Cerro Torre, il verdetto finale – 1

Cerro Torre -12 – Il verdetto finale – 1
di Ermanno Salvaterra
(scritto nel 2009)

Le mie salite al Cerro Torre
Il Cerro Torre si trova nel gruppo del Fitz Roy (Chaltén) nella Patagonia a circa 50° di latitudine sud e 72° longitudine. Questa fantastica montagna è alta solamente 3128 metri ma le sue pareti precipitano verticali su tutti i suoi versanti. La parete sud è la più alta e forse sono quasi 1500 metri.

Il Cerro Torre è una meravigliosa montagna ed è definita da molti come la montagna più bella del mondo. Sempre da qualcuno è anche stata definita la montagna più difficile del mondo e forse lo sarebbe ancora se non fosse per la Via del Compressore che sicuramente negli ultimi anni ne ha facilitato la sua ascesa.

La mia storia d’amore con il Cerro Torre è cominciata quando ero ancora giovane. A quei tempi della Patagonia si sapeva pochissimo. Io avevo avuto la fortuna di avere Renato Casarotto come compagno e poi amico al corso per aspirante guida nel lontano 1979. Proprio alla fine di quell’anno Renato andò in Patagonia dove in solitaria aprì quella grande via al pilastro del Fitz Roy che ora tiene il suo nome, appunto Pilastro Casarotto. Ero affascinato e volevo sapere se ci fosse qualcosa alla portata dei miei mezzi tecnici e della mia ancora limitata esperienza. Lui mi diceva che le montagne laggiù sono molto severe, soprattutto quando cambia il tempo – una cosa che io stesso avrei avuto modo di sperimentare a fondo nel corso delle 26 spedizioni che ho effettuato in Patagonia tra il 1982 e il 2008.

Il mio primo tentativo risale per l’appunto al 1982, quando avevo 27 anni. Partii con Elio Orlandi come partivano i grandi esploratori dei secoli scorsi: non sapevamo niente. Non sapevamo dov’era il Torre e non avevamo alcuna informazione, relazione, rapporto. Sapevamo che volevamo salire la già famosa Via del Compressore, ma non avevamo idea di dove la via salisse. Mi ricordo bene che quando vidi il Torre per la prima volta dal vero ne rimasi semplicemente trafitto. Dissi al mio compagno “solo a vedere questa montagna, per me i soldi del biglietto aereo erano già stati spesi bene”. Durante quel primo tentativo, dovemmo arrestarci quando il più della salita era fatto. Arrivammo infatti al punto in cui Maestri aveva abbandonato il compressore che era già notte, e ci calammo alla base della parete terminale per bivaccare. Non avevamo il sacco a pelo, e niente da mangiare o da bere, e fummo così costretti a un bivacco molto penoso. Il mattino successivo il tempo era brutto e così decidemmo di rinunciare e continuammo la discesa.

Ermanno Salvaterra

L’anno successivo, il 1983, ero di ritorno, questa volta con Maurizio Giarolli. Il 17 di ottobre mettevo piede per la prima volta sulla cima di questa montagna fantastica, completando la terza ripetizione di quella via Maestri dove il maltempo mi aveva respinto l’anno prima. Pochi giorni dopo, fu di nuovo il maltempo a interrompere il nostro tentativo alla Supercanaleta al Fitz Roy, che però fu nostra ai primi di novembre, quando si era unito a noi anche Orlandi. Subito dopo fu la volta della Guillaumet con Orlandi, Ginella Paganini e l’argentino Jorge Tarditti, e infine, ancora a pochi giorni di distanza, con Giarolli, Orlandi e Tarditti fu la volta del Poincenot.

Di salite belle, personalmente importanti o in qualche modo significative, in Patagonia ne ho poi fatte tante nei 25 anni che sono seguiti. Ci vorrebbe un libro intero per raccontarle tutte. Nel corso di tutti questi anni, quattro grandi progetti hanno motivato l’interminabile litania di tentativi, di rinunce, di vittorie e di sconfitte, di sofferenze e di gioie. Quattro di questi grandi progetti sono stati coronati da successo, mentre l’ultimo mi è sfuggito d’un soffio, a causa della infernale meteorologia patagonica e, un paio di mesi, dopo alla bravura e determinazione di una cordata rivale.

Il primo progetto risale al 1985, e tra le mie imprese in quelle terre è quella che si è conclusa con il minor numero di tentativi. Già in quell’anno, infatti, in compagnia di Maurizio Giarolli, Andrea Sarchi e Paolo Caruso riuscii a effettuare la prima salita del Torre in invernale. Fu sì un progetto conclusosi alla prima spedizione, ma sicuramente ci costò molto in termini di impegno, fatica, sofferenze. Le condizioni ambientali, che sono già difficili e mutevoli durante il periodo estivo, nell’inverno australe diventano assolutamente proibitive. Quell’anno effettuammo un primo tentativo il 21 giugno. In quel momento il tempo era bello e riuscimmo subito a salire 7 lunghezze, dopodiché, arrivati oltre la spalla, all’inizio del famoso traverso di 90 metri, ci infilammo nella nostra tendina da parete. A quel punto, con uno dei rivolgimenti improvvisi che avrei imparato a conoscere così bene, il tempo cambiò, e una bufera ci obbligò a rimanere seduti uno accanto all’altro per 40 ore, finché non ci vedemmo obbligati ad abbandonare il nostro primo tentativo.

Il secondo tentativo, appena il giorno seguente, abortì subito perché il tempo, che era bello al mattino, cambiò improvvisamente respingendoci di nuovo. Lasciammo così sfuriare la tempesta per alcuni giorni, e poi, appena le condizioni migliorarono, risalimmo sino al comodo crepaccio alla spalla, dove di nuovo, come una maledizione, il maltempo ci bloccò per 4 giorni. Ma quella volta non mollammo, resistemmo, e quando la tempesta sembrò essersi temporaneamente placata, riuscimmo ad arrivare all’inizio del grande traverso, dove un altro bivacco forzato di 45 ore ci mise a dura prova. Quando finalmente potemmo ripartire trovammo condizioni particolarmente difficili a causa di uno strato di ghiaccio-neve schiumoso che ricopriva tutto e che ci rallentò notevolmente. Dopo grandi peripezie, compreso il perdere i miei ramponi e il bivaccare con 30 gradi sotto zero su una crestina di ghiaccio con 1000 metri di vuoto sotto i piedi, il 7 luglio arrivammo finalmente in cima al Torre quando ormai stava facendo buio.

La conclusione del nostro secondo progetto arriva nel 1995 quando, dopo un tentativo fallito l’anno precedente con Fabio Leoni e Mauro Giovanazzi, in compagnia di Piergiorgio Vidi e Roberto Manni, riusciamo a salire la grande parete sud del Torre con una permanenza in parete di 24 giorni. Un’avventura incredibile con fatiche inenarrabili per portarci appresso un box di alluminio del peso di oltre 200 chili.

La conclusione del terzo progetto importante arriva nel 2004, ma esso ha radici lontane. Della parete est del Cerro Torre parlammo la prima volta nel 1985, quando l’amico Andrea Sarchi fu il primo che pronunciò le due parole fatali: “La Est!”. Forse le giornate che quell’anno passammo in parete durante l’invernale smorzarono i nostri bollenti spiriti, e per un po’ di tempo tutti noi, Andrea compreso, non parlammo più della Est. gli anni passarono e i miei obbiettivi si rivolsero altrove.

Il primo tentativo, nel 1999, lo feci con Mauro Mabboni. Il tentativo si concluse rapidamente perché già nei primissimi giorni una valanga proveniente proprio dalla Est seppellì la nostra truna. L’episodio fu molto traumatico per Mauro, che 5 anni prima aveva perso il suo compagno di cordata, scendendo dopo un tentativo alla Via del Compressore. Cambiammo allora obiettivo, e salimmo sullo spigolo sud-est, dove aprimmo una variante alla via di Maestri del ’70. Là dove ha inizio il grande traverso, proseguimmo diritti sullo spigolo, seguendo le tracce degli inglesi che nel ’68 avevano per primi seguito quella linea. Ma non saremmo arrivati nemmeno in cima quella volta: Mauro si fermò a metà dell’ultimo tiro, quello di Bridwell. Era mezzanotte e rinunciammo a proseguire per l’infuriare della tempesta.

Arrivò poi il tentativo del 2001, e quella volta eravamo in quattro: ero accompagnato da Mauro Giovanazzi, Walter Gobbi e Paolo Calzà. Arrivammo a circa 400 metri dalla cima, e la tempesta ci obbligò a un bivacco forzato di 85 ore, durante il quale rischiai anche di lasciarci le penne per un volo dovuto a un intossicamento di gas nella tendina appesa alla parete, quando (ma senza volo) anche Walter si intossicò. Così dopo otto giorni di sofferenza, fummo costretti a rinunciare.

Passarono poi altri due anni di attesa, in cui dovetti rinunciare – o meglio, non partii nemmeno – per l’indisponibilità dei miei compagni. Il 29 ottobre 2004 parto dall’Italia con un gruppo relativamente nuovo: Alessandro Beltrami, Matteo Rivadossi e Giacomo Rossetti. Erano tutti e tre alla loro prima esperienza patagonica. Il 2 di novembre già mi trovo in parete. Matteo però quasi subito si rende conto che non se la sente di affrontare questa salita, e così rientra. Seguono molte giornate dure ma molto produttive, in cui riusciamo a salire bene. Per altri due giorni le difficoltà tecniche di ghiaccio e di misto ci impegnano all’estremo. Alle 9 di sera dell’ultimo giorno mi trovo all’ultima sosta sotto la cima. Piango dalla felicità e dall’emozione, appoggiato con la testa alla roccia e aspettando che i miei compagni salgano a jumar. Tardano più del previsto, in quanto Giacomo deve scendere 50 metri perché la corda si è incastrata in una lama di roccia. Di questo sono però contento, in quanto riesco a stare un po’ più a lungo da solo e, egoisticamente, gustarmi questo momento. Poi saliamo sotto il fungo e con tutta calma faccio il tiro che mi porta in cima, sul punto più alto del Cerro Torre. Per la quarta volta ho l’immenso piacere di trovarmi quassù.

