L’analisi del Living Planet Index 2022 su 32 mila popolazioni di vertebrati.
In mezzo secolo abbiamo fatto fuori il 70% degli animali selvatici
di Antonio Cianciullo
(pubblicato su huffingtonpost.it il 13 ottobre 2022)
Abbiamo perso 7 animali selvatici su 10. In appena mezzo secolo. Cioè dal momento in cui, nel 1972 a Stoccolma, si celebrava la prima conferenza Onu sull’ambiente. Non è un grande risultato. Anche perché più si allarga la sfera del mondo che supponiamo di controllare, meno questo controllo torna a nostro vantaggio.
Gli animali selvatici (questo studio si riferisce ai vertebrati) spariscono perché non c’è più posto per loro. Li abbiamo sfrattati in vari modi. Ad esempio facendo fuori le foreste pluviali; e così abbiamo finito per offrire una circolazione globale a virus che erano confinati in piccole aree del pianeta (molto probabilmente anche quello del covid). O scavando miniere e pozzi di petrolio; che hanno contribuito a far saltare l’equilibrio dell’atmosfera scatenando l’aumento degli uragani e delle ondate di siccità.
Questa poco incoraggiante fotografia del presente ci è consegnata dal Living Planet Index 2022 del Wwf che testimonia un calo medio del 69% nell’abbondanza delle popolazioni di fauna selvatica monitorate in mezzo secolo. Una diminuzione che in alcuni casi si trasforma in un crollo drastico, come in America Latina, dove la perdita arriva al 94%. O per gli animali d’acqua dolce (- 83%).
Mammiferi, uccelli, anfibi, rettili e pesci spariscono con una velocità impressionante. “La tendenza al calo delle popolazioni di vertebrati continua, nonostante una serie di impegni della politica e del settore privato”, si legge nel rapporto. “I dati raccolti su quasi 32.000 popolazioni di 5.230 specie su tutto il pianeta non lasciano dubbi sul fatto che il Decennio delle Nazioni Unite sulla Biodiversità, inteso a implementare un’azione ad ampio raggio per trasformare il rapporto della società con la natura, ha mancato di gran lunga il raggiungimento di quanto necessario”.
L’assalto è stato più feroce nei luoghi in cui la natura era più forte. L’Amazzonia, la più grande foresta pluviale del pianeta, ha perso il 17% dell’estensione originaria e un ulteriore 17% è ormai degradato. Si avvicina il punto di non ritorno, il momento in cui la foresta cederà il posto alla savana.
E anche le barriere coralline, l’altra roccaforte della biodiversità, se la passano male. Circa il 50% dei coralli di acque calde è già perso. Un aumento delle temperature medie di 1,5 gradi comporterebbe il sacrificio del 70-90% dei coralli che vivono in acque calde, mentre con un riscaldamento di 2 gradi si arriverebbe a oltre il 99%.
Comunque la crisi climatica che abbiamo creato bruciando combustibili fossili e tagliando foreste non fa male a tutti. C’è chi se la gode. I coleotteri e le falene che attaccano le foreste settentrionali – ci informa il Planet Index 2022 – sopravvivono meglio a inverni più caldi e si riproducono di più causando morie di massa di alberi nelle zone temperate e boreali del Nord America e dell’Europa. Anche “molti insetti e vermi che causano malattie sia nella fauna selvatica che nell’uomo si sono trasferiti in nuove aree e stanno causando l’emergere di nuove malattie nelle regioni artiche e negli altopiani himalayani”.
Se decidessimo di non continuare a privilegiare l’espansione di queste specie a danno delle altre (compresa la nostra), potremmo adottare un sistema legislativo che tuteli l’equilibrio degli ecosistemi e la difesa della biodiversità. Finora lo hanno fatto in pochi. Tra i casi positivi c’è il Costa Rica che nel 1994 ha inserito il diritto a un ambiente sano nella sua costituzione. Oggi il 30% del territorio di questo Paese è costituito da parchi nazionali. Il 99% dell’elettricità viene da fonti rinnovabili. L’estrazione a cielo aperto e lo sviluppo di petrolio e gas sono vietati, mentre le tasse sul carbonio vengono utilizzate per pagare le popolazioni indigene e gli agricoltori che ripristinano le foreste. Nel 1994 la copertura forestale era scesa al 25% del territorio, oggi supera il 50%.