di Chiara Baù
(pubblicato su imperialbulldog.com il 6 giugno 2019)
Quattro minuti, è il tempo necessario per comprendere un’opera d’arte, a detta degli scienziati.
In realtà dinanzi a un dipinto in un museo una persona trascorre in media tra i quindici e i trenta secondi. Avendo posato numerose volte per un artista della Val Gardena, in Alto Adige, ho capito che un dipinto è un incompiuto, e come tale non si dovrebbe mai finire di osservare. In ogni quadro ci si potrebbe perdere.
Johann, il pittore per cui poso, si dedica con tale trasporto ai suoi disegni da rimetterci mano almeno una trentina di volte con pazienza a dir poco encomiabile. Non è mai soddisfatto del risultato e continua a ritoccare il dipinto. Ogni pennellata nasconde un pensiero, dietro a ogni modifica si intuisce la ricerca di un qualcosa che solo Johann conosce.

A volte sembra inutile la mia presenza nello studio, tanto l’artista è assorto nel perfezionare l’opera in corso. Possono essere una o cento pennellate, non importa. La pazienza che impiega nel completare un dipinto mi ha insegnato quanto tempo, dedizione e impegno si debbano pretendere da se stessi per cercare la parte più nascosta in noi. La filosofia di Johann è riassunta in poche parole “un passo alla volta”.
Durante ogni posa mi accorgo di essere io stessa più intenta ad osservarlo che non lui a ritrarmi. Da allora ogni volta che entro in un museo, la prima domanda in biglietteria riguarda l’orario di chiusura. Non programmo più un ipotetico tempo di visita. Mi basta sapere quanto possa trattenermi per poter comprendere a fondo ogni quadro in mostra.
Non ho bisogno di una guida, non alla prima visita. L’impressione iniziale per captare il linguaggio dell’artista deve essere unicamente mia. Fin da studentessa al liceo rifiutavo l’interpretazione di poesie e testi classici impostami dai professori. Perché non avere il diritto di interpretare secondo la propria percezione una qualsiasi forma d’arte?

Pochi giorni fa ho sentito un amico guardiacaccia che durante la tesi di campo mi accompagnava a localizzare gli orsi reintrodotti in Trentino dalla Slovenia. Vive in Trentino e mi racconta le ultime notti occupate a censire i cervi. Per salvaguardare queste popolazioni i guardiacaccia trascorrono notti intere appostati nelle radure percorse abitualmente dagli animali e provvedono alla conta. Lo scopo è monitorare di anno in anno le varie popolazioni di cervidi per arrivare ad una stima della natalità e mortalità. Non posso fare a meno di immaginare quelle notti interminabili trascorse in paziente attesa per individuare ogni singolo capo e classificarlo in base alle sue caratteristiche: cervi giovani, maschi, adulti, esemplari malati – un lavoro certosino. Occorrono pazienza, attesa e passione. Un passo alla volta. Intorno solo il bosco, che in silenzio osserva il lavoro dell’uomo, lontano dalla frenesia e in perfetta sintonia con il ritmo dei cervi.
Per chi è appassionato di animali la pazienza è fondamentale e viene sempre ripagata. Ho dovuto però esercitare questa capacità.
Al giorno d’oggi primeggiano solo il tutto e subito, mentre ogni secondo d’attesa può scolpire un tratto della propria personalità. Recita un detto tedesco che Dio ha creato il tempo, ma della fretta non ha mai parlato.
È soprattutto la natura ad avermi insegnato quanto la pazienza e l’attesa che ne è l’anticamera, siano elementi fondamentali. Quando ti inoltri nella foresta non sai cosa incontrerai. Non brillando di questa dote, riconosco che è stata proprio un’esperienza nel cuore della Finlandia ad aver plasmato la mia impazienza innata.
Una telefonata di mia madre, complice nella passione per la natura che ho fin da piccola, interrompe una frenetica mattinata di lavoro alla scuola di sci dove lavoro in Alto Adige. Mi racconta di aver trovato una località in Finlandia dove si trovano dei capanni isolati in mezzo alla foresta, dedicati all’osservazione dell’orso bruno europeo (Ursus arco arctos).
Un minuto dopo la telefonata avevo prenotato il volo. Il mese successivo, raggiungo la Carelia, una zona della Finlandia orientale. Improvvisamente mi trovo appostata in un capanno di legno ad osservare la natura intorno. Sono nel mio mondo, il regno dell’orso bruno; un chilometro ad est passa il confine con la Carelia russa, ammantata di foreste quasi integre, senza strade e praticamente disabitate. In Finlandia, invece, i boschi sono più sfruttati; la gestione forestale disegna un mosaico ambientale che a sua volta favorisce la biodiversità. Aree disboscate di recente, dove prevalgono le erbe e i cespugli si alternano a zone di ricrescita di età diversa: una situazione favorevole soprattutto per i grossi erbivori, mentre i predatori hanno imparato a fare i pendolari: al di là del confine più tranquillità, al di qua più possibilità di caccia.
Nel mese di maggio le notti sono molto brevi, il che consente luce prolungata per catturare immagini la maggior parte del tempo.
Per non recare disturbo alla presenza dell’orso, ci si apposta nel capanno il pomeriggio, quando gli orsi sono meno attivi, rimanendo all’interno fino al mattino successivo, quando la luce è ormai alta e gli orsi sono presumibilmente rientrati nel fitto della foresta. È comunque il tempo in cui gli orsi sono appena usciti dal letargo e cominciano a smaltire la fame arretrata.
Per i bisogni fisiologici occorre utilizzare appositi secchi disponibili all’interno del capanno. Tutto il mondo si trasferisce in pochi metri quadrati confinati da assi di legno. Solo una tavola di compensato spessa un paio di centimetri e uno strato isolante di polistirolo mi separano dal re della foresta e dal suo regno. Solitamente gli orsi, sia per pigrizia, sia per abitudine, tendono a seguire gli stessi percorsi, così in quelle notti nutro la speranza di riprenderli col teleobiettivo collocato su un apposito foro che interrompe la silhouette della tavola di compensato.

Trascorro ore immobile, accovacciata su uno sgabello, all’interno del capanno di osservazione. Una situazione piuttosto insolita, abituata come sono a vagare nelle foreste del Canada e in Alaska. L’orso bruno europeo è decisamente più schivo dell’orso grizzly (Ursus arctos horribilis) che avevo potuto avvistare nel Nord America.
In Europa la paura dell’orso nei confronti dell’uomo è molto più sentita e scorgere il plantigrado risulta alquanto difficile. È qui che entra in gioco la pazienza, stimolata istante dopo istante dal desiderio di vederlo transitare davanti al capanno. Ore ed ore in questa piccola baita in riva ad un laghetto apparentemente insignificante, ma che col passare del tempo diventa il set cinematografico di uno dei più bei film che abbia visto. Il desiderio di osservare l’orso è alle stelle, ma più trascorrono le ore, più capisco che devo controllare la mia impazienza.
L’attenzione inizia ad avere lo stesso sapore di quando osservo un’opera d’arte e man mano capisco che trascorrere lunghe ore rinchiusa in un capanno in mezzo alla natura finlandese rappresenta un’occasione incredibile.
Ecco che ha inizio la sfilata. Le ore che precedono il breve intervallo del buio sono totalmente prive di silenzio. Ogni secondo è degno di una foto. Iniziano ad arrivare in volo i gabbiani e a praticare il loro rito di corteggiamento. Nel frattempo il cielo si tinge di colori più caldi, che si accendono attimo dopo attimo. Le ombre degli alti tronchi dei pini si allungano sulle acque del lago, accompagnando il sole nel suo dolce calare.

Un corvo imperiale interrompe il rituale d’amore dei gabbiani, mentre una volpe furtiva ha fiutato qualcosa nel terreno, forse un topolino intento ad esplorare le rive del laghetto.
Una strolaga minore (Gavia stellata) dopo aver svernato in mare vicino alle coste, si appresta a nidificare a terra lungo le sponde del lago. La osservo mentre esplora con tutta calma lo specchio d’acqua alla ricerca di qualche larva, poi disturbata dal corvo si appresta a decollare proprio davanti all’obiettivo. Cosa volere di più? Ho la sensazione di spiare questo habitat naturale, ma l’iniziale timore claustrofobico di restare bloccata e imprigionata nel capanno rudimentale si trasforma in un evento imperdibile.
Il vero timore l’ho provato di recente in un lavoro a Miami, dove ho avvertito una tale sensazione di vuoto e rumore da sentirmi imprigionata. Nel mio capanno di legno mi sento libera e felice piuttosto che in quella chiassosa città americana dove tutte le persone mi sembrano schiave dell’apparenza, del lusso e di una vacuità infinita.
Il tempo in riva al lago assume lentamente una nuova dimensione. Come trovarsi al museo in balia di opere d’arte, come posare da modella nello studio di un pittore, nel groviglio dei miei pensieri, costretta ad un’immobilità liberatoria. Poco alla volta mi concentro sui cerchi d’acqua tracciati dal continuo andirivieni di ogni genere di volatile, anche dalle più piccole larve di zanzara che con eleganza disegnano sul lago circonferenze sempre più minuscole, come le abbozzassero sapientemente con un compasso.
Un merlo acquaiolo osserva dalla cima di un abete il traffico degli uccelli che atterrano sul lago. Sembra la torre di controllo di un aeroporto. Un ciuffolotto (Pyrrhula pyrrhula) si è appostato sul ramo di un cespuglio che per qualche metro si protende sulla superficie del laghetto. È verosimile che stia aspettando il momento propizio per acciuffare qualche insetto.

Improvvisamente tutto sembra fermarsi. Un attimo di silenzio. Gli uccelli fuggono via e il lago assume un aspetto di immobilità irreale, quasi a voler riposare tranquillo dopo l’attività frenetica dei suoi abitanti. Come se la natura dirigesse una sorta di traffico. Come se ogni animale si fermasse per assaporare la bellezza di un angolo di paradiso. Tutto ha un senso, ma solo osservando la scena in ogni istante posso comprendere la magia di quel luogo incantato. Poi improvvisamente la vita riprende. Un’anatra atterra un po’ goffamente sull’acqua e un picchio dorsobianco (Dendrocopus leucotos) riattacca ritmicamente il tamburellare sulla corteccia di un tronco, tentando di snidare larve ed insetti. Un nuovo concerto ha inizio.
Lo sguardo si allena man mano su ogni particolare, non più per vedere, ma per osservare. Anche l’udito si affina e imparo a distinguere le svariate voci del lago, i cinguettii degli uccelli, lo scricchiolio di un ramo piegato dal vento o il canto del cuculo appollaiato sulla cima spezzata di un abete colpito dal fulmine.
La possibilità di avvistare l’orso è facilitata dalla presenza di carcasse di animali che vengono deposte nelle vicinanze del lago. Non sono particolarmente favorevole a questa modalità di avvistamento. Osservare l’orso in libertà, come qualsiasi altro animale selvaggio, significa rispettare tutte quelle condizioni che non prevedano la presenza di fattori esterni, come la carcassa di un animale morto. Messa da parte la mia rigidità di opinione, riesco però a comprendere il senso di questa modalità di osservazione. Il capanno costringe ad una distanza obbligata, addestra a rispettare la comfort zone di ogni animale senza la benché minima possibilità di invadere, anche solo per pochi centimetri, l’habitat di una fastidiosa zanzara o dei miei amati orsi.
Una modalità di avvistamento che preclude ogni forma di impazienza e sradica da una vita frenetica la calma necessaria per scoprire cosa si nasconda dietro il semplice movimento di un animale o dietro il soffio del vento. Bloccato ogni pensiero, mi dedico alla contemplazione del paesaggio che con le luci del tramonto assume un aspetto in continuo mutamento per colori ed ombre.
Ancora nessun segnale dell’orso. In lontananza sulla riva del lago si affaccia un ghiottone (Gulo gulo), un raro carnivoro. Le anatre impaurite si alzano frettolose dalle acque. Il ghiottone sembra aver individuato la carcassa dell’animale destinata all’orso. Non ha alcuna esitazione a rubare furbescamente la preda. Continuano intanto mille congetture sulla comparsa dell’orso e mi incoraggio ripetendomi la parola-chiave “pazienza”.
Sono circa le undici di sera. Una luce flebile preannuncia le brevi ore di buio che a queste latitudini precedono il giorno.
Uscire dal capanno è assolutamente da evitare, gli orsi potrebbero fuggire al più impercettibile rumore. Si sta alzando una leggera brezza che con dolcezza increspa la superficie del lago. Il medesimo alito di vento accarezza i rami degli abeti che si specchiano nelle acque.
Nel capanno mi trovo con un altro fotografo con cui di tanto in tanto, sottovoce, scambio qualche impressione. Con lui decido di stabilire dei turni durante le brevi ore di buio. Un silenzio profondo cala su quel piccolo mondo che è il nostro capanno, sui miei pensieri e sopra un lago propenso ad addormentarsi insieme agli abitanti della foresta.
Sonnecchio stanca per qualche ora. Turni di due ore ciascuno. Mi sveglio alle prime luci dell’alba, ma dell’orso non c’è traccia, nessun segnale. La vita del lago riprende, un passo alla volta, ogni secondo con una luce diversa, come quando scali una montagna e ti arrampichi in parete con tale attenzione da riuscire a percepire le più piccole sfumature di grigio e rosa nelle venature della roccia.Trascorro quattro notti osservando dal minuscolo foro di appoggio all’obiettivo della macchina fotografica la vita della foresta intorno. Durante il giorno si rientra alla base, una grande casa di legno dove riposarsi dalle notti insonni e rifocillarsi.
Non devo avere fretta di avvistare l’orso, devo saper aspettare. Penso a quanti casi in natura rivelano una dose di pazienza ammirevole. Vedo il pinguino imperatore camminare per mesi nelle condizioni più proibitive dell’Antartide, avanzando passo dopo passo in una interminabile marcia per arrivare a nutrire il suo piccolo. Penso al padre pinguino che con infinita pazienza e delicatezza si occupa di covare il piccolo, rimanendo quasi immobile per mesi. Penso al ragno che tesse pazientemente i fili della tela e che ogni volta che un soffio di vento o un insetto arrivano a distruggerla si rimette con rinnovata pazienza al lavoro.
La mia attesa è nulla in confronto e si traduce secondo dopo secondo in nuove scoperte, proprio come quando davanti ad un quadro si riescono a percepire tutti i retroscena e le volte in cui il pittore vi ha messo mano. Lo chiamo effetto Gioconda, e intendo quello stato che consente di percepire al di là di un gesto o di un’immagine che cosa si possa nascondere. Il volo di un gabbiano davanti al lago nasconde una perfezione che l’uomo ha potuto imitare solo milioni di anni dopo.
Dietro ogni semplice gesto c’è molto di più ed è qualcosa di misterioso e affascinante allo stesso tempo. Scopro infatti come ogni anatra, ogni svasso o volatile del luogo conoscano con precisione il momento appropriato per nidificare, per spostarsi, per accoppiarsi: una legge della natura che unica e incomparabile dirige la vita del mondo animale. Ammiro tutto questo e mi accorgo di imparare, anche solo dal volo delle folaghe, quale sia il momento giusto per alzarmi in volo coi miei pensieri.