Sulla Est trascorsi però diversi, lunghissimi giorni della mia vita, durante i tentativi di ripercorrere la linea del ’59.

Infine, il quarto progetto è forse, personalmente, la cosa più importante che ho fatto sul Torre. Un’impresa speciale per me, per tutte le emozioni che mi ha regalato durante tanti tentativi nello spazio di dodici anni, sino al successo nel 2005, e speciale anche per un suo significato particolare, che definirei quasi storico: il mio progetto di salire la via che Cesare Maestri sostiene di aver salito insieme a Toni Egger nel 1959.

L’assillo per questa via nasce in effetti nell’ottobre 1992, quando feci un primo tentativo con Guido Bonvicini e Adriano Cavallaro. Quella volta, arrivammo a un tiro dal Diedro degli Inglesi e rinunciammo, perché la parete era carica di neve. A novembre ripetemmo il tentativo, arrivando alla base del Diedro degli Inglesi e rivivendo noi stessi un pezzo di storia dell’alpinismo, dormendo nel box che essi avevano abbandonato nel 1981. Il mattino dopo ricordo che il tempo era pessimo, e i miei soci volevano scendere. Io gli chiesi però di lasciarmi qualche ora per salire ancora: volevo arrivare al Colle della Conquista. Ero curioso di vedere quel posto, anche lui così carico di storia. Arrivammo al Colle, ma la bufera ci ricacciò indietro, e quella fu la fine dei tentativi di quell’anno.

L’anno dopo proposi questo mio progetto ad altri compagni, che però al momento di partire si tirarono indietro. Io, onestamente, non me la presi: mi rendevo conto perfettamente dell’alone di mistero e di pericolo che circondava questa via. Nel 1994 feci un altro tentativo con l’austriaco Tommy Bonapace, già esperto di quella via. Vivemmo quella volta una serie di brutte avventure, finché Tommy pronunciò quella fatidica frase che registrai con la videocamera. Mi disse: “Finish Ermanno, never more”. Intendeva che con quella via aveva definitivamente chiuso.

Gli anni passavano, io andavo e venivo dalla Patagonia, e ogni tanto il pensiero di quella via tornava ad assillarmi. Ma gli anni passavano anche per me, e a fine novembre del 2004, di ritorno dal mio abituale viaggio in Argentina, mi resi conto che dovevo muovermi: avrei compiuto 50 anni due mesi dopo, e il desiderio di completare quella via era ancora tanto. E’ da poco iniziato l’inverno ed entra in scena il grande amico Rolo, Rolando Garibotti, fortissimo scalatore italo-argentino, che mi chiede di fare qualcosa insieme. Non è la prima volta che mi contatta, anzi, sono diversi anni che si fa sentire, ma sino a quel momento ho sempre rifiutato perché so che lui è molto più giovane di me e molto più forte. Questa volta però mi sembra di non poter perdere l’occasione: gli rispondo che prima di seguirlo nel progetto che mi propone, vorrei fare un altro tentativo su quella via che mi tormenta. All’inizio Rolo non è molto convinto, ma poi accetta con entusiasmo. Il fido Alessandro Beltrami è già d’accordo.

Arriviamo a El Chaltén il 14 ottobre e già alla sera del giorno dopo siamo alla base del Torre. Il mattino seguente, quando siamo pronti ad andare in parete, nevica, e quindi torniamo al Chaltén. Nei giorni successivi, torniamo alla base altre tre volte. Saliamo i primi quattro tiri e fissiamo tre corde, finché una mattina, pronti a rimanere in parete, saliamo alla fine delle corde fisse e… si mette di nuovo a nevicare. Non possiamo infilarci su questa parete con il maltempo. La quarta volta lasciamo di buon’ora la truna alla base della parete e alle 16 siamo alla piccola spalla sopra il Colle. Scendiamo una breve corda doppia e saliamo sul versante ovest già seguito in precedenza da Orlandi-Giarolli-Ravizza. Dopo alcuni tiri ci fermiamo a bivaccare su un’ottima cengia. Il giorno seguente la parete si fa più ripida, ma Rolo sale veloce, anche se deve pulire le incrostazioni di neve per trovare le fessure. Arriviamo poi sul filo dello spigolo nord. Guardiamo oltre lo spigolo e la parete nord ci sembra fattibile.

La cima del Torre è circa 300 metri sopra di noi, ma mentre iniziamo a preparare un gradino sul quale sederci per passare la notte, il tempo peggiora di nuovo e dopo un’ora, con un nodo alla gola, decidiamo di scendere. La discesa ci porta via parte della notte. Un bivacco in piedi e al mattino giù. Nel pomeriggio una scarica impressionante.

Alle quattro del pomeriggio, dopo aver commentato la scarica con i miei compagni, vado a dormire. A mezzanotte Ale è sveglio e mi passa un pezzo di formaggio e qualche galletta. Poi mi alzo ed esco a fumare una sigaretta. Ed è quello il momento in cui mi lascio andare: il cielo è azzurro e mi assale una tristezza incredibile. Piango, e questo cielo azzurro mi ferisce a fondo. Abbiamo tolto tutto il materiale dalla parete, e non ci resta che tornare a casa. Ma lo spirito umano è una cosa strana, e piano piano, mentre continuo a singhiozzare, mi accorgo che si fa di nuovo strada in me la voglia di riprovare. Più tranquillo, verso le tre torno a dormire. Alle 6, quando ci svegliamo, pronti a preparare la roba per tornare al Chaltén, propongo ai miei soci di ritentare. Qualche secondo di silenzio e poi l’entusiasmo si riaccende.

Avremmo bisogno di riposare qualche giorno ma solo un giorno di maltempo ci permette di rimanere al Chaltén. Andiamo a dormire molto tranquilli ma la mattino, non di buon’ora, il tempo si mette al bello. Verso le 11 partiamo. In 6 ore riusciamo a salire fino alla truna che avevamo abbandonato un paio di giorni prima e subito dopo Rolo e io saliamo i primi tiri per fissare 3 corde. Il mattino seguente, molto più veloci del tentativo precedente, saliamo. A mezzogiorno siamo già al Colle e alle 16 ci troviamo nel punto più alto raggiunto nel tentativo precedente. Altri due tiri e poi il bivacco.

Il 13 novembre alle 8 del mattino riprendiamo la salita. Per fortuna, poco dopo, il sole inizia a riscaldare i nostri corpi infreddoliti. La parete è quasi verticale e molto difficile. Con altre due lunghezze su roccia e scalando fra le incrostazioni di ghiaccio riusciamo finalmente a uscire dalla parete nord. Il posto è di una bellezza da togliere il fiato. Quando raggiungo Rolo ci abbracciamo, e siamo commossi. A fatica riusciamo a pronunciare qualche parola. Ci sembra di uscire da un sogno. Un sogno durato quasi 50 anni. Sotto di noi l’impressionante parete nord non è più un problema. Con un altro tiro facile su ottimo ghiaccio raggiungiamo la via dei Ragni di Lecco.

E’ soltanto mezzogiorno, e sopra di noi gigantesche strutture di ghiaccio schiumoso ci preannunciano una difficile continuazione della salita. La Torre Egger è ormai molto sotto di noi ma la vetta del Torre ancora non si può vedere. Iniziamo una serie di tiri molto impegnativi che a turno cerchiamo di salire. Il ghiaccio non ha consistenza e a volte siamo obbligati a crearci un varco prima di trovare una certa consistenza della neve. Abbiamo solo due fittoni e siccome i chiodi da ghiaccio non tengono le protezioni sono quasi inesistenti. Non dobbiamo mollare, costi quel che costi. Intanto il cielo si è coperto e comincia a nevicare e a tirare anche un po’ di vento.

L’ultimo tiro lo facciamo a pezzi, salendone un po’ ciascuno. Il freddo a questo punto si è fatto pungente, ma alle 23.15 siamo sul punto più alto del Cerro Torre. “CUMBRE!” Ale mi ricorda che un anno fa, esattamente il 13 novembre, raggiungevamo la stessa cima dopo la salita alla parete est. Sono momenti intensi d’emozione, e dopo qualche foto scendiamo dal fungo e ci fermiamo ad aspettare il passare della notte sotto uno strapiombo ghiacciato.

Questa è la prima via nuova aperta sul Cerro Torre in perfetto stile alpino. Decidiamo di chiamare la nostra via El Arca de los Vientos (L’Arca dei Venti) e la dedichiamo alla memoria di due cari nostri Amici, lo spagnolo Pepe Chaverri e l’argentino Teo Plaza. Questi due grandi uomini già nel 1994 sposavano lo stile alpino, facendo una grande salita sulla Standhardt.

La nostra via si sviluppa salendo lungo il diedro iniziale salito da Egger, Fava e Maestri nel ’59. Dal punto più alto raggiunto da loro abbiamo continuato al Colle della Conquista lungo placche a sinistra della via Americana alla Torre Egger. A questo punto abbiamo girato a destra, salendo lungo la parete nord-ovest per parecchi tiri, per poi portarci allo spigolo nord. Alla fine della parete nord abbiamo raggiunto lo sperone ovest lungo il quale siamo andati in cima. Il tutto per superare i 1200 metri di parete.

Ecco quindi i miei quattro grandi progetti: la prima invernale, la Sud, la parete est, l’Arca. Quattro progetti che si sono concretizzati nel corso di più di vent’anni a costo di indicibili fatiche e sofferenze, ma che mi hanno dato enormi gioie e soddisfazioni. Nel corso degli anni, questi progetti si sono intrecciati con tante altre salite e tentativi, e con un altro grande sogno che, come dicevo, solo per un soffio non sono riuscito a concretizzare. Già dal 1989 infatti avevo concepito l’idea di un “grande traverso”: concatenare la salita alle quattro sorelle del gruppo del Torre: Cerro Standhartd, Punta Herron, Torre Egger e Cerro Torre. Durante l’ultimo tentativo a questa impresa, nell’autunno 2006, riuscimmo a salire le prime tre cime, ma al momento di attaccare la salita finale fu ancora il tempo a dirci di no: il troppo caldo, quella volta, e non il freddo rendeva troppo instabili parti di funghi e materassi di ghiaccio. Salire in quelle condizioni sarebbe stato troppo rischioso, e così decidemmo di rinunciare. Neanche due mesi dopo, Rolando Garibotti e l’americano Colin Haley imbroccavano un periodo di condizioni meteorologiche eccellenti e con quattro giorni di arrampicata a massimo livello riuscivano a completare la ormai famosa “Torre’s Traverse”.

Fino al 1992 non mi ero mai espresso ufficialmente sulla salita di Maestri, Egger e Fava del 1959. Tornato a casa, quell’anno, mi sentii di poter dire la mia sulla salita di Maestri. Il mio interlocutore era Ken Wilson, il grande inquisitore di Maestri. Non era ancora il tempo di internet e i nostri scambi di opinioni passavano attraverso la posta o al massimo via fax. A quel tempo credevo nella salita di Maestri, Egger e Fava. Di un motivo per cui difendevo Maestri parlerò in seguito.

Oltre all’Arca, come ho già detto, avevo fatto anche  il tentativo, terminato all’inizio del primo nevaio, con l’austriaco Tommy Bonapace, già reduce da diversi tentativi a questa parete.

Altre volte sarei voluto tornare su quella linea ma quando proponevo questo progetto mi sentivo sempre dire di no. Anche da solo avrei voluto provare ma poi, per fortuna, capii che non era certo il caso di infilarmi su una parete simile in solitaria.

Quello che mi accingo a scrivere è una semplice raccolta di quello che è stato detto e scritto al riguardo di quella di cui Maestri si appropriò come prima salita al Cerro Torre del 1959: cercherò di commentare, criticare, avvalorare, negare, smentire, chiarire.

Vorrei tanto che fosse ancora presente il mio amico Daniele Chiappa, primo salitore al Torre nel 1974 con Casimiro Ferrari, Pino Negri e Mariolino Conti. Sarebbe felice di essere qui con me a scrivere quella che sarà una bomba a direzione unica sul mondo dell’alpinismo. Di certo non apparirà come quel buon progetto di Giorgio Spreafico Enigma Cerro Torre, privo di un finale o del piacevolissimo, anche se duro, Grido di pietra di Reinhold Messner.

Libri e riviste da cui sono tratte le citazioni
Arrampicare è il mio mestiere (1961), di Cesare Maestri. E’ il suo primo libro, con la sua storia da Roma a Trento e tante sue scalate. Il libro che racconta anche le sue due spedizioni in Patagonia negli anni 1958 e 1959.

Bollettino della SAT. Nato nel 1904, come rivista della Società Alpinisti Tridentini, sostituiva gli Annuari che dal 1874 costituivano, assieme alla costruzione dei primi rifugi e al mantenimento dei primi sentieri, una delle principali fatiche della società.

Rivista Mensile del CAI. Nata nel 1882 è la rivista ufficiale del CAI (Club Alpino Italiano). La rivista aveva attraversato tutto il periodo esplorativo, l’epoca del sesto grado e ben due guerre mondiali, più un dopoguerra affamato di eroismo e di imprese a livello popolare.

… E se la vita continua (2002), di Cesare Maestri. Le imprese alpinistiche che lo hanno fatto conoscere in tutto il mondo come il “Ragno delle Dolomiti”. Il libro si sofferma anche sulle vicende della sua vita dispiegatasi, sino alla giovinezza, tra difficoltà e miserie di ogni genere (i suoi erano attori di una compagnia itinerante). Poi le grandi imprese, il successo, il benessere, ma anche i momenti di infelicità e di dolore che sembrano rimettere tutto in discussione.

Patagonia, Terra di sogni infranti (1999), di Cesarino Fava, è l’autobiografia di un emigrato trentino in Argentina che, dopo aver visto la Patagonia, un giorno scrisse a Cesare Maestri “Qui c’è pane per i tuoi denti”. Così ebbe inizio la storia del Cerro Torre. Una storia di uomini, con le montagne più selvagge della terra come testimoni.

Enigma Cerro Torre (2006), di Giorgio Spreafico. Questo libro-inchiesta esplora l’enigma dando per la prima volta voce a tutti i salitori del Grido di Pietra coinvolti.

Aspettando un chiodo (2007), di Marco Grandi. La semplice registrazione del dibattito sulla polemica del Torre 1959 avvenuto a Lugano l’11 maggio 2006.

Altre citazioni e brani sono da Rendena 16, Mountain, La Montagne, Corriere della Sera ed Epoca.

Per rendere il tutto più comprensibile dividerò il Torre in vari pezzi e a ogni pezzo farò i miei commenti.

Introduzione
La storia del Cerro Torre possiamo dire che inizi nel 1953. Cesarino Fava di Malè (Trento), lasciò l’Italia per cercare lavoro recandosi in Argentina. Quando Fava lesse le dichiarazioni di Lionel Terray, primo salitore del Fitz Roy insieme a Guido Magnone pensò che quella montagna impossibile poteva essere scalata dal suo conterraneo Maestri, il Ragno delle Dolomiti. Gli scrisse così una lettera.

“Sembrava la solita lettera di un ammiratore ma concludeva invitandomi laggiù per tentare di salire una montagna chiamata Cerro Torre che secondo lui era pane per i miei denti. Una montagna della quale si diceva che il solo pensiero di salirla era cosa vana e ridicola (… E se la vita continua)”.

Nella sua prima lettera Fava diceva: “Questo è pane per i tuoi denti (Arrampicare è il mio mestiere, pag. 57)”.

Molte lettere intercorsero fra Maestri e Fava. Nell’estate 1957 Fava venne in Italia e si incontrò con Maestri e coi fratelli Detassis. Il 19 dicembre salpò la nave da Genova la spedizione trentina per tentare la salita del Cerro Torre. Il gruppo era composto dai fratelli Bruno e Catullo, Marino Stenico, Cesarino Fava, Cesare Maestri e Luciano Eccher. Il capo spedizione era Bruno Detassis. Bruno però vede il pericolo in quella montagna e dice: “Il Torre è una montagna impossibile, e io non voglio mettere a repentaglio la vita di nessuno. Pertanto, nella mia qualità di capo spedizione, vi proibisco di attaccare il Torre.”

Da Arrampicare è il mio mestiere:
“Catullo e Marino sono con lui: Eccher e Fava sono invece d’accordo con me, di mantenere l’impegno di salirlo. Ma infine i miei sogni crollano e devo obbedire anche per sfatare la leggenda che mi vuole ribelle a ogni imposizione, mi allontano, abbandono la discussione”.
“Abbiamo una famiglia”, hanno detto gli altri e così hanno giustificato la loro decisione.
Domani risaliremo al Cerro Grande. D’ora in poi, ogni passo, ogni movimento mi allontanerà sempre più dal Torre”.

Si dedicarono così alla salita di numerose cime minori.

Le parole di Detassis erano giuste. Quella montagna per quei tempi era impossibile. Anche Daniele Chiappa, il “grande” che con Casimiro Ferrari, Mario Conti e Pino Negri, raggiunse la vetta del Torre nel 1974, avrebbe voluto fare una domanda agli alpinisti del mondo: “Per quell’epoca sarebbe stato possibile scalare il Torre?”

C’era molto astio fra Maestri e Bonatti. Dal lontano 1954 quando Maestri dovette rimanere a casa dal K2 per non essere risultato idoneo ai test a cui era stato sottoposto. Cosa che poi non risultò vera e sembra che Maestri sia stato lasciato a casa perché era semplicemente una persona scomoda da portare in spedizione. Forse solo la sua anarchia aveva contribuito a quella decisione. Fatto è che venne lasciato a casa mentre Bonatti poté partire. Perché? Erano tempi di competizione nell’alpinismo. Accadeva anche sulle Alpi e di esempi ce ne sono diversi. Quell’anno Bonatti e Mauri attaccarono il Torre e riuscirono a salirne la prima parte sul versante ovest fino al Colle che chiamarono Colle della Speranza.

Il commento di Maestri che apparì per la prima volta in una rivista italiana e poi in francese sulla rivista La Montagne, fu interpretato da molti come una punzecchiatura a Bonatti e Mauri che diedero il nome “Colle della Speranza”. “In montagna non esiste la speranza, solo la voglia di conquistare. La speranza è l’arma del povero”.

Nel ’58 al Torre c’erano anche Bonatti e Mauri. Già nel ’58 Maestri era tornato a casa con l’amaro in bocca per non aver potuto nemmeno toccare il Torre. Il nome che Maestri dette all’intaglio fra il Cerro Torre e la Torre Egger (mai raggiunto, dico io) fu Colle della Conquista.

Da … E se la vita continua:
“L’arrivo del gruppo creò una pesante atmosfera di disagio che nemmeno la bellezza della natura riuscì a dissipare. C’era nell’aria una tale sensazione di tensione che sembrava di sedere su un barile di dinamite. E in quello stato d’animo ci accingevamo entrambi ad attaccare la montagna più difficile del mondo.
Per fortuna i contatti furono rari e gli scontri limitati. Racconto il più significativo. Mentre passeggiavo da solo per la pampa fui fermato da un giovane italo-argentino capo organizzatore della spedizione Bonatti. Dall’alto del suo cavallo, il gradasso, spacciandosi per il Governatore della provincia di Santa Cruz, mi impose di lasciare la zona entro 24 ore. Io non mi scomposi. Estrassi la pistola che portavo con me per allontanare qualche puma troppo invadente e puntandogliela sotto il naso gli dissi solo: “E io ti do trenta secondi per sparire dalla mia vista”.
Cosa che lo spaccone fece immediatamente e senza fiatare”.

Poi, i componenti delle due spedizioni si videro quando, lo stesso giorno, tentarono di fare una prima ascensione al Cerro Adela. Scalando dalla parte opposta della cima, Maestri scorse Bonatti e Mauri vicini alla vetta ma gli fu impossibile sorpassarli. Quando Maestri arrivò in cima, racconta in un articolo di Mountain: “Trovammo la neve tutta gialla dove avevano pisciato. È stato il loro saluto a noi”.

