Malamore sulla Malvassora
(un odio in parete)
di Marina Morpurgo
In un mattino radioso di luglio Ansia K. si mette volonterosamente in cammino nel selvaggio e pietroso vallone del Piantonetto, sul versante meridionale del parco del Gran Paradiso.
La meta dell’improvvida, ingenua Ansia, è il Becco della Tribolazione (già il nome avrebbe dovuto insospettirla e dissuaderla dal scegliere tale vetta come esordio alpinistico).

Ansia ha delle premonizioni, ed è combattuta tra le rassicurazioni della guida alpina (che ha dipinto l’ascensione – da lui mai effettuata in precedenza – come una passeggiata, e si pone il problema di come trascorreranno il resto del pomeriggio, una volta conclusa la via: forse giocheranno a carte) e il sano realismo del maestro Maurizio Oviglia – che gliel’ha dipinta per quello che è, ovvero un poderoso bastione di granito.
Il Becco della Tribolazione appare spaventosamente lontano e spaventosamente verticale, ma certo si tratta di un effetto ottico – che purtroppo permane per tutto l’avvicinamento, la salita e il rientro.
Dopo circa 650 metri di sgambata, prima su sentiero, poi su un infame e interminabile pendio di sassetti e terriccio cedevole, si attraversa un microscopico ma ripido nevaio che arriva alla base del cosiddetto “zoccolo” del Becco, di cui tutte le relazioni parlano malissimo, e non a torto.
Ansia è intimidita, anche perché per celia un amico si è divertito a disegnare con Photoshop un grosso buco rosso sul nevaio: quello che scaverebbe il suo corpo, qualora le capitasse di inciampare. Lo zoccolo è una specie di “pera” di erba, sassi e saltelli di roccia molto facili, che porta alla parete vera e propria.
Ansia, che ha i riflessi condizionati peggio del cane di Pavlov, si mette subito carponi perché appena vede della roccia ci si attacca con le mani anche se la roccia è orizzontale (ma non si sa mai). La guida osserva costernata e invano la invita a rialzarsi, anche perché si è accorto che tra la posizione carponi e il casco che le pende sulla fronte, Ansia non vede una mazza (meglio così) e continua a tirare capocciate nella roccia.
Finalmente si arriva all’attacco della via Malvassora, dove si infilano le scarpette – metterle in negozio era stato molto più comodo – e la situazione migliora almeno da un punto di vista estetico e formale perché avere le mani sulla roccia adesso è normale e la cordata non appare più formata da un bipede iracondo e da un curioso animale che si muove a scatti goffi e intimoriti.

Già dalla partenza la povera Ansia capisce di essere stata turlupinata, visto che aveva chiesto delle belle placche appoggiate e poco atletiche. La realtà è che la via è alquanto verticale con qualche passetto che butta in fuori. Ansia sale stringendo i denti, ma sale (per fortuna per le mani, tranne che in due passaggi bastardi, ci sono ottime maniglie). Il problema è che la parete sembra fatta per giocare a nascondino.
Il primo di cordata sparisce subito alla vista e non sente i suoi richiami disperati. Ansia soffre di solitudine, specie se guarda il vuoto sotto i suoi piedi. In più è venuto a mancare quell’alone magico e complice e devoto e quasi amoroso che di solito si forma tra un lui e una lei, quando lei sente che la sua vita è appesa – letteralmente – nelle mani di lui.
Ansia K. non ama quell’uomo rozzo e brutale, che la ferisce a morte sostenendo che abbia bisogno di uno psicologo solo perché si rifiuta categoricamente di mettersi in piedi su un minuscolo pulpito granitico circondato da abissi di centinaia di metri – e preferisce fargli sicura stando seduta e con gli arti inferiori saldamente incastrati in una fessura.
Se fossero in piazza del Duomo a passeggiare lei gli farebbe un gestaccio con il gomito e il palmo della mano aperto e gli direbbe “Fanculo tu e la tua passeggiata del cazzo!”. Purtroppo non può. Sono ormai dei separati in parete. Stanno insieme perché non c’è scelta.
L’inizio della fine è un camino stretto e verticale (se non peggio) nel quale non avendo nessuno che la consigli si incastra in modo quasi irrimediabile. I lividi si riassorbiranno in due settimane. Sembra un grosso tappo di champagne, goffo e infelice, finché a tentoni trova un appiglio per la mano destra e riesce a cavarsi fuori tirandolo con tutte le sue forze. All’uscita dal camino è mezza morta. A quel punto trova il coraggio di dichiarare di essere stanca e si ribella quando le chiedono di sorridere per le foto.
La similtragedia avviene all’ultimo tiro, quando ormai le luci si sono fatte radenti, il granito è dorato e il cielo azzurro cupo (purtroppo a lei di tutta questa bellezza alpestre non importa un fico secco: preferirebbe di gran lunga essere sulla tangenziale est). C’è l’unico traverso di tutta la via e Ansia, stravolta dalla fatica e dall’apprensione, molla le mani prima di riuscire a mettere i piedi sul largo appoggio, grande quando un balcone abitabile. A quel punto pendola per alcuni metri atterrando con una certa violenza sulla cengia sottostante.
Un po’ contusa ma intera, comincia a tremare come una foglia e piagnucolare inviperita perché quel cornuto non le ha messo neppure un misero rinvio, neanche un frienduccio, nonostante abbondino le fessure. Ritenta il passo, ma niente da fare. Il tremito è incontrollabile. A quel punto, pur di avere la corda in verticale Ansia K. si accanisce contro un muretto minimo di settimo +, ovviamente senza alzarsi di un centimetro.
Ansia K. è appiccicata alla parete, in posa da crocefisso, lacrimosa e impotente. Urla, nella speranza che la guida la senta. Macché.
Finalmente quel maschio detestabile ha un lampo di intelligenza e viene a prenderla (in cima per fortuna c’è un’altra guida che gli dà il cambio in sosta: è una guida dolce e paziente e Ansia lo ama già alla follia, perché l’ha salvata e le ha detto che è stata molto brava ad arrivare fin lassù). Con due consigli, una strattonata e soprattutto un friend a protezione del traverso, Ansia passa e arriva dopo poco in cima, dove si accascia sfinita e felice.
Ce l’ha fatta! Ora si scende in doppia lungo la via Gran Finale (ottime catene, molto solide). Ansia è rassicurata perché tre settimane fa ha fatto la doppia del Sasso Remenno – ormai è pratica della manovra. Peccato che al Remenno 60 metri sotto ci fosse la strada e gli amici che facevano ciao ciao scattando foto ricordo.
Qui le corde spariscono nell’abisso, la parete sembra vasta, solitaria e infinita nella luce del tramonto, e sotto c’è quel cazzo di zoccolo ancora da scendere. Le si infilano subito le dita nel discensore (ahia). Ansia a questo punto vorrebbe solo morire, ma di morte naturale e comunque non in parete e comunque non con quell’imbecille. C’è un’altra crisi di coppia, perché lui vorrebbe che lei manifestasse grandi segni di divertimento, invece di una rassegnazione silente. Le doppie sono così entusiasmanti! Ansia vorrebbe accoltellarlo. La situazione migliora con un discensore a levetta.
Rinfrancata, Ansia si cala lungo le ultime doppie e anche la discesa dallo zoccolo, dopo la via, le sembra meno traumatica. Si arriva alla base della parete, sulla pietraia infame che però ora sembra la Terra Promessa, la Terra del Latte e del Miele. Entusiasta per essere sopravvissuta, Ansia va avanti e canna subito strada. Ma ormai affronta gli ultimi improperi dell’infame con un sorriso ebete e trasognato – quasi comatoso – da santa Maria Goretti.
Il resto della discesa è una lunga ritirata in una sera tiepida e serena… il rifugio è un punto luminoso e rassicurante nelle tenebre.
La prossima volta, se ancora pagherà un uomo, sarà un gigolò caraibico. E andranno in spiaggia.