di Giuliano Bosco
La locandina appesa fuori dal rifugio Ciriè recitava:
“Cene con la Luna Piena – Lasciati emozionare dal silenzio della neve… Una serata al chiar di luna per gli amanti della montagna, della neve… e della buona cucina!”
Seguivano le date. Da novembre ad aprile, due o tre serate per mese. “Che ne dici Carla ? Potremmo proporlo anche a Massimo e Roberta, a loro son sicuro che piacerebbe”. “Carino – rispose la moglie – fai una foto che ci pensiamo”.
Era il primo di novembre, festa di Tutti i Santi, ed ero riuscito a portare la famiglia al completo a Pian della Mussa approfittando dell’arrivo di nostra figlia Margherita da Bruxelles dove viveva e lavorava ormai da più di un anno. Li chiamano “Cervelli in fuga” ma per me è solo una figliola lontana da casa con videochiamate giornaliere che danno l’illusione della vicinanza. Ogni tanto tornava alla maison ed era una buona occasione per far qualcosa insieme che durasse tutto il giorno. Così avevamo un po’ di tempo per raccontarci le nostre cose sottraendo “la piccola” alla sua intensa socialità torinese fatta di aperitivi, feste di compleanno o di laurea e incontri vari con amici che riducevano di molto il periodo effettivo di convivenza. L’escursioncina a Pian della Mussa, con pranzo al rifugio Ciriè, mi era sembrata una buona idea. Dislivello limitato a poco più di 400 m e bei panorami sulle montagne della Val d’Ala, la centrale delle tre Valli di Lanzo. I locali chiamano i 3 solchi vallivi, prossimi a Torino, “le Valades” in dialetto francoprovenzale. L’ho scoperto grazie ad un bel documentario intitolato proprio “Valades” trasmesso da Geo, programma RAI (disponibile su RaiPlay) che mi ha segnalato l’amico Gianni. Lui frequenta con regolarità queste valli, in particolare la Valle di Viù la prima sulla sinistra, quella che confina con la Val di Susa. Telefono al rifugio dove mi dicono che hanno posto per le 14.30 e mi comunicano anche che quel giorno di inizio novembre è il primo della stagione invernale con la strada carrozzabile chiusa a Balme. Gran bella notizia ! La comodità di accesso da Torino, trasforma spesso il bel pianoro in un parcheggio in quota. Ben venga, quindi, il primo giorno di chiusura.
Posteggio a Balme e non può mancare la sosta allo storico Caffè Nazionale.
Iniziamo la gitarella. Ancora qualche metro sulla strada asfaltata prima di passare sul sentiero ma sulla destra non possiamo trascurare una costruzione molto particolare. Trattasi di Villa Borsotti, disegnata dall’architetto Umberto Cuzzi in stile razionalista. La villa, realizzata all’inizio degli anni ’30 del secolo scorso per la famiglia torinese Borsotti, viene definita dai valligiani “la nave” per via della forma e mostra scelte architettoniche molto originali come la facciata curva e il tetto piatto, scelta, quest’ultima, assai singolare per un territorio in cui le nevicate sono (erano…) frequenti e abbondanti. Eppure al bar di prima ci hanno raccontato, al ritorno, che le soluzioni tecniche adottate (ad esempio la forma delle grondaie) hanno sempre evitato problemi causati dalle masse nevose. Anche una volta c’era chi sapeva come si lavorava… la villa mi permette di sottolineare alle compagne d’escursione che le Valli di Lanzo, all’epoca in cui è stata costruito l’immobile, erano meta privilegiata del turismo alpino da parte della borghesia e dalla nobiltà torinese. Questo prima dell’avvento delle grandi stazioni sciistiche come Bardonecchia e Sestriere dove molti dei suddetti frequentatori si sono poi spostati. Parecchie di queste belle e nobili dimore sono rimaste, quindi, disabitate e anche la villa in questione non fa eccezione, come dimostrano i segni del tempo sulla facciata, sugli infissi e sulla staccionata che ne delimita il terreno.