Devo imparare da Johann il pittore a studiare ogni particolare che si presenti ai miei occhi, a pensare istante dopo istante prima di agire, a non lasciarmi condurre dall’istinto e dalla frenesia. Osservare i dettagli stava diventando il compito quotidiano nel capanno sul lago, lassù in Finlandia.
L’attesa dell’orso mi stava insegnando più di quanto potessi immaginare. Che lo facesse di proposito a non comparire? L’orso conosce di certo i miei punti deboli, ci studiamo a vicenda da anni e quello era il momento giusto per insegnarmi il valore della pazienza e della perseveranza. Mi stava mettendo alla prova.
È giunta l’ora del tramonto. Sul lago tutto continua a mutare anche quando tutto sembra apparentemente fermo. Una leggera nebbia avvolge lo specchio d’acqua e Il sole si diverte a penetrare con lunghi fasci luminosi tra i larici, mentre le nuvole specchiandosi nel lago giocano a nascondino.
Continuo a scattare immagini, tentando di immortalare ogni microsecondo con la sensazione di dipingere tante tele colorate e diverse.

È l’ultima notte di permanenza al capanno. Ho quasi perso la speranza quando all’imbrunire una sagoma scura si delinea tra le betulle. Eccolo finalmente sbucare dal folto del bosco, quasi dondolando, un passo alla volta, lento, circospetto, cadenzato: è un magnifico esemplare di orso bruno che spunta tra i cespugli, volge il capo, è un po’ inquieto. Anche se rintanata al chiuso, l’odore dell’uomo per l’animale è pur sempre percepibile. Annusa l’aria, volge lo sguardo verso il capanno. Cerca il resto della carcassa dell’animale morto tra l’erba, ma il ghiottone non gli ha lasciato granché del suo lauto pasto.
Qualche passo lungo la riva del lago quasi a degnarci della sua regale presenza e poi scompare di nuovo per continuare il suo vagare quotidiano. Sono felice.
Ho imparato la lezione: ore e ore di osservazione nel capanno sul lago, ma con occhi continuamente diversi, mi avevano insegnato come sia importante vivere e agire un passo alla volta, cogliendo la bellezza che poteva nascondersi dietro ad ogni istante, dietro ad ogni gesto.
L’orso ancora una volta mi ha trasmesso la sua saggezza.