Mentre nel suo libro Arrampicare è il mio mestiere dice:
“Noi continuiamo a salire e già assaporiamo il piacere di un’altra vittoria quando, a pochi metri dalla cima della Adela Centrale, vediamo due uomini salire veloci. Forziamo l’andatura e puntiamo sull’Adela Nord, ma i due hanno troppo vantaggio su noi. Saliamo con un ritmo e una velocità impressionanti, ma Luciano poco dopo mi chiede di riposare. Superiamo un crepaccio profondissimo e largo, poi è la volta della crepaccia terminale. Perdiamo un po’ di tempo, ma riusciamo a superarla. Forzo l’andatura, ma Luciano mi chiede ancora di riposare. Piangerei dalla rabbia.
A pochi metri dalla vetta incontriamo Bonatti e Mauri che stanno scendendo. Ci salutiamo, ci scambiamo un po’ di viveri e ognuno di noi continua per la sua strada”.

Perché queste descrizioni così diverse? La seconda è quella veritiera. Un’altra volta Maestri non appare tanto simpatico al mondo alpinistico con le sue esternazioni sulla rivista Mountain. Il tutto sicuramente per l’astio che c’era con Bonatti.

Maestri comunque al Torre ci vorrà ritornare perché, sempre sul Bollettino della SAT del 1959, nel suo diario dice: “Lasciai la mia piccozza al Circolo Trentino di Buenos Aires con la promessa che sarei ritornato a riprenderla per piantarla sulla cima del Cerro Torre”.

Maestri voleva salire il Torre, anzi, doveva farlo. Non sarebbe potuto tornare a casa senza la cima. Prima della fine dell’anno Maestri è di nuovo in Patagonia con Toni Egger (austriaco) e Cesarino Fava. Insieme a loro ci sono anche 4 studenti argentini che li aiuteranno per il trasposto del materiale. Sono Juan Spikermann, i fratelli Gianni e Augusto Dalbagni e Angelo Vincitorio.

A differenza che nell’anno precedente, questa volta, il viaggio per l’Argentina si svolge in aereo. Raggiunta la Patagonia con un camion la spedizione viene ospitata all’estancia Fitz Roy. Inizialmente, con l’aiuto dei 4 studenti, effettuano i carichi ai campi. Istallano così il campo base poco sotto la laguna Torre, poi il campo II al Mocho e il III vicino alla base della parete, dove scavano una truna.

Poi ha inizio il lavoro di attrezzatura del primo diedro di circa 300 metri durato quasi 5 giorni. A questo compito pensano Maestri, Egger e Fava. Dopo questa prima fase, un periodo di diversi giorni di brutto tempo, tiene gli alpinisti lontani dalla parete. Poi il ritorno del bel tempo. Il 28 gennaio i tre attaccano il Torre. Il primo giorno raggiungono il Colle della Conquista verso le 16 del pomeriggio. Fava scende solo e rimarrà in truna fino al ritorno di Maestri. Il giorno 29 Egger e Maestri salgono circa 300 metri. La salita prosegue e il giorno 1 febbraio Maestri ed Egger sono in vetta al Cerro Torre. Il tempo cambia e inizia la lunga discesa. Il giorno 3 febbraio, alle ore 19, Egger e Maestri si trovano sul nevaio triangolare a meno di 100 metri dalle corde fisse. Egger vorrebbe scendere e Maestri preferirebbe bivaccare. Mentre Maestri cala Egger una scarica di ghiaccio spazza via Egger. Maestri rimane solo e il giorno dopo riprende la discesa. Sul ghiacciaio, sfinito, lo ritrova Fava. Questa, in modo alquanto sintetico, è la storia di quanto accaduto al Torre dai resoconti di Maestri e Fava.

Il fortissimo alpinista francese Lionel Terray definì la salita di Maestri ed Egger “la più grande impresa alpinistica di tutti i tempi”. Sicuramente ancora oggi verrebbe definita tale se fosse stata realizzata nell’ormai lontano 1959. Nel 1974 una spedizione anglo-americana ritrova i resti di Egger sul ghiacciaio.

Lo scetticismo non apparve pubblicamente fino a quasi 10 anni dopo la scalata, quando uno dei rivali di Maestri, l’italiano Carlo Mauri, pubblicò un articolo in una rivista nel quale si riferisce al Cerro Torre come cima mai scalata. Mauri era recentemente ritornato da un secondo tentativo fallito di scalare la cima dalla parete ovest, ed era stato sconfitto tanto amaramente che aveva giurato di non tornarci mai più. Mauri scrisse che, l’alpinista che riuscirà a fotografare le formazioni assomiglianti a gelati della cima, potrà sostenere onestamente di avere superato i limiti dell’estrema difficoltà. Egli non menzionò mai, esplicitamente, la Via Maestri/Egger; ma il suo articolo avrebbe aperto la strada ad altri scetticismi. Per questo motivo e per quello che dissero gli inglesi che provarono lo spigolo sud-est nel 1968, Maestri tornò al Torre nel 1970 e con l’aiuto del compressore arrivò alla base del fungo sommitale del Torre.

Successivamente furono i britannici a mandare avanti l’indagine, in particolare Ken Wilson, redattore della rinomata rivista Mountain dal 1968 al 1978. Wilson è stato uno dei primi a continuare l’attacco iniziato da Mauri. Negli ultimi 30 anni Wilson è la forza dietro la controversia Cerro Torre. Ha scritto o pubblicato la maggioranza degli articoli sull’argomento, tutti sospettosi dell’affermazione di Maestri. La critica principale di Wilson è che Maestri si rifiutò di discutere i veri dettagli della sua “più grande scalata”. “Se tu avessi fatto la più difficile scalata del mondo, non vorresti parlarne?” chiede Wilson. “Perché Maestri si rifiuta di discutere la scalata del 1959? Il fatto che si rifiuta di rispondere alle domande del 1959 lo condanna al buio assoluto. Ha distrutto una testimonianza storica”. Wilson non crede che la reticenza di Maestri sia giustificata dall’orgoglio ferito o da una riluttanza a rivivere il trauma, spiegazioni suggerite dagli sostenitori di Maestri. Ha notato ben quattro interviste separate in cui Maestri evitò o cercò di evitare discussione della scalata del 1959. “Quando intervistai Maestri a Madonna di Campiglio nel settembre 1998, si comportò come se la scalata del 1959 non fosse mai stata fatta. Prima dell’intervista ero stato avvertito dai suoi amici di evitare il discorso”.

Maestri ha avuto numerose opportunità di presentare uno scenario credibile in conferenze, interviste e articoli sulle riviste, ma invece ha continuamente fallito nel fornire una descrizione convincente. Ancora oggi la controversia rimane irrisolta. Come per la storia del K2 doveva o dovrebbero essere il CAI e la SAT a prendere in mano questa faccenda per mettere ufficialmente la parola fine. Questo lo disse anche Cesarino Fava.

Moltissimi tentativi sono stati effettuati nel corso degli anni da molti alpinisti fra i più forti del mondo. Solo nel 2005 con Rolando Garibotti (italo-argentino) e Alessandro Beltrami siamo riusciti nell’intento. La via da noi seguita e chiamata El Arca de los Vientos segue in buona parte la linea che Maestri disse di aver percorso nel ‘59.

Qualche anno fa avevo un sogno. Quello di invitare Maestri e Fava a casa mia a bere una bottiglia di vino. Avrei voluto fargli semplicemente una domanda anticipando che la cosa sarebbe rimasta per me. “Ditemi come sono andate veramente le cose laggiù”. Sogno era e tale è rimasto.

Se un giorno Maestri raccontasse come sono andate le cose credo che il mondo alpinistico lo ringrazierebbe. Io sarei il primo a farlo, direi che potrei non accettare ciò che per tanto tempo è stato nascosto ma capirei il perché è stata raccontata quella storia, la storia della salita al Torre.

Molto esaustiva è la prima parte del dossier scritto da Rolando Garibotti e pubblicato dall’American Alpine Journal 2004, che dice: “Se qualcuno vi dicesse di avere appena corso 100 metri in 20 secondi, scrollereste le spalle e direste: “e allora?” Invece, se qualcuno vi dicesse di avere impiegato 9 secondi sareste esterrefatti e scettici, e vi verrebbe naturale chiederne le prove. I racconti di alpinismo a volte rientrano nell’ultima categoria, e se le prove non sono sufficienti, ci si ritrova a dover fare i conti con lo scottante problema di come valutare le varie rivendicazioni”.

Dal diario di Maestri, Bollettino SAT marzo-aprile 1959:
“Mi resta solo un ricordo e una pesante cartella piena di lettere e fogli. La cartella contiene la prima lettera scrittami nel 1953 da Fava, il quale, mi parla della possibilità di effettuare una spedizione al Cerro Torre. Contiene la lettera del signor Manfredo Segre, presidente dell’allora sezione del C.A.I. di Buenos Aires, dove, dopo avermi proposto di partire sotto il Suo patrocinio, si augura di vedermi «capitaneggiare un plotone di alpinisti che dovrebbe piantare la bandiera Italiana sulla cima del Cerro Torre». Solo nel 1956 riusciamo quasi a formare la spedizione, ma per opera del Circolo Trentino di Buenos Aires, essendosi sciolta, per beghe interne, la sezione del C.A.I.. Riusciamo a partire solamente nel dicembre del 1957 con una spedizione patrocinata dalla S.A.T. e dal Circolo Trentino di Buenos Aires e comandata dalla guida Bruno Detassis. In mare veniamo a sapere che il signor Folco Doro d’Altan ha pagato il biglietto in aereo a Bonatti e Mauri per essere gli uomini di punta di una spedizione Italo-Argentina. Nessuno arrivò in cima, anche perché il nostro capo spedizione dichiarò il Torre impossibile e quindi ci proibì dì attaccarlo”.

E ancora:
“Nell’estate del ’58 ognuno preparò la spedizione al Torre per conto proprio, chi parlandone, chi in silenzio”.
“Nell’autunno del ’58 i francesi chiesero al C.A.I. se questi patrocinasse Spedizioni ufficiali al Torre. Il C.A.I. rispose di no e dava per tanto ai francesi campo libero. Couzy scrisse a Bonatti che cosa avesse intenzione dì fare, ma nessuno si ricordò che anch’io avevo la mia parte di diritti su questa montagna”.
“Seppi da vie indirette e in modo inesatto di questo carteggio fra i Francesi e gli Italiani”.
“La notizia della morte di Couzy mi colpì duramente. Non lo conoscevo personalmente, però lo stimavo e lo avevo sempre classificato il più forte e più completo arrampicatore del mondo. Pur non avendomi interpellato, non mi sarei mosso da Trento se avessi saputo che Couzy fosse partito alla volta del Cerro Torre. Solo dopo la sua morte partii per Buenos Aires, dopo aver racimolato 2 milioni e mezzo di lire. Non ci fu nessun aiuto ufficiale; Toni Egger partecipò con 250 mila lire e così partii in silenzio, solo, alla volta di Buenos Aires. Non mi piacciono le fanfare suonate alla partenza, preferisco quelle suonate all’arrivo”.

Da Arrampicare è il mio mestiere:
“Partirò per il Torre. Mi aggrapperò alle sue pareti con la forza della disperazione. Salirò sulla sua cima. Con il compagno o senza”.
“Il denaro degli amici, il fatto di aver impegnato tutti i miei risparmi, di aver venduto la macchina, di aver dichiarato che il Torre “non è impossibile”, di aver promesso a me stesso che arriverò in cima”.

E ancora:
“Con semplice cerimonia il Circolo Trentino, attraverso il suo Presidente, alla presenza del delegato del CONI dottor Gorla e del segretario dell’Ambasciata dottor Ugolini, mi consegnano le cinque bandiere dell’Italia, Austria, Argentina, di Trento e della SAT, e mi restituiscono la piccozza lasciata da me in pegno quale promessa di ritornare al Cerro Torre”.

Maestri era rimasto senza compagno, Claudio Baldessari, in quanto il Ministero della Difesa gli negava il permesso per la partenza. Cesare Maestri non l’avrebbe mai fatto di chiedere a Bonatti di andare al Torre insieme ma, se non fosse successo quanto invece accadde nel corso della Spedizione 1957-58, Bonatti sarebbe stato disposto ad andare con Maestri, se questi glie lo avesse chiesto. Questo mi è stato confermato dallo stesso Walter Bonatti al telefono nel maggio 2009. Nel dicembre 1958 solo la spedizione di Maestri parte per il Torre.

Ermanno Salvaterra

Il diedro iniziale
Dal diario di Fava, Bollettino della SAT marzo-aprile 1959:
“Il primo chiodo sul Torre”
“Il 6 gennaio Cesare e io partiamo all’attacco del Torre e sotto l’infuriar della tormenta alle dodici e venti il primo chiodo, della lunga serie, entra nella parete nord-est di questa bellissima e temibile guglia andina. A sera ritorniamo fradici. (…)

Da Arrampicare è il mio mestiere:
6 gennaio
“Oggi è stata una brutta giornata. Siamo partiti tardi e, sotto una pioggia minuta, abbiamo portato viveri e materiale alla base del Torre. Non ho saputo resistere; alle 12.20 ho piantato il primo chiodo alzandomi una ventina di metri. (…)
Aggancio la prima staffa. Ecco, Torre, siamo arrivati. Con chiodi, trapani, corde e scale; con la ferma volontà di vincere, e non ci sarà vento, neve, paura, che ci farà desistere questa volta. “Salgo una filata di corda. Il tempo continua a peggiorare e dobbiamo ritornare al campo II, dove troviamo tutti e quattro i ragazzi”. (…).

Da … E se la vita continua:
“Alle 12.20 del 6 gennaio non seppi resistere. Superai la crepacciata terminale e sotto una leggera pioggia attaccai la parete del Torre. (…) Mi innalzai per un paio di filate di corda, quel tanto per dimostrare a me stesso che la nostra sfida era incominciata, e ritornammo al campo 2 dove trovammo i ragazzi orgogliosi di quello che stavano facendo”. (…).

Da Arrampicare è il mio mestiere:
10 gennaio
“Risaliamo lungo la corda fissa i metri che avevamo lasciati attrezzati e continuiamo per altri cento metri circa”. (…).
12 gennaio
“A circa centocinquanta metri dall’attacco, il diedro si è fatto strapiombante e bagnato. Oggi sono riuscito a salirne solo trenta metri”. (…).
13 gennaio
“Sono le 6 quando arrivo al punto massimo raggiunto ieri. Abbiamo ancora tre ore di tempo prima che il nevaio sopra la testa cominci a scaricare. Infatti si ridesta verso le 9, con puntualità cronometrica”. (…).
“Non c’è la possibilità di piantare chiodi, non mi resta che incominciare a usare i chiodi a espansione. Faccio un buco nel duro granito con il piccolo perforatore. Per forare due centimetri e mezzo di profondità ci voglio 35 o 40 minuti, su per giù cinque o seicento colpi di martello sulla piccola punta”. (…).
“E’ quasi sera e rifacciamo per l’ennesima volta la discesa lungo le corde fisse”.
15 gennaio
“Proseguo oltre Toni e continuo per il canale ghiacciato poi, stanco di essere continuamente investito dalle scariche, preferisco attaccare uno strapiombo sulla faccia sinistra del diedro. Verso la fine del pomeriggio sbuco sulla cima del diedro vedo che questo è terminato”. (…).
“Il nevaio e il diedro in alto non sembrano difficili come il primo”. (…).
“Sono circa le 9 di sera quando trascinando i piedi e barcollando attraverso il ghiacciaio ci riportiamo sfiniti al campo III. Ho la febbre, sto male e la testa mi gira. Non ho alcun desiderio di mangiare. Mi butto nel sacco-piuma e sono scosso da brividi di freddo”.

Da Arrampicare è il mio mestiere:
“Ormai si può dire che, fatto questo tremendo diedro, siamo alla forcella; poi dovrebbero rimanere circa seicento metri”.

Da Rivista Mensile del CAI, 1961:
“Il giorno 9 cominciamo il duro lavoro di salire e scendere per la parete est attrezzando con corde fisse i metri di parete che faticosamente conquistiamo”. (…). “Decidiamo di attaccare il gran diedro che porta a un piccolo nevaio e successivamente a una forcella situata a nord del Torre.
Il tratto per arrivare al nevaio pensile è di circa 300-350 metri e parte del ghiacciaio sottostante a quota 1850 metri. Questo diedro che presenta difficoltà di quinto e sesto grado con lunghissimi tratti di sesto grado artificiale e artificiale a espansione, è stato attrezzato con corde fisse fino al suo termine dove abbiamo posto un piccolo magazzino depositando tutto il materiale rimasto.
Fin qui usiamo, per superare questo tratto di parete, circa 80 chiodi, cinque dei quali a espansione e lasciamo attrezzato il tratto usando circa 50 chiodi ai quali sono assicurati circa 300 metri di corda di canapa dallo spessore di 12 mm”.

Dal diario di Fava, Bollettino della SAT marzo-aprile 1959:
“Più giorni di lavoro estenuante è costato il superamento del diedro strapiombante alto circa 300 metri; tre giorni durante i quali Cesare, tra corde, staffe e chiodi a espansione ha ballato una tarantella agghiacciante. Alla fine esce sul ghiacciaietto pensile appoggiato sulla sommità del diedro. Lui e Toni scendono al campo tre stanchi ma soddisfatti del lavoro fatto e per avere attrezzato la prima parte”.

Da PATAGONIA, Terra di sogni infranti:
“Individuiamo la via e ci leghiamo senza pensare all’accaduto. E il pomeriggio del 10 gennaio 1959 saliamo la prima lunghezza di corda di ottanta metri sulla parete Est del Cerro Torre. (…) Fermi su una minuscola terrazza a un centinaio di metri dalla base,” (…).

Considerazioni sul primo diedro
Credo di poter dire che questo diedro lo conosco abbastanza bene avendolo ormai percorso 6 volte. La descrizione del diedro corrisponde perfettamente e chiunque lo percorre si potrà rendere conto dell’accuratezza nella descrizione. In loco ormai non si trovano molti dei chiodi usati nel ’59. Forse di quelli dell’epoca ne rimangono una decina. Qualche altro chiodo è stato lasciato dalle spedizioni successive. Degli alcuni chiodi a pressione usati, attualmente (anno 2009) ne rimane solo uno a una sosta. Forse un paio sono stati tolti dal ghiaccio che si forma in quel tratto di parete e altri due sono a casa mia.

Il diedro iniziale presenta difficoltà fino al VI+ con un breve tiro di A1. Se vogliamo entrare nei particolari:
170 metri dal IV al V+;
20 metri A1;
50 metri VI e VI+;
40 di ghiaccio e/o misto facile.

A questo punto, nonostante siamo solo all’inizio della scalata, qualche considerazione va fatta. Per me questo primo diedro è sempre stata la parte meno impegnativa e l’unica divertente dei 1200 metri che portano alla vetta. Quando si oltrepassa il primo nevaio triangolare la parete cambia aspetto e diventa molto più severa e repulsiva.

Gli inglesi hanno fatto un calcolo approssimativo di quanto avrebbero dovuto impiegare Maestri ed Egger per portare a termine la salita tenendo conto della velocità con cui salirono il diedro iniziale. Con una semplice proporzione il tempo di salita dei rimanenti 900 metri di parete sarebbe dovuto essere di circa 12 giorni.

Dal deposito per arrivare al nevaio triangolare bisogna salire ancora un tiro di corda.

Perché le descrizioni della prima parte della salita sono molto precise e corrispondono al terreno esistente e oltre quel punto, tutto è molto vago, e non corrispondente alla parete?

La fatica
Causa le condizioni del tempo il giorno 20 scesero tutti all’Estancia Fitz Roy. Dal 17 al 23 gennaio il tempo è sempre brutto.