Il sentiero parte poco più avanti dell’edificio sulla sinistra e passa subito accanto ad una graziosa pista di pattinaggio su ghiaccio all’aperto con scritta d’antan “Patinoire” che è il termine con cui mio suocero chiamava le piste di pattinaggio con particolare riferimento a quella di Torre Pellice dove lui era nato e cresciuto. In questa cittadina del pinerolese, infatti, esiste una tradizione antica per il pattinaggio in generale e per l’hockey su ghiaccio in particolare. Una tra le tante singolarità della Val Pellice. Ma torniamo in Val d’Ala e al suo grazioso “patinoire” che spero tanto venga ancora utilizzato in quanto è un piccolo gioiellino alpino (l’anno scorso pare sia rimasto inattivo). Pochi passi e sulla destra si nota la famosa “Rocca S.A.RI…”, un roccione alto una ventina di metri con diversi itinerari di arrampicata tracciati sui quali da giovane mi sono qualche volta cimentato. Il nome ricorda la Società Alpina Ragazzi Italiani, un’organizzazione studentesca di inizio secolo (scorso…) poi confluita nel CAI (anche sul Monviso ci sono i Torrioni S.A.R.I. a memoria dei “ragazzi italiani” di inizio ‘900). Recentemente il sito arrampicatorio è stato risistemato a dovere con tanto di bacheca su cui sono riportate le varie vie di salita. Azzardo qualche passo ma scendo subito. Sono quasi 3 anni che non arrampico da quando ci siamo imbarcati in questo benedetto “110” nella casa che mio suocero buonanima si fece costruire a Villar Pellice. Mi ero ripromesso di non far niente di pericoloso fino a quando questa ristrutturazione non fosse terminata, con il suo corollario di pratiche infinite. Volevo evitare che, in caso di (malaugurato) incidente, mia moglie rimanesse invischiata nelle micidiali pastoie burocratiche di questo provvedimento. Il rischio era un “super-salasso” economico nel caso non fossimo riusciti a completare lavori e pratiche nei tempi previsti. Per fortuna a fine mese siamo usciti “vincitori” da questo “delirio” fatto di scartoffie, date draconiane (per fortuna spesso prorogate…) e materiali introvabili. Potrò, quindi, tornare a qualche esperienza verticale di cui sento parecchio la nostalgia, compatibilmente con le “primavere” che inesorabilmente si accumulano…
Seguiamo il sentierone e poco prima che confluisca nella strada asfaltata che arriva da Balme vediamo che è stata posizionata sulla sinistra una panchina gigante del circuito Big Bench. So che l’installazione ha creato un po’ di polemiche relative al suo impatto paesagistico. Personalmente penso che ci siano cose peggiori (ad esempio… le pale eoliche…) e qualche foto di rito ci scappa pure.
Siamo sul pianoro di Pian della Mussa che percorriamo interamente per un paio di chilometri. Spontaneo ci viene il paragone con il Pianoro del Pra in Val Pellice che ha dimensioni maggiori sia in larghezza che in lunghezza ma una minore “antropizzazione” visto che l’accesso stradale (non asfaltato) è soggetto a pedaggio e a regole ben precise che, per fortuna, limitano assai il numero di veicoli. Viene spesso definito (il Pianoro del Pra) uno dei più bei pianori d’alta quota delle Alpi. Ma anche questo non scherza in quanto a bellezza con la Bessanese e la Ciamarella a fare da sfondo. Due “over 3.500” e due punte importanti nella storia alpinistica piemontese.
L’assenza di auto rende abbastanza piacevole anche la passeggiata sulla strada asfaltata che termina, con due rampe in salita, al rifugio Ciriè dove ci aspettano gustose libagioni montane. Al ritorno mando la foto della locandina all’amico Massimo il quale prontamente mi risponde con un sintetico ma eloquente “Bello!”. Direi che possiamo contare sulla compagnia dei due amici per la camminata al chiar di luna.
Dopo due settimane mi ricordo delle “Cene con luna piena” e vedo che la prima è fissata per sabato 25 novembre. Se la saltiamo dobbiamo aspettare fine gennaio dell’anno nuovo in quanto le date di dicembre sono tra Natale e Capodanno, periodi in cui, di norma, gli stomaci risultano già piuttosto provati…
Nel frattempo sento Massimo per capire se confermano il loro interesse per la gita e scopro che il mio amico si è rotto un gomito cadendo da una mountain bike a pedalata assistita. Adesso, purtroppo, “l’assistito” era diventato lui… quindi niente compagnia, ma Carla, pur rammaricata dal forzato forfait, conferma l’interesse per la serata montana. Considerando che saremo soli soletti, penso che forse sarebbe meglio scendere il mattino seguente e quindi verifico com’è la situazione “pernottamento” al Ciriè. Mi dicono che hanno ancora libera l’unica camera doppia del rifugio che mi affretto a prenotare. Molto bene ! Eviteremo sia di scendere con la pancia piena e sia di guidare la notte fino a Torino. Potremo quindi “apprezzare” al meglio anche il “beveraggio” servito al rifugio senza il rischio di veder “evaporare” un po’ di punti patente nel caso incappassimo in qualche controllo notturno delle Forze dell’Ordine.
Si tratta, ora, di verificare se l’attrezzatura della moglie fosse adeguata alla gita. Anche se di lunghezza e dislivello contenuti, era pur sempre un’escursione notturna, per quanto rischiarata dalla luna, in un periodo in cui il terreno poteva presentare qualche insidia (terreno gelato, ghiaccio, neve…). Il controllo materiali evidenzia la necessità di intervenire sulle calzature. Le pedule Scarpa di mia moglie sono un po’ leggerine e inoltre accusano una certa anzianità e, per quanto la tomaia non presenti deterioramenti, il colore è diventato “indefinito” e la suola decisamente “slick”. Si impone, quindi, un “acquisto di sostituzione”. Risolviamo in un negozio di articoli sportivi vicino casa che una volta si chiamava Levrino Sport e che insieme con Ravelli e con Volpe Sport formavano una triade di negozi della tradizione montagnina torinese. Adesso gli ultimi due hanno chiuso da tempo e anche Levrino non si chiama più così ma ha conservato l’ultima sede di via Issiglio (quella storica era sul Corso Peschiera) e la passione (e la competenza) dei due soci per gli articoli da montagna.
Luca (Guida Alpina) e Luciano, viaggiatore, esperto di geopolitica con cui qualche volta chiacchiero volentieri specie al mattino approfittando del minor traffico di clienti e del mio “status”… di quiescenza.
La scelta cade su un modello in pelle sempre della Scarpa, solido, con bella suola Vibram e con uno stile un po’ retrò. Mi ricorda un foulard di Hermes a nome “Neige d’antan” che regalai anni fa a Carla e che ritrovammo esposto in una mostra organizzata dal Museo della Montagna di Torino intitolata “Foulard delle montagne”.
Era il 2006, il bellissimo anno delle “nostre” Olimpiadi Invernali. Quelle Olimpiadi per le quali, con sabauda operosità, vennero realizzati senza tante polemiche e discussioni tutti gli impianti necessari allo svolgimento delle diverse discipline, bob e slittino compresi… così… tanto per dire…
Questo anche se poi l’utilizzo successivo di alcuni di quegli impianti (inclusa la pista di bob) fu talmente episodico da decretarne il veloce abbandono. Dovrebbero trovare il modo di farli smontabili questi impianti in modo da poterli usare quando servono, ma, probabilmente, è più facile a dirsi che a farsi.
Insieme alle pedule prendo anche dei ramponcini che possono tornare molto utili in presenza dei terreni insidiosi prima citati.
Il lunedì precedente inizio a monitorare il meteo. Danno ventaccio da nord-ovest (il sentiero che sale a Pian della Mussa è giusto orientato a ovest) e crollo verticale delle temperature. Non dico niente a Carla e… speriamo che cambi.
Oltre al vestiario, un altro dettaglio da controllare bene sono le “frontali”. È vero che ci sarà la luna, però se devi guardare qualcosa in dettaglio, chessò un cinghietto slacciato di un bastoncino (situazione reale effettivamente verificatasi), la luce ci vuole, anche perchè di neve, come ormai consuetudine, neanche l’ombra. O meglio, un pochino di neve l’ha messa giù qualche giorno addietro ma ormai tra il sole e il vento il tracciato sarà pulito e pelato. Certo, con la luce lunare amplificata dalla neve si vede quasi come di giorno (come insegnano gli skialper nottambuli…) ma… se le neve non c’è tocca attrezzarsi come si deve anche con la luce artificiale.
Nell’armadio metallico a doppia anta del terrazzino di casa, dove tengo gli attrezzi montani, una scatola di ramponi Camp è stata riassegnata allo stoccaggio delle pile frontali. Una è una Petzl abbastanza recente, l’altra è anche lei una Petzl ma mooolto d’antan anche lei… avrà almeno 40 anni di vita. È ancora di quelle con la lampadina a filamento e un’altra di scorta dietro il faretto. La batteria è di quelle grosse e piatte da 4,5V abbastanza difficile da trovare, quelle che per capire se sono ancora cariche si tocca con la lingua le due alette metalliche ottenendo, in caso di batteria carica, una piacevole microscossa. Però… si accende ancora, l’anziana “frontale” e in ossequio alla regola del “non si butta una cosa che funziona”, mi procuro una batteria nuova che oltre ad essere abbastanza difficile da trovare e pure la più cara tra quelle dell’espositore Duracell.
Tiro gli elastici a più riprese (ricordano quelli di una vecchia mutanda provata da troppi lavaggi) fino a quando la frontale diventa indossabile sulla crapa con abbondanti pezzi di elastico d’avanzo che penzulano lateralmente. Due cristiani, due frontali. Poi però penso “… e se una smette di funzionare a metà strada ?” Mi ricordavo di averne viste nei negozi di cinesi a prezzi assai contenuti. Detto, fatto. Quattro euro e cinquanta per la frontale di scorta si possono investire. Se penso a quanto costavano una volta questi oggetti comprati nei negozi specializzati in articoli da montagna… “è la globalizzazione baby”. Certo le frontali “serie” sono molto più care e più performanti, ad esempio sono ricaricabili. Ma come scorta “la quattro euro e cinquanta” va benissimo.
La fase di preparazione dell’attrezzatura può dirsi ultimata; non ci rimane che aspettare sabato e monitorare il meteo che continua imperterrito a dare vento e freddo per la sera e la notte di sabato. Venerdì comincio seriamente a preoccuparmi, anche perchè ero fresco reduce dalla prima gita di stagione con le pelli verso il Teodulo con un ventaccio freddo frontale che mi aveva fatto desistere al Bontadini. Qui in più c’era l’elemento notturno. Comincio ad accennare a Carla la situazione; “il meteo dà vento e calo della temperatura… che facciamo ?”. Pragmatica è la risposta. “Andiamo a vedere. Se proprio non si può salire torniamo indietro e mangiamo una pizza da qualche parte scendendo”. Adoro la praticità e il buon senso femminile. E la fortuna sembra premiare gli audaci. A Balme la temperatura è piuttosto mite per il periodo e zero vento. Prima un caffè al “Nazionale” dove ci chiedono se seguiremo la strada. Gli rispondiamo che pensiamo di percorrere il sentiero, più breve anche se, ovviamente, un po’ più ripido. La domanda induce, però, il seme del dubbio in Carla che, appena fuori dal bar, mi domanda se siamo proprio sicuri di voler seguire il sentiero. Confermo baldanzoso, ma decido, comunque, di sistemarmi sulla cabeza una delle 3 “frontali” che ci siamo portati. Quella nuova, così vediamo come va. La moglie rifiuta la sua dicendomi che, all’occorrenza, seguirà la luce della mia. Il chiarore naturale prodotto dalla luna è comunque ottimo e per il momento la “frontale” rimane spenta.
Non si tratta proprio del vero plenilunio, che è previsto per il lunedì notte seguente, ma il “lampione lunare” eroga comunque il 90% della luminosità disponibile e tanto basta a garantire una discreta visione notturna. Certo, con il 100% e con la neve, se ti cade uno spillo per terra sei in grado di raccoglierlo, ma, come si dice, “non si può avere tutto dalla vita”.
Saliamo da soli nella silenziosa notte valligiana. Molto suggestiva e… molto utili i bastoncini che aiutano a mantenere un equilibrio stabile. Questa volta li usa anche Carla che solitamente li rifiuta. Mentre saliamo gli racconto delle molte partenze notturne da rifugi o bivacchi e di come, spesso, capitasse che i terreni calpestati con i rigidi scarponi d’alta quota fossero assai meno agevoli del “sentierone” che stiamo percorrendo con le nostre peduline da trekking…
Osservo la posizione della luna. Per tutta la salita rimane al centro della valle alle nostre spalle. Un vero faro notturno regalatoci da Madre Natura. Mentre saliamo la visione del territorio montano è veramente magnifica. I fianchi della vallata sono ben evidenti e la luce lunare evidenzia i rilievi con un gioco di luci ed ombre che ricorda un’immagine in bianco e nero. E sullo sfondo l’inconfondibile sagoma della Bessanese innevata. Magic moment!
Salendo e discorrendo sbuchiamo sul pianoro di Pian della Mussa. Temperatura e vento si mantengono su valori accettabili.
Squilla il telefono. È mio fratello Tiziano che mi aggiorna sulla semifinale di Coppa Davis. Salendo in macchina da Torino abbiamo seguito sul cellulare, sempre grazie a Raiplay, l’impresa di Sinner “pel di carota” che è riuscito nuovamente nell’impresa di battere “il caimano Djokovic” (la prima vittoria durante le qualifiche nelle recenti ATP Finals di Torino). Questo nonostante 3 matchpoint che il serbo ha avuto a disposizione e che il nostro altoatesino gli annullato uno dopo l’altro. Il tutto mentre noi costeggiavamo il muro di cinta de La Mandria, il più grande parco recintato d’Europa. Posto stupendo dove vado spesso a correre e che ospita una delle tante residenze sabaude che circondano Torino. In questa il Re Vittorio Emanuele II (primo Re d’Italia) si intratteneva in piacevoli incontri con la sua amante Rosa Vercellana (detta “la Bela Rosin”) che poi, dopo la morte della consorte, diventerà la sua sposa morganatica.
Tiziano mi informa che anche il doppio si è concluso vittoriosamente per l’Italia con un secco 6 – 3, 6 – 3. Domani pomeriggio sarà quindi finale con gli australiani. Gioisco al telefono per la qualificazione e informo il fratello del favorevole meteo che ci sta accompagnando. Faccio appena in tempo a riporre il telefono nella tasca del pile (al calduccio) e a rimettermi il guanto che si alza impetuoso un ventaccio freddo che ci schiaffeggia frontalmente. Tutto come previsto dal meteo, solo un po’ in ritardo… Carla mi fa “garbatamente” osservare che invece di rallegrarmi al telefono per la mite serata, forse, era meglio… se stavo zitto… come darle torto.
Dei circa due chilometri della conca ne manca circa un quarto all’arrivo. Indico alla Carla le luci del rifugio e la invito … a tenere duro. Come mi aspettavo la camminata notturna nella situazione di vento freddo in direzione contraria è tutt’altro che piacevole. Incoraggio la moglie cercando di metterla sul ridere, ma lei patisce un pochino la situazione. Per fortuna il terreno è regolare (strada asfaltata) e pianeggiante fino alle ultime due rampe che conducono al rifugio Ciriè che Carla affronta un pochino provata. Ma ormai siamo arrivati.
Ci ricomponiamo dignitosamente nell’atrio del rifugio e una gentile ragazza ci accompagna al primo piano nella nostra cameretta. Veramente deliziosa. È la prima volta che mi capita di dormire in una “doppia” in un rifugio ma devo dire che non sento nessuna nostalgia del consueto camerone comune con relativa condivisione dei vari “rumori & umori” notturni prodotti dagli umani dormienti… Ricordo quella volta al rifugio Jervis della Val Pellice. La precisazione geografica è necessaria visto che nella stessa regione ben due rifugi sono dedicati al partigiano Guglielmo Jervis (detto Willy), uno in Valle dell’Orco e l’altro in Val Pellice. Mi ero iscritto alla Tre Rifugi all’epoca considerata una corsa faticosa con i suoi quasi 22 km. di tracciato. Poi sono arrivati i trail, gli ultratrail, i megatrail al confronto dei quali la corsa valpellicese può essere classificata a livello di sgambata alpina. Ci avevano messo a dormire in un enorme camerone, corridori e accompagnatori, ma molti atleti avevano abbondato a cena nel consumo di aglio per beneficiare delle proprietà vasodilatatorie erogate dalla gustosa specie erbacea, nota per i suoi famigerati effetti collaterali. In effetti l’aria si era presto saturata del caratteristico (e… mefitico) odore e al mattino mia moglie stette male di stomaco. Questa esperienza contribuì in maniera determinante ad evitare da allora in poi altri pernottamenti in rifugio in locali condivisi. Ma al Ciriè avevamo la nostra “doppia”, bella, comoda e tutta per noi. Quasi da hotel.
Noto che nella camera non ci sono termosifoni o altri mezzi di riscaldamento, però la temperatura è abbastanza calda. Marco, il gestore del rifugio, mi aveva detto che in un muro della camera passa la canna fumaria della stufa che c’è nella sala da pranzo e che questo “attraversamento” era garanzia di un clima mite. In osservanza al mio approccio “tommaseo” comincio a tastare i muri della stanza alla ricerca del tepore prodotto dalla suddetta “canna”. Carla alza lo sguardo dallo zaino che stava sistemando e mi indica un pilastro che potrebbe ospitare il condotto dispensatore di calore. Intuizione corretta. Il pilastro suddetto emana un piacevole tepore e ci garantirà una tiepida notte a cui contribuiranno anche il bel piumone presente sul letto e la stufa a legna presente nel corridoio. Per sfruttare al massimo il calore della suddetta stufa lasciamo aperta la porta della camera e scendiamo a mangiare.
Entriamo nella sala da pranzo accolti da un canto di montagna intonato da una delle tavolate presenti. Ci sono proprio tutti gli “optional” della serata classica in rifugio ! I canti corali abbinati alla cena mi ricordano una sera di inizio estate di qualche anno fa al ristorante del CAI al Monte dei Cappuccini a Torino. Si cenava fuori con vista sulla città e sulle montagne che la cingono come un abbraccio alpino. Al primo piano c’è la famosa “Sala degli Stemmi” utilizzata spesso dal CAI per premiazioni ed eventi vari. In quella sala mi hanno dato un po’ di anni fa l’aquilotto dorato che viene omaggiato ai soci dopo 25 anni di ininterrotta adesione al sodalizio montano. La sala, al tempo della cena, veniva anche usata dal prestigioso coro Edelweiss del CAI di Torino per le prove. Come quella sera della cena in cui i canti alpini abbinati al panorama crepuscolare sulle montagne (e… a qualche bicchiere di “Nebbiolo”…), conferirono alla serata un’atmosfera unica e, purtroppo, irripetibile in quanto il suddetto coro cambiò poi la sede delle prove settimanali.
Tornando al Ciriè mi permetto anche di fare due richieste ai componenti della tavolata canterina. Due “superclassici” del genere. La prima è “Signore delle cime”. Bellissima ma un po’ tristina, visto “l’evento” che viene celebrato… La seconda richiesta è assai meno funerea. Trattasi de l’immancabile “La Montanara” che il vicentino Toni Ortelli (di Schio) compose nel lontano 1927 proprio qui a Pian della Mussa. La composizione in loco è celebrata da una targa metallica posta a lato della strada sotto il rifugio, dove si posteggia per andare al Gastaldi oppure per incamminarsi verso una delle belle escursioni o salite della valle. Come la Ciamarella che con isuoi 3676 m è detta “la regina delle valli di lanzo” essendo la montagna più alta delle tre “valades”. Ci sono salito da solo parecchi anni fa pernottando al Gastaldi. Mi ricordo il brutto ghiaccio scuro che avevo trovato nella parte finale, quel ghiaccio malefico dove anche i ramponi fanno fatica a fare presa.
Ma si può salire anche in giornata partendo dal parcheggio prima citato. Sono quasi 1900 m di “dislivello positivo”, quindi un discreto “gitone” impegnativo ma fattibile con un buon allenamento.
Tornando ai canti di montagna da molti anni mi accarezza l’idea di entrare in un coro alpino. Di solito cercano sempre nuovi coristi per rimpiazzare quelli che… che… “smettono”… Ci penserò più avanti quando sarò (ancora) più vecchio. La serata scorre piacevole tra canti e libagioni varie tra cui la tanto attesa polenta nelle due versioni “classica” e “concia” che ci vengono portate in terrine circolari in terracotta, praticamente due… “lune piene” che ricordano molto quella che ha rischiarato prima il nostro cammino notturno con arrivo controvento. Qui, per fortuna, siamo al caldo e le due ciotole fumanti invitano alla degustazione mentre il vento fuori dal rifugio continua a fischiare come nella famosa canzone partigiana.
A cena ultimata saliamo in camera (buoni ultimi… ) ma prima una sosta alla piccola libreria del rifugio. Mi scelgo un libro biografico sul grande Gian Carlo Grassi che ha come sottotitolo “L’inesauribile scalata di un sognatore”. Il volume è piuttosto malconcio in quanto la rilegatura ha ceduto di schianto e praticamente tutte le pagine sono diventate fogli singoli. Ma il soggetto del libro mi attrae tantissimo.
