stessa età, più o meno. Gli sorrido, mi sorride.

Ha uno sguardo felice e sincero di chi, nonostante tutto, possiede una dignità. Saluta il guidatore con un”Ciao tubab!”..

Riceve in risposta: ”Ah, eccoti Senegal! Stavolta l’hai timbrato il biglietto? Non posso tutte le volte voltarmi dall’altra parte, neh?”…
“Sì tubab, vedere? Biglietto timbrato, come un milanes!”.
Il guidatore mi guarda dallo specchietto e capisce che gradirei scoprire che cosa sta succedendo.
“Ciao, lui è Babakar, viene dal Senegal. Lo vedo quasi ogni giorno. Va a vendere le sue carabattole a Porta Genova. L’ho beccato qualche volta che non timbrava. Gli ho detto che rischiava le multe e anche le menate della richiesta di documenti”.
“Poi com’è finita?”.
“Che mi ha detto che il biglietto lui lo pagherebbe anche, ma se lo può permettere solo quando vende qualcosa… e che per i controllori ha il suo gris-gris”.
“Gris what?”.
“Eh, bella domanda, non è mica grigio in balbuziente milanese, sai?”.
Babakar interviene.
“Gris-gris tutti abbiamo Senegal! Tiene lontano spiriti cattivi e fortuna porta, amour et liberté!”.
Mi mostra un minuscolo contenitore di pelle che tiene legato a una collanina.
Capisco… E’ un amuleto!

L’autista commenta: ”Beh, i Giargiana sono uguali dappertutto! Noi abbiamo i corni napoletani, no? Quindi gris-gris o corno non vedo la differenza… Però gli ho detto che non credo che servano in caso di salita di controllore incazzato. E giustificarsi che si compra il biglietto solo quando si vende un paio di calzini, anche questa non mi pare accettabile”.
“Georgiana?”.
“Ueh, lui è del Senegal ma tu da dove arrivi?”.
“United Kingdom”.
“Sarebbe?”.
“Regno Unito. Inghilterra, insomma!”.
“Ah… Tranqui, ti spiego. Qua, i milanesi milanesi purosangue chiamano Giargiana tutti coloro che non sono di Milano ma che ci vivono, quelli che sono nati qui ma che hanno genitori nati altrove, oppure anche quelli che sono visibilmente provinciali. Solo che ormai i milanesi milanesi dovrebbero essere protetti come il canguro arboricolo. Non hanno più il loro habitat naturale! Via, andato, ti saluto Ninetta! Sommerso dalle invasioni di Giargiana – meridionali prima ed extracomunitari poi. Milano è così, un gran casino! Ci lamentiamo del caos, del bordello, ma siamo tutti qui… Anche tu! Anche lui! Siamo tutti importati! Mio nonno era pugliese, mio padre è nato in Mangiagalli (l’ospedale che fa nascere i bambini a Milano) e di pugliese ha poco. Io sono nato in Mangiagalli come lui e di pugliese ho ancora meno… tranne il cognome che non è Brambilla! Resta da capire dopo quante generazioni si perda lo status di Giargiana! Mio nonno era un super Giargiana. Quando andava a trovare le sorelle a Trani, tornava con l’automobile piena di roba da mangiare!”…
“So what? Dove sta il problema?”.
“Non so voi a Londra come fate, ma un milanese non tornerebbe mai a casa con l’automobile piena di conserve di pomodoro… è così provinciale… dicevano. Poi, però, se la mangiavano tutti, anche i Brambilla del secondo piano ai quali il nonno Vincenzo ne portava sempre un paio di bottiglie”.
“Ah, capisco… ma io sono di Bristol”.
Babakar ascolta con attenzione e ride perché credo che stia capendo ancora meno di me.
“Bristol vai a London… diventi Giargiana!” dice al guidatore.
E tutti e tre ridiamo così forte che gli altri passeggeri si voltano a guardarci.