Il diedro iniziale di 300 metri circa, presenta difficoltà meno impegnative del tratto superiore del loro supposto tragitto, e considerando lo sforzo che Maestri descrive nel salire il diedro inferiore, non si può fare a meno di chiedersi come nel giro di due settimane siano riusciti ad acquisire quel surplus di prestanza fisica e abilità necessarie a completare la fantastica scalata che successivamente avrebbero reclamato. Da chiedersi anche come mai nei loro racconti della scalata non si fa riferimento alla fatica e agli sforzi che il Torre richiede oltre il diedro iniziale. Quasi come se il primo diedro avesse richiesto un grande sforzo e poi i rimanenti 900 metri, dico 900, si fossero svolti su difficoltà nettamente inferiori e su terreno tranquillo. Sinceramente in tutte le 6 volte che ho salito questo diedro mai sono tornato giù distrutto dalla giornata o dalle poche ore richieste per salire il diedro. E in tutte queste occasioni mi è capitato di percorrerlo in ogni condizione. Con il caldo e le scarpette d’arrampicata in pochissime ore o in pessime condizioni e con i ramponi ai piedi e tutto il giorno di lavoro. Forse la storia della fatica non è di una grandissima importanza ma sicuramente può far riflettere.

Da Arrampicare è il mio mestiere:
12 gennaio
“E stata una grossa fatica… (…) Oggi sono riuscito a salirne solo trenta metri.” (…).
13 gennaio
“Ogni metro quassù costa fatica, la parete e molto difficile, liscia e strapiombante, ma mi alzo, lentamente, un metro dopo l’altro.” (…).
“Sono molto stanco.” (…).
15 gennaio
“Sono sfinito, ed è solo l’inizio della giornata.” (…).
“Sotto di me 300 metri di dura parete sono fatti, un altro ostacolo e superato, ma a questo punto sono veramente sfinito. (…).
“Ho continui crampi alle braccia e le mani rovinate” (…).
16 gennaio
“Io sono sempre molto stanco, non posso alzarmi. E’ salito il dottore; povero Angelo, era molto preoccupato. Mi ha consigliato di riposare e mangiare”. (…).
15 gennaio
“Sono circa le 9 di sera quando trascinando i piedi e barcollando attraverso il ghiacciaio ci riportiamo sfiniti al campo III”. (…).

Da Rivista del CAI, 1961
“Il giorno 9 cominciamo il duro lavoro di salire e scendere per la parete est attrezzando con corde fisse i metri di parete che faticosamente conquistiamo”.

Dal primo nevaio al Diedro degli Inglesi
Siamo ora al nevaio triangolare. Prima di passare alle descrizioni di Maestri e Fava nei loro scritti e detti, vorrei descrivere le possibilità che ci sono per arrivare al famoso diedro degli Inglesi dal termine del diedro iniziale-nevaio triangolare.

In questo tratto ci sono 4 possibilità:
1) Lo sperone di destra seguito da Bragg/Donini/Wilson, Wyvill/Campbell-Kelly e Proctor/Burke e successivamente da Orlandi/Giarolli. Lo sperone presenta difficoltà molto alte (circa 5.10);

2) La goulotte, appena a sinistra dello sperone suddetto, che a destra del nevaio triangolare. La goulotte è stata salita per diversi anni dagli austriaci Toni Ponholzer, Tommy Bonapace e compagni e da altri alpinisti impegnati in questa salita. Sicuramente è stata la linea più seguita in tutti questi anni. La goulotte risulta molto difficile con pendenze di 80° – 90°;

3) Le placche che si innalzano al termine del nevaio seguite da Ermanno Salvaterra, Guido Bonvicini e Adriano Cavallaro nel secondo tentativo del 1992. Seguite di nuovo nel 2005 con Garibotti e Beltrami nel corso dei due tentativi e anche nel 2009 con Roberto Pedrotti e Andrea Reboldi. Il primo tiro si svolge su terreno misto con difficoltà di V grado ma i tre successivi offrono passaggi superiori al VII grado. Dopo queste 4 lunghezze ci si sposta verso destra per entrare in un canale di neve-ghiaccio che porta con altre due lunghezze di corda al diedro degli Inglesi. Con un altro tiro si raggiunge lo spigolo dove termina la parete est e inizia la parete nord;

4) La linea completamente a sinistra la percorsi nel mio primo tentativo con Cavallaro e Bonvicini in quanto la parete era molto sporca di neve. Una variante completamente inutile e fuori da ogni logica alpinistica.

Tutte e 4 le possibilità di salita oltre il primo nevaio terminano nello stesso canale. Da questo canale nevoso (45°) dopo una lunghezza si può continuare verso sinistra al Diedro degli Inglesi o verso destra con un tiro su roccia-misto allo spigolo dove termina la parete est e inizia la parete nord.

Da Arrampicare è il mio mestiere:
27 gennaio
“Abbiamo riposato e atteso che la parete attrezzata si liberasse dalla neve”.
Aspettano che il Torre si liberi dalla neve. Si può liberare dalla neve solo la parte bassa?

Da … E se la vita continua:
“Salutammo gli amici estancieros e carichi come muli salimmo verso i campi superiori. Il sentiero era coperto da mezzo metro di neve e a mano a mano che ci avvicinavamo al Torre ci rendemmo conto che il maltempo, che aveva imperversato per due settimane, aveva ricoperto le sue pareti di uno spesso strato di neve rendendolo tutto bianco come un fantasma.
Era chiaro che il Torre aveva assunto una veste invernale. La sua parete nord, corrispondente alla parete sud del nostro emisfero, quindi la meno verticale delle pareti, era così colma di neve da sembrare una parete di ghiaccio che avremmo potuto superare con ramponi e piccozza.
Discutemmo a lungo di quel problema e all’unanimità decidemmo che era giunto il momento di attaccare definitivamente il Torre per approfittare di quelle condizioni di innevamento”.

Prima di tutto il tempo non aveva “imperversato” per due settimane ma solo per 8 giorni come risulta dal diario sul libro Arrampicare è il mio mestiere. Chiunque sia stato sul cammino che porta alla base del Cerro Torre sa benissimo che la parete nord della montagna non si può vedere perché nascosta per cui non è ammissibile accettare un commento simile.

E cosa vuol dire che una parete, essendo meridionale, è meno verticale?

Dal diario di Maestri, Bollettino SAT marzo-aprile 1959:
“Risaliamo velocemente usufruendo delle corde fisse: il primo diedro e poi il secondo arrivando dopo 11 ore alla piccola forcella a nord del Torre”.

Anche questa descrizione mi sembra molto riduttiva, due righe, per descrivere una salita di oltre 700 metri sul Cerro Torre. E non si tratta di una passeggiata o di una salita semplice di III o IV grado.

Dal diario di Cesarino Fava in Patagonia, Terra di sogni infranti:
28 gennaio. – Nel cielo nero brillano ancora le stelle, quando a braccia saliamo su per le corde del grande diedro assicurati con un prusik. Arrampicando fra due simili campioni mi sento tanto sicuro che mi vien voglia di gridare dalla gioia. L’entusiasmo è alle stelle, la volontà non manca, i muscoli centuplicano il rendimento. Attraversiamo sulla sinistra sotto il tetto ed eccoci sul piccolo terrazzo adibito a magazzino. Infiliamo i ramponi, mi carico lo zaino di cunei e chiodi.

Da Rivista Mensile del CAI, luglio-agosto 1961, N° 7-8:
“Per la salita effettiva, usufruendo delle corde fisse, ci portiamo alla base del nevaio a forma conica che termina sul bordo superiore del gran diedro. Lo tagliamo e ci portiamo con una traversata diagonale alla base di quella serie di fessure che partono dal bordo del nevaio e portano fin sotto a un gran diedro strapiombante che va da destra verso sinistra”.

Da Arrampicare è il mio mestiere:
“Arriviamo alla base della parete, scambiamo gli zaini.
Io salgo per primo con un sacco leggero; Fava salirà in mezzo con un sacco pesante e Toni per ultimo, anch’egli molto carico.
Saliamo insieme fino alla base del diedro poi, sempre usufruendo delle corde fisse, lo superiamo. Io salgo, assicuro Cesarino, il quale assicura Toni, mentre io salgo lungo le corde fisse per poi ripetere le operazioni precedenti.
In poco più di tre ore arriviamo al piccolo terrazzino alla fine del diedro. Saliamo ancora una filata facile e cominciamo a tagliare diagonalmente, poco sopra la base, quel nevaietto conico che continuamente ci scaricava addosso piccole lavine. Ci scambiamo gli zaini e Toni passa in testa, mentre io resto in coda.

Dal diario di Fava, Bollettino SAT marzo-aprile 1959:
“Toni passa in testa, attraversa il piccolo e ripidissimo ghiacciaio e attacca il secondo diedro”.
In questo scritto il ghiacciaio è “ripidissimo”, a differenza di quanto scrive Maestri nel suo libro Arrampicare è il mio mestiere dove dice che la “pendenza non è molto forte”.
Ripidissimo nevaio? Abbastanza ridicola questa descrizione. Forse è la descrizione che potrebbe fare un alpinista che vede questo nevaio da sotto ma non lo ha mai calpestato. Il nevaio triangolare, se lo si sale fino in alto sono circa 80-90 metri con pendenza non superiore ai 40°. Se si mira alla goulotte forse sono solamente 70 metri.

Dal diario di Fava, Bollettino SAT marzo-aprile 1959:
Ho visto Cesare sugli strapiombi, sui tetti: mai vista una cosa uguale e mai pensavo si potesse raggiungere una tale perfezione nell’arte dell’arrampicare: dico arte, non in senso di professione. Ora è la volta di Toni ed è altrettanto impressionante”.

Da Arrampicare è il mio mestiere:
Toni sale sicuro usando la piccozza solamente per l’equilibrio”. (…).
Fatto il diedro, per raggiungere il Colle, bisogna salire ancora oltre 4-500 metri.

Da Arrampicare è il mio mestiere:
“Al termine della neve si alza una serie di fessure. Prendiamo la principale, in parte libera e in parte ricoperta di ghiaccio. Scambiamo ancora una volta le posizioni e i sacchi, e cominciamo a salire. Le difficoltà si aggirano sul quarto e quinto grado, ci alziamo abbastanza velocemente. Arrampichiamo in un ambiente severissimo; pareti lisce e strapiombanti corrono ai nostri lati dal cielo fino alla neve, levigate, senza fessure né terrazze”. (…).

Al termine della neve non si alza nessuna “serie di fessure” ma solo placche e piuttosto levigate. A destra sale la goulotte di cui parlavo sopra ma non è certo “al termine della neve”. A nessun alpinista sarebbe concesso di essere così pressappochista. E se anche parlassimo della goulotte cosa significa “in parte in libera e in parte ricoperta di ghiaccio?”

Da Patagonia, Terra di sogni infranti:
“Se credete che io possa esservi utile” dissi, “vi accompagno fin dove posso”.
“Attraversiamo in diagonale il nevaio pensile fin sotto il liscio diedro trasformato in un ampio camino dalla neve incrostata sulla roccia. Senza esitazione, Toni fissa lo zaino al cordino di recupero e parte, dimostrando subito che se Maestri, da autentico maestro, sulla roccia fa tutto quello che vuole, sul ghiaccio il maestro è lui. Arrampica con la scioltezza e l’armonia di movimenti di una gazzella in corsa.
Cesare e io, attenti alla sicura, lo osserviamo meravigliati salire con quei suoi ramponi rigidi a dodici punte, la piccozza nella mano destra e un chiodo speciale nella sinistra, veloce e sicuro. Mi sembra che con quel mantello di neve assodata sulla parete, il Torre volenteroso ci abbia spianato molti ostacoli” (…).
Anche la descrizione di Fava nel suo libro è abbastanza differente da tutto il resto. E così secondo Fava si arriva “in un ampio camino dalla neve incrostata sulla roccia.” E ora Egger sale “veloce e sicuro” coi suoi ramponi a dodici punte. Ricordo che questa cosa Fava me l’ha detta pin più occasioni come se fosse stata un’innovazione. Quasi che solo Egger avesse avuto dei ramponi così. Ricordiamoci che già molti anni prima, parliamo del ‘35, scalatori come Gervasutti, usavano i ramponi a dodici punte. Bene, proviamo anche solo a immaginarci salire sul verticale con una piccozza alta 80-100 centimetri in una mano e un “chiodo speciale” nell’altra. In questo camino e poi in tutta la parete nord. Ricordo che non siamo in una cascata vicino a Malè ma sul Cerro Torre. Anche il solo leggere le descrizioni della salita di questo tratto fanno molto sorridere. Sembra la descrizione di un tratto di salita di una ventina di metri e non di 150.

Da Rivista Mensile del CAI, luglio-agosto 1961, N° 7-8:
“Fin qui dal nevaio, sono circa 150 metri di quarto quinto grado (chiodi usati circa 15-20)”.

Da tutti questi scritti si potrebbe intuire che i tre sono saliti nella goulotte. Si parla di canale o camino di neve e Fava descrive Egger come sale disinvolto. Poi però dobbiamo anche leggere quanto scrive Maestri che parla di chiodi usati 15-20.

Da Rivista Mensile del CAI, luglio-agosto 1961, N° 7-8 e dal diario di Maestri, Bollettino SAT marzo-aprile 1959:
“Fava è carico come un mulo. Risaliamo velocemente usufruendo delle corde fisse: il primo diedro e poi il secondo arrivando dopo 11 ore alla piccola forcella a nord del Torre. Da qui possiamo vedere tutta la parete nord e nord-ovest”.

Credo che nessun alpinista nemmeno del giorno d’oggi sprecherebbe così poche parole per descrivere la salita fino al colle con così poche parole.

Da Arrampicare è il mio mestiere:
“Arriviamo così alla base di un gran diedro strapiombante e liscio che corre verso sinistra. Sarebbe interessante chiodarlo; ci porterebbe molto in alto al riparo da eventuali bufere di vento, ma ci terrebbe impegnati troppo tempo per le difficoltà che presenta”.

Questa è un’altra grande stupidaggine. Questo diedro, il Diedro degli Inglesi, è una cosa spaventosa. Quei pochi che ci sono passati sotto hanno espresso tutti la stessa opinione. Tentato e salito dagli inglesi Ben Campbell-Kelly e Brian Wyvill nel 1978 e Phil Burke e Tom Proctor 1981 con tanti giorni di lavoro e difficoltà estreme. Nel primo tentativo gli inglesi rimasero in parete 33 giorni. Alla base del diedro avevano un box che venne poi usato anche nel 1981 e che tutt’ora si trova in parete. A tutt’oggi il grande diedro non è più stato salito da nessuna cordata. Questo per dire che forse quel diedro potrebbe dare l’impressione di essere salito con non troppe difficoltà se lo si osserva dal ghiacciaio.

Da Aspettando un chiodo (Cesarino Fava):
“Siamo partiti dall’igloo verso mezzanotte e siamo arrivati su verso le 4 o 5 di sera, però attenti che avevamo il diedro, il primo diedro strapiombante tutto attrezzato con corde fisse e ci rimanevano altri 400 metri. E’ stata un’ascensione velocissima grazie all’abilità di Toni Egger, perché era un’ascensione di neve smaltata dal vento, indurita dal ghiaccio”.

Anche se ci fosse stata l’incrostazione di neve come descritta da Fava la salita si sarebbe svolta su terreno verticale.
E come mai Maestri parla di difficoltà di IV e V grado (chiodi usati circa 15-20) mentre Fava descrive questo tratto così?

Considerazioni sui loro diari
Avevano un diario Maestri e Fava? La logica ci dice sì. Come si potrebbero ricordare le date esatte e soprattutto gli orari? Io presumo che se su una rivista o libro scrivo “dal diario” intendo che ciò che scriverò riguarderà quanto scritto in precedenza. Sicuramente un diario al momento di renderlo pubblico può essere elaborato e in qualche cosa anche cambiato. Anche romanzato, come mi disse una volta Maestri, in quanto libro. Ma certamente le cose tecniche, alpinistiche, non possono certo essere cambiate.

Fava nel Bollettino della SAT del 1959 scrive: “Vorrei scrivere, ma che cosa posso scrivere in questa immobilità del tempo che non passa mai, in questa attesa passiva?”

Maestri nel suo libro scrive: Riapro il mio diario”…” (…) “Io chiudo il mio diario e caccio la testa nel sacco per non sentire il vento che urla”.

Quindi, i diari c’erano. Al loro ritorno scrivono sulle riviste e libri con dati precisi, di giorni e ore.

E allora ci viene da pensare come mai hanno sempre trovato la scusa che dopo tanto tempo non ci si può ricordare tutto? In parte potrebbe essere ammissibile ma se si ha un diario è impossibile dimenticare certe cose. Io stesso, se ho qualche dubbio, è sufficiente che prenda in mano il diario della determinata spedizione, leggere poche parole, per ricordarmi esattamente ogni cosa. Sicuramente se Maestri avesse avuto nel diario quanto dichiarava non sarebbe caduto nelle contraddizioni che lo hanno portato a non essere creduto già dall’inizio. E perché mai nessuno ha chiesto di poter vedere, anche se non di leggere, i loro diari? Anche solo per fotografare quegli oggetti storici? Io conservo con cura tutti i miei diari. Certamente non li darei in mano a sconosciuti ma se mi venissero chiesti li mostrerei, e anche con un certo orgoglio.

Forse sempre non scrivevano ma sicuramente il diario veniva fatto in quanto anche a distanza di non molto tempo non si potrebbero ricordare date e orari precisi. Ma fino a quando ha conservato il suo diario? Se nel 1999 Fava ha pubblicato il suo libro Patagonia, Terra di sogni infranti non ha avuto nemmeno l’accortezza di rileggere il suo diario o se non lo avesse più avuto recarsi alla SAT, come ha fatto il sottoscritto, a prendere la Rivista Mensile del CAI del 1959 per leggere quanto aveva scritto a quel tempo e riportare nel libro le stesse cose o almeno rileggere il libro di Maestri Arrampicare è il mio mestiere.

Dal diario di Fava, Bollettino SAT marzo-aprile 1959:
“Vorrei scrivere, ma che cosa posso scrivere in questa immobilità del tempo che non passa mai, in questa attesa passiva”?

Da Arrampicare è il mio mestiere:
“Riapro il mio diario”(…) ”Io chiudo il mio diario e caccio la testa nel sacco per non sentire il vento che urla”.

Da Arrampicare è il mio mestiere:
“Riapro il mio diario. Rileggendolo lo trovo a volte scarno, a volte prolisso, discontinuo e mutevole come i pensieri che mi assalivano mentre rifacevo i percorsi a me noti, mentre ritrovavo i luoghi desolati dove ci eravamo accampati, o mentre ripercorrevo un sentiero sconosciuto”.

Da … E se la vita continua:
“Cesarino sul suo diario così ricordò: (…) “… Ora la sagoma umana immersa nella neve sull’orlo di una crepa è a pochi metri da me, ma ancora non so chi dei due sia. La giacca a vento di nylon sulla quale la neve non fa presa ha salvato chi la portava. Sollevai quella massa inerte. Solo tre parole uscirono tra i denti e la spessa crosta di ghiaccio della barba: ‘Toni. Toni. Toni’. Cesarino mi aveva salvato la vita”.

Da 2000 metri della nostra vita:
“Alla luce di una candela Ezio sta ricavando un paio di guanti da un vecchio paio di calzetti, Pietro si fuma la pipa beatamente, Renato si cura le mani con una pomata che lui dice miracolosa, Carlo infilato nel sacco tenta di dormire e io scrivo il diario come faccio tutte le sere”.

Da Aspettando un chiodo (Cesarino Fava):
“Io ho fatto quello che ho fatto. Sulle Ande ho fatto una ventina di spedizioni e non ho mai scritto un diario che tutti scrivevano e io dicevo: ma che cavolo scrivete! Quando facendomi forza e facendomi violenza volevo scrivere, sentivo che rompevo l’incanto della bellezza dell’avventura. Quando mi hanno scritto dalla SAT e mi hanno chiesto che mandassi le relazioni, io gliele ho mandate, ma anni e anni dopo”.

Come ho detto quello che dice Fava è, da sempre, poco affidabile. Anche qui dice che non ha “mai scritto un diario” e poi quando la SAT gli ha chiesto qualcosa lo ha fatto solo “anni e anni dopo”. Da quel che si legge, il suo diario sul Bollettino della SAT, appare nel numero di marzo-aprile 1959. Non c’era internet a quel tempo e ai primi di febbraio Fava e Maestri erano ancora in Patagonia ma nel numero di marzo-aprile era già stato stampato…

Allora i diari esistevano? Esistono? Al loro ritorno scrivono sulle riviste e libri con dati precisi, di giorni e ore. E allora ci viene da pensare: come mai hanno sempre trovato la scusa che dopo tanto tempo non ci si può ricordare tutto? E questo non solo loro. Anche molti dei loro difensori trovano questa scusa. Ci dicono che non si po’ pretendere dopo tanti anni. Se ci sono i diari non si dimenticano certi particolari importanti. In parte potrebbe essere ammissibile ma se si ha un diario è impossibile dimenticare certe cose. Io stesso, se ho qualche dubbio, è sufficiente che prenda in mano il diario della determinata spedizione, leggere poche parole, per ricordarmi esattamente ogni cosa, ogni momento. Nessuno, da quel che mi risulta, ha mai chiesto né a Maestri, né a Fava se avevano un diario anche solo per toccarlo con mano. Sicuramente Maestri è stato più coerente di Fava negli scritti di tanti anni. Fava niente di tutto questo e nemmeno coerente e con un sacco di cose cambiate e inventate. Su qualcuno di questi punti torneremo in seguito.

Dal diedro al Colle
Ero quindi convinto che almeno al Colle fossero arrivati. Da quel punto non mi potevo e volevo pronunciare, in quanto, oltre non ero andato e nemmeno avevo visto com’era. Questa fu la cosa su cui sollevavo più dubbi. E anche Wilson pensò molto a queste mie supposizioni. Quell’anno Ken era a Trento al Filmfestival e incontrò Cesarino Fava. Dopo il suo incontro a Malè ci vedemmo di nuovo a Trento e mi ringraziò per avergli dato la possibilità di incontrare Fava. Mi disse che era un grande uomo e da come gli parlò era quasi convinto anche lui che Fava arrivò al Colle della Conquista con Maestri e Egger.

Passò qualche anno e rimanevo con la mia convinzione. Maestri ed Egger erano arrivati in cima al Torre. Poi un giorno, verso fine aprile, forse era il 1999, un altro fatto mi fece perdere fiducia in Maestri. Eduard Müller, di Lienz, grande amico di Toni Egger, fino a pochi anni fa era convinto che Egger e Maestri arrivarono in cima al Torre nel ’59. Poi cambiò idea ma di questo ne riparlerò. Per diversi anni ha sponsorizzato gli austriaci Ponholzer, Bonapace e altri perché andassero a tentare di ripetere la linea del ’59.

Fatto sta, che ha speso 150.000 dollari per costruire una chiesetta a El Chaltén, a ricordo di Toni Egger. Quando è stata pronta per l’inaugurazione Müller mi chiese di andare insieme a Madonna di Campiglio per aiutarlo a capirsi con Maestri. Eduard voleva che Maestri andasse insieme a lui in Argentina per l’inaugurazione della chiesetta. Müller si sarebbe fatto carico anche di tutte le spese per il viaggio. Non sto a spiegare quanto uscì dalla chiacchierata fra di loro/noi in quanto alcune cose erano veramente disgustose. Per semplicità dirò che Maestri trovò un sacco di scuse per non andare ma alla fine accettò. Müller si rifece i 260 chilometri per tornare a casa. Due giorni dopo mi chiamò Maestri per chiedermi l’indirizzo di Müller. Capii! Qualche giorno dopo Eduard mi chiamò e, fra le lacrime, mi disse che Maestri non sarebbe andato insieme a lui in Argentina. Tempo dopo Eduard mi fece leggere la lettera di Maestri.

Poi iniziai a riprendere tutto di nuovo in mano. Ripresi a rileggere e a studiare tutti gli scritti di cui ero in possesso e ne procurai altri. Una delle domande che mi ponevo e avevo posto a Ken Wilson era del come Maestri poteva sapere com’era la parete oltre il Colle se non c’era mai stato? Eppure la descrizione di Maestri della parete ovest oltre il Colle corrisponde alla realtà. Poi, rileggendo ogni scritto più attentamente, capii che, l’anno precedente, nel 1957, sorvolarono il Cerro Torre e come dichiarò nel 2005 Luciano Eccher, fotografo della spedizione, individuarono la via dall’aereo. Maestri aveva quindi in mano anche le bellissime foto scattate da Eccher.

Dal quotidiano Trentino:
Estate 2005
Giornalista: Avevate a disposizione anche un aereo?
Luciano Eccher: “Ci fecero sorvolare il Torre più volte per i sopralluoghi. Io ero là soprattutto come fotografo. A un certo punto mi parve di individuare un tracciato buono e dissi con l’entusiasmo dei trent’anni: “Ecco la via”. Fu in quel momento che Bruno Detassis affermò invece, che lassù non si poteva andare. Maestri imprecò, ma alla fine lui e noi tutti rispettammo la decisione del capo spedizione. Rimpianti? “Io credo che fu un bene per tutti, non era ancora il momento”.

Mano a mano il tempo passava e il mio studio su tutti gli scritti si approfondiva, mi convincevo della “non” salita al Cerro Torre.

Da Rivista Mensile del CAI, luglio-agosto 1961, N° 7-8:
“Dal terrazzino alla base del diedro suddetto, che lasciamo alla sinistra, si comincia ad attraversare la stretta parete nord che scende dalla cima a forma di triangolo con la base rivolta alla forcella fra il Torre e la cima che chiameremo “Cima Egger”. La traversata di circa 200 metri tende a salire finché si tramuta in una fessura da una costola che porta alla base di un pilastrino di circa 50 metri sulla cresta che limita a destra la parete nord.
Lasciamo nella traversata una corda doppia fissa di 100 metri che verrà in seguito usata da Fava per discendere e recuperata, per poi calarsi a corda doppia”.

Da Arrampicare è il mio mestiere:
“Preferiamo continuare verso destra, con una lunga attraversata in salita per portarci verso la forcella. Qui lasciamo una corda fissa che Toni trascina dietro. Servirà a Cesarino quando tornerà.

Da Arrampicare è il mio mestiere:
Ora la parete si fa sensibilmente più difficile e ogni tanto presenta passaggi di sesto grado. Presto superiamo gli ultimi cento metri che ci separano dalla forcella”.

Da Rivista Mensile del CAI, luglio-agosto 1961, N° 7-8:
“Fin qui quarto, quinto e un tratto di sesto grado (chiodi usati 10-15)”.

Il tratto che dal Diedro degli Inglesi porta verso il colle è il meno impegnativo fino a qui. Dalla base del diedro si sale verso destra una lunghezza di corda di misto con difficoltà di IV grado. Una breve calata (circa 8 metri) porta alla base di una fessura che inizia con un tratto su roccia di IV grado (10-20 metri). La fessura si trasforma poi in un canale-rampa di neve con pendenze non superiori ai 45°. Quindi nessun tratto di quinto e sesto grado. Dalla fine della rampa (3 lunghezze di corda), con un altro tiro su neve (50°), in obliquo verso destra, si raggiunge il Colle. Non esiste nessun tratto con le difficoltà espresse da Maestri.

Discesa di Fava dal Colle della Conquista
Da Rivista Mensile del CAI, luglio-agosto 1961, N° 7-8:
Risaliamo velocemente usufruendo delle corde fisse: il primo diedro e poi il secondo arrivando dopo 11 ore alla piccola forcella a nord del Torre.

Dal diario di Fava, Bollettino SAT marzo-aprile 1959:
“Alle sedici siamo sulla forcella”.

Da Arrampicare è il mio mestiere:
“Sono circa le 15 e Cesarino deve lasciarci”.

Dal diario di Maestri, Bollettino SAT marzo-aprile 1959:
“Risaliamo velocemente usufruendo delle corde fisse: il primo diedro e poi il secondo arrivando dopo 11 ore alla piccola forcella a nord del Torre”.

Da Aspettando un chiodo (Cesarino Fava):
A Lugano Fava dice che sono arrivati al colle alle 5 o 6 del pomeriggio.

Da Aspettando un chiodo (Cesarino Fava):
Io sono sceso con una corda di 50-60 metri, che poi l’ho riportata su il giorno dopo nel diedro, perché chissà che non ne avessero avuto bisogno loro al ritorno”.
Qui parla come se fosse arrivato alla base la sera prima come dice nel diario e altro.

Ponholzer, che a quanto dicono tutti è un alpinista e scalatore estremamente abile, ha provato questa linea per moltissimi anni. Diverse volte ha raggiunto il Colle. Soltanto durante uno dei suoi ultimi tentativi, totalmente familiare con il terreno, fu in grado di raggiungere la presunta velocità di Egger, Maestri e Fava, arrivando al colle in un giorno.

Come potevano essere alle ore 15 o 16 del pomeriggio al Colle? Di certo non erano dei fulmini nella scalata. Basti pensare che per salire i 250 metri del diedro iniziale hanno impiegato più di 4 giorni.

Noi nel 2005, nel corso del nostro primo tentativo, eravamo al colle alle ore 16 e non credo che la velocità con cui si scala ora può essere paragonata a quella di quei tempi. Nel nostro secondo tentativo fummo più veloci. Avevamo piazzato la sera precedente 3 corde fisse. Al mattino seguente dopo aver risalito le corde a jumar siamo proseguiti usando il sistema short-fixed e a mezzogiorno eravamo al colle. Lo short-fixed consiste nel raggiungere la sosta, recuperare la corda rimasta e, mentre il secondo sale a jumar, il primo continua sul tiro successivo. In questo modo, mentre il secondo arriva alla sosta, si possono salire i metri rimasti di corda libera, 10-15-20). Inoltre i nostri due zaini erano sicuramente inferiori ai 10 Kg. Il capocordata arrampicava con uno zainetto inferiore di 3-4 Kg. Il peso, indubbiamente, fa una grossa differenza e di questo ce ne siamo resi conto anche noi che durante il primo tentativo avevamo gli zaini con qualche chilo in più.

Alle 4 del pomeriggio mentre Fava scende loro decidono di fermarsi al colle nonostante abbiano davanti a loro ancora un minimo di 6 ore di luce, rimangono là. Nessun alpinista lascerebbe scendere il proprio compagno da solo da un posto simile. Forse ai giorni nostri, con l’attrezzatura esistente e le soste infisse.

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