Grassi è stato un idolo della mia gioventù montagnina. Mi ricordo ancora il senso di incredulità alla notizia della sua morte avvenuta il 1° aprile del 1991 nel corso di una salita solitaria di una cascata sul Monte Bove nei Sibillini. Ricordo che non mi pareva vero. Dopo averne fatte di cotte e di crude sulle Alpi piemontesi e valdostane, Grassi aveva trovato il suo destino su una vetta appenninica. Poi avevo cercato informazioni su questo “Monte Bove” e avevo scoperto che i versanti nord-est ed est presentano pareti di 750 m solcati da canali nevosi e da cascate. Probabilmente e su uno di questi versanti che Grassi è caduto. Però anche il nome… monte Bove… ricorda un po’ il “t’amo pio bove …” di carducciana memoria. Assai più aulica è la montagna dove trovò la sua fine l’amico di Grassi, Gianni Comino caduto nel 1980 su un seracco della Poire al Monte Bianco. Vabbè… pensieri strambi.
Mia moglie va sul “classico”. Un bel fumetto di Topolino e tanti saluti a tutti.
Saliamo in camera. Ci sistemiamo, leggiamo un po’, due coccole e poi… “buna nöit”. Alle 6 mi sveglio e non riesco più a riaddormentarmi. Allora proseguo la lettura del libro su Grassi posizionando la abatjour sul pavimento per non disturbare il sonno di Carla.
Approfitto della rilegatura “spampanata” per leggere il libro una pagina alla volta come fossero delle schede prese da un raccoglitore. Scopro che Grassi ha salito la Cresta del Leone al Cervino quando aveva 18 anni con un amico. Io l’ho affrontata quando di anni ne avevo 31 (o 32… boh…) e con la Guida Roby Boulard, gestore “storico” del rifugio Jervis prima citato. In questa differenza di età e di approccio sta tutta la differenza tra un montagnino della domenica e un fuoriclasse dell’andar per monti.
La mattina ci accoglie una colazione superba, quasi da Villaggio Valtour. Ripongo il malconcio volume nella piccola libreria del rifugio e mi riprometto di procurarmelo per poterne ultimare la lettura. Lo troverò qualche settimana dopo nella fornitissima Libreria della Montagna di via Sacchi a Torino, luogo magico, con il pavimento in legno a listoni scricchiolante, da cui non sono mai riuscito ad uscire senza un pacchetto confezionato o un volume sotto il braccio, a seconda che l’acquisto fosse a scopo di regalo o di “autoconsumo”.
La conca è ancora in ombra e quindi aspettiamo che il sole la illumini (e la scaldi) prima di lasciare il rifugio. Dalla finestra della cameretta si vede la linea del sole avanzare. Tra 10 minuti possiamo uscire.
Vado a pagare e segnalo il mio status di “socio CAI” grazie al quale beneficio di uno sconto previa verifica sulla presenza del bollino annuale. Ce ne sono ben 44 di bollini. Il primo è del 1979. Quanti anni… non c’è merito nel tempo che passa. L’unico piccolo orgoglio è quello di essere riuscito a conservare la tessera originaria per tutti questi anni. Un tempo (anni ‘80) rischiò di andare perduta insieme con tutto il portafoglio in una giornata di bagni estivi nei “tumpi” (vasche naturali) nel vallone dei Carbonieri in Val Pellice. Il portafoglio, non si sa come, era finito nel torrente. Io ne seguii il corso con audacia quasi da torrentista e lo recuperai, con tutti i documenti compresa la preziosa tessera del CAI, prima che il corso d’acqua confluisse nel fiume Pellice.
Da allora presi l’abitudine di togliere la tessera nera dal portafoglio e riporla nel primo cassetto del comodino. Con questo accorgimento ho preservato la sua esistenza mettendola al riparo da un paio di eventi negativi che hanno coinvolto il portafoglio in questi lunghi anni (uno smarrimento e un furto). La tessera esce dal suo “rifugio” solo durante la fase di preparazione di un’uscita e torna a dormire nel comodino a fine gita.
Usciamo al sole del mattino e decidiamo di fare due passi fino al roccione vicino a cui passa il sentiero per il rifugio Gastaldi.
Ci godiamo il sole del mattino che ci scalda piacevolmente. Due foto ricordo e poi iniziamo a scendere. Dai che c’è da vedere la Davis in tv. Metti mai… che la vinciamo…