“Beh, comunque, il Giargiana quasi milanese (credo) qui presente, figlio e nipote di Giargiana, ha un occhio di riguardo verso i nuovi Giargiana dalla pelle scura! Un giorno che è salito, è venuto vicino a me; mi ha fatto capire che non aveva il biglietto. Caro il mio ragazzo, che cosa potevo fare? Ormai i controllori ti sgamano se scendi quando li vedi… e ti bloccano manco stessero giocando a rugby!”..
“Sgama what?”.
“E’ milanese moderno. Sgamare… cioè beccarti, capire la situazione”.
“Ok, a kind of slang?”.
“E che ne so?”.
“E lei cosa ha fatto?”.
“Ho tirato fuori un biglietto che avevo in tasca e gliel’ho dato”. Chiamala solidarietà giargianese! Tra chi sa che cosa vuol dire… Io non ho mai patito né la fame né il freddo né il razzismo, per carità… Mio nonno sì.

Sai come lo chiamavano? Il Vincenzo, el milanès del tac!”.
“Tradurre, please”
“Vincenzo, il milanese del tacco: cioè che arriva dal fondo dello stivale, inteso come forma geografica dell’Italia… Uno del profondo Sud”.
“A volte sale col biglietto e me lo mostra subito, a volte sale senza e se ne ho uno glielo do… Vero Babakar?”.
“Tubab, très gentile! J’ai compris je suis un Giargiana!”.
“Seeee, te set anca tì un milanes del tac? Anzi, un milanes de quel che ghè sòta al tac! Senza offesa… Già, in Senegal parlano il francese e mi chiedo se, parlando in milanese, ci si possa capire meglio. Elvira mi ha spiegato che il milanese ha molte parole che derivano dalla lingua di Voltaire.
Chiedo a Babakar, mentre se la ride rumorosamente sbattendo le mani sulle ginocchia: ”Ok, che lingua parlate tra voi?”.
“In Senegal? Nous parlons Wolof!”.
L’autista aggiunge: ”Eccolo, adesso parte a volerti insegnare ‘sta lingua pazzesca… Ed io che penso di avere difficoltà col pugliese o col milanese! Sentilo sentilo… Mi son fatto dire delle frasi, è incomprensibile. Credo che sia uguale per loro ascoltare l’italiano!”.
“Oh, wow… difficult!”.
Babakar mi guarda e spalanca gli occhi, mi chiede se parlo Wolof.
Spalanco gli occhi anch’io e guardiamo in contemporanea il guidatore.
“E non fatemi ridere voi due, sto conducendo un tram e in teoria non dovreste manco parlarmi! Qui siamo a Milano mica a Dakar! Ordine e disciplina! Te lo spiego io: Wow in Wolof vuol dire sì, yes”.
“Gosh… So many people, so many cultures, so many languages… It’s amazing!”.
Se ci fosse qui Elvira!
Chissà se queste lingue resisteranno all’avanzata della globalizzazione, mah… penso a Elvira che mi sta aspettando e al suo dialetto che potrebbe non resistere…
La mia fermata, devo scendere.
Recupero le borse e i sacchi del pane ma non prima di avere offerto una michètta sia a Babakar che al conducente.
Il conducente mi ringrazia ma rifiuta, così ne do due al giovane senegalese che accetta fulmineo e credo che ringrazi nella sua lingua dicendomi: ”Jere jef…”.
Saluto entrambi.

Babakar scenderà in Porta Genova tra un paio di fermate. Passerà la giornata in piazza, di fronte alla Stazione dei treni, cercando di guadagnarsi il biglietto di ritorno e, gli auguro, anche qualcosa in più!

Mi riprometto di accompagnare la Signora Elvira a conoscerlo; camminando pian piano dovrebbe farcela. M’immagino la conversazione: Milanese/Wolof.
Come diceva il conducente? Un milanese milanese e un Giargiana del Senegal!

Finalmente a casa! Home sweet home!
La Signora Elvira si era messa seduta su di uno sgabello, di fronte all’uscio, sulla ringhiera ad aspettarmi. Mi vede entrare.

Mi ha ricordato la mia granma, quando mi aspettava di ritorno dalla scuola e mi faceva segno di affrettarmi ‘Come on boy, lunch is ready!’…
“Ah, te set rivà? Te me fa vegnì uno stremizzi!”.

“Elvira, non è il momento… traduca… please!”.
“Mi hai fatto spaventare, che non arrivavi più!
“Non è colpa mia. I was wandering around looking for michètte!”.
“Eh?”.
“Cercavo le michètte e le ho trovate! Non in Viale Gorizia, in Via Cadore!”.
“Uh Signur, te se stà in gir a pirlà come un mat?”.
“Eh no, Madam, pirla no… non incominciamo! So cosa vuol dire!”.
“Ma che pirla e pirla, bamba! Pirlare significa girare. Hai pirlato, girato come un matto per trovarmi le michètte. Ma grassie, sono contenta, tanto! Me dispias che sei tutto masarato e pirlachento, guarda qui! Tutto sudato! E’ l’umido di Milano! Cià, ven denter che ormai è ora di preparare da mangiare! Anche le michètte son crucche. Mentre cucino il risotto, ti racconto la loro storia. La michètta nasce nel 1700. I milanesi chiamavano il Kaisersemmel (panino del Kaiser – e non ridere che non è una parolaccia), con il diminutivo di ‘micca’ cioè briciola. Il clima a Milano non era secco come in Austria (te ne sarai accorto, neh?) e le micche diventavan molli e posse prima che arrivasse la sera. Di conseguenza, i fornai meneghini decisero di modificare i Kaisersemmel svuotandoli dalla mollica in modo da alleggerirli e mantenerli fragranti e digeribili più a lungo. Inventarono un pane unico! La michètta! Un po’ come i Kipferl, che in diventà brioche!”.

“No, aspetti, le brioche sono francesi… questo lo so anch’io!”.
“Eh no, giovinotto! Chi è che ga dà la curva ai Kipferl? L’ofellée! E chi è che ghe l’ha insegnàa all’ofellée?”.
“Gosh, what a day! Questa devo sentirla!”.

“Dai che il risotto è quasi pronto, lo faccio un po’ moresino… ops… all’onda, si dice così?”.
“Whatever it is, it will be fine!”.

“Capì nagòt, ma ascolta: Per molti secoli l’impero turco tentò di invadere i territori italiani ed europei, arrivando ad assediare anche Vienna nel 1683 o giù di lì. L’assedio a Vienna durò due mesi e i Turchi le provarono tutte. I fornai di Vienna, tra un impasto e l’altro lavorando di notte, sentirono dei rumori sospetti e sventarono l’attacco dando l’allarme. I Turchi furono cacciati definitivamente. Il fornaio Vendler (mi pare che si chiamasse così) creò un dolce per ricordare la vittoria. Indovina che dolce era? Un Kipfler a forma di mezzaluna (simbolo dell’impero ottomano) cioè la brioche, il cornetto. Venne ‘esportata’ in Francia grazie a Maria Antonietta; l’origine della parola ‘croissant’ deriva proprio dal francese e significa ‘crescente’, cioè ‘luna crescente’, te capì?”.

“WOW, crescent! Signora Elvira, lei è una fonte inesauribile di aneddoti e storie interessanti! I am truly impressed”.

“Va là va là, son sempre le solite quattro cose che so e che ripeto a chi le vuol sentire. Sono sicura che in gugl trovi di meglio e di più”.

“Yes, but, i racconti a voce sono più coinvolgenti e genuini!”.

“Nani, zucca e melon a la sua stagion. La mia stagione sta per concludersi mentre la tua è appena iniziata.
I miei racconti saranno finiti presto, per raggiunti limiti biologici. Per quanto riguarda Milano, mi auguro che ci sia qualcuno pronto a raccontarli al posto mio, nostro, di tutti coloro che hanno a cuore la città e il nostro dialetto, la nostra storia. Me racumandi. A tua volta, quando tornerai a casa tua, ascolta i tuoi nonni o chiunque abbia una storia sulla tua città e sul tuo Paese da raccontare. Voialter, cunt i computer, avete il problema di avere una memoria sempre pussè granda, ma non avete più ricordi da metterci dentro. Ascolta, memorizza, ruba gli aneddoti, riempiti il cuore delle loro parole! Il ricordo è il tessuto dell’identità”.

“Chi l’ha detto? Un Milanese famoso?”.

“No giovinotto, l’ha detto Nelson Mandela. A tavola, che è pronto!”.




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1 Comments

  1. says: Mattia

    Racconto davvero bellissimo 🙂 cattura proprio bene il lato più bello e genuino della vita milanese! Da monzese che vive vicino a Bristol mi ha fatto davvero sorridere 🙂

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