I tre ultimi problemi delle Alpi – 1 (1-5)
di Anderl Heckmair
Prefazione alla prima edizione italiana (Cappelli, 1953)
di Spiro Dalla Porta Xydias
La traduzione del libro di Heckmair, che si accentra intorno alla prima salita della Nord dell’Eiger, la famosa “Parete proibita”, vede la luce in Italia a più di quindici anni dalla straordinaria impresa. E dato che nella letteratura alpinistica si è usi sfruttare l’attualità delle grandi salite, potrebbe forse sorgere il dubbio che l’intervallo sia stato troppo lungo e che il volume stesso non presenti motivi d’interesse, data la passata attualità del soggetto.
Crediamo invece che questo libro, per vari fattori, abbia un’importanza non seconda a nessun altro nel nostro campo.
La storia dell’alpinismo non è molto antica. Tralasciando le salite storiche che rappresentano solo singoli casi, data la loro soluzione di continuità, possiamo forse prendere per data d’inizio l’ascensione di Jacques Balmat al Monte Bianco.
In realtà abbiamo una forte attività continuata solo a partire dalla metà del secolo scorso con le salite dei primi grandi pionieri inglesi, Whymper, Mummery, Tyndall, ecc.
Poco più di cento anni di vita, quindi, ma terribilmente intensa. Proprio per questo, a distanza di pochi anni, pur trovandoci ancora sotto l’impressione soggettiva degli avvenimenti, riusciamo in certo qual senso ad estraniarci ad essi e ad inquadrarli. Si è verificato così il fenomeno di un gruppo di scalate (di una scalata, talvolta) che aprivano e chiudevano un periodo della storia dell’alpinismo, e che furono subito giudicate come tali. La prima salita di Innerkofler alla cima Piccola di Lavaredo, per esempio.
Le prime salite fatte da Heckmair e Cassin, a distanza di pochi giorni, rispettivamente alla Nord dell’Eiger ed alla Punta Walker delle Grandes Jorasses. Oggi non ci è difficile scorgere il taglio netto tra dite fasi, coincidente con quelle scalate, accentuato poi un anno dopo dal sopravvenire della guerra. Ma se ne rese conto e lo segnalò già all’indomani delle imprese il giornalista Guido Tonella che aveva potuto assistere ad entrambe. E lo confermò un grandissimo alpinista, Giusto Gervasutti, che aveva avuto la sfortuna di giungere tardi e di non poter così prendere parte attiva ai tentativi vittoriosi.
Ecco dunque il libro di Heckmair acquistare un’importanza in un certo qual modo storica. E di questo l’autore stesso ne è ben conscio, quando conclude il racconto della vittoriosa impresa sull’Eigerwand: “Con la soluzione dell’ultimo grande problema delle Alpi, un capitolo della storia dell’Alpinismo si è chiuso”. Ma questo non è tutto, perché ancor oggi riesce facile constatare come le due grandi imprese sopracitate (Eigerwand e direttissima alla Walker) non appartengano al passato, ma suscitino tutt’ora un interesse a quant’altri mai vivo e attuale. Forse in parte perché i due grandi protagonisti Heckmair e Cassin sono ancora alpinisti in piena attività. Specialmente, pensiamo, perché queste salite rappresentano un limite forse non ancora superato, almeno sulle Alpi Occidentali.
Le ultime due grandi vittorie di Bonatti e Ghigo sul Gran Capucin e di Magnone e compagni sulla Ovest dei Drus hanno aperto una nuova era, quella delle scalate con largo impiego di mezzi artificiali ed uso quasi costante della salita “a forbici” anche nel gruppo del Bianco. Resta a vedere se questa tecnica potrà veramente trovare anche su quelle montagne diffuso impiego. E se poi tali salite raggiungono un più alto livello di difficoltà. Pensiamo che — a parte casi sporadici — ad un ancor maggior dispendio d’energia fisica e ad un più lento procedere (riservato questo ai primi salitori; la ripetizione della via al Grand Capucin ci sembra significativa in merito) corrisponda una diminuzione della pericolosità. Per poter giudicare imparzialmente sarebbe necessario l’opinione oggettiva di un ripetitore di queste salite, non direttamente interessato all’argomento.
Certo, se il parallelo con le Dolomiti ci è lecito, non possiamo parlare di difficoltà maggiore comprendendo nel termine “difficoltà” un complesso di fattori tra cui quello della “pericolosità” (per il tipo di salite chiodatissime), come appunto la Ovest dei Drus e il Grand Capucin — in confronto alle grandi imprese del ’38, Eigerwand e direttissima alle Jorasses.
In ogni caso, l’esiguità delle ripetizioni in quasi quindici anni sottolinea ancora una volta il valore eccezionale di quelle scalate, tale veramente da suscitare ancora oggi l’interesse acuto ed immediato destato all’indomani della loro attuazione.
Ecco così chiarita l’importanza di questo libro e la necessità della sua traduzione. Ma anche per altri motivi ci sembra quanto mai indicato a far parte della nostra collana. A prescindere dal fatto alpinistico, l’opera di Heckmair presenta anche dal lato letterario motivi d’interesse: scritto da una guida (e qui verrebbe istintivo il luogo comune de “la piccozza e la penna”), non ricerca effetti stilistici o eccellenza di forma; si presenta come un racconto semplice, senza artifizi, ma proprio per questa sua genuinità, per l’impegno sempre presente dell’autore, per la grande passione con cui viene trattato l’argomento, riesce quanto mai valido e vitale. In certi punti (la tragedia di Hinterstoisser, Kurz, Angerer e Rainer, o il superamento della fessura ghiacciata nell’impresa vittoriosa) il dramma acquista un’intensità difficilmente uguagliatile. In altri il pacato umorismo dell’autore sembra voler allentare la tensione del soggetto: così l’episodio delle sardine durante il primo bivacco sull’Eigerwand, o del “bicchiere-miscelatore” durante quello sulle Jorasses. In ogni caso, possiamo senz’altro parlare di forma aderente al contenuto, che fa del tutto un’opera scorrevolissima e appassionante.
Ma il libro possiede inoltre un altro pregio non indifferente: la giovane letteratura alpina, per quanto ancor oggi spesso e volentieri dimenticata dalla critica ufficiale, possiede già requisiti fondamentali e leggi da cui non può derogare. Mentre una volta la novità del soggetto (la scalata) e lo scenario naturale (la montagna) costituivano sempre motivi sufficienti d’interesse e spesso spunti originali di genuina poesia (Guido Rey, Julius Kugy, Émile Javelle), oggi un libro di scalate difficilmente offrirebbe per se stesso motivi sufficienti per una pubblicazione: cadrebbe nella cronaca. È indispensabile una propria organicità, un nesso coordinatore, un’unità. E ben lo capisce Heckmair che non s’accontenta di raccontare le sue salite, ma le inquadra nel motivo fondamentale “I tre ultimi problemi delle Alpi”. “Questo volume narra, attraverso la mia vita alpinistica, la conquista degli ultimi tre grandi problemi alpini, i tragici tentativi, e le felici vittorie relative ad essi”.
Non importa se al Cervino sono dedicate poche pagine (poche righ,e potremmo dire) e se la storia delle Grandes Jorasses è appena tracciata. L’unità dell’opera permane sempre ed è anzi data proprio dal rapporto tra questi tre grandi problemi e l’Heckmair scalatore che dedica ad essi la sua attività d’alpinista. E l’equilibrio non viene alterato dall’aggiunta di un nuovo capitolo, assente nell’edizione tedesca, “Vent’anni dopo, lo Sperone delle Jorasses”, che anzi porta una nuova nota epica e romantica a tutta l’opera.
C’è un altro aspetto per cui questo volume acquista oggi particolare importanza: fin dai primi anni di questo dopoguerra, si è sentito parlare di crisi dell’alpinismo, da noi specialmente. Crisi spirituale, più che di uomini. Come se ad un certo punto fossero mancati i motivi e la mèta da raggiungere. E contemporaneamente ecco annunciarsi e concretarsi un sensibile miglioramento nel livello tecnico medio degli scalatori; miglioramento quindi in superficie e non in profondità. Forse dall’antitesi di questi due termini presero piede e si affermarono tendenze fino allora latenti: l’esibizionismo, il senso sportivo, il fattore «record». Ora i giovani, fautori di queste correnti, non possono che riconoscere la superiorità dei grandi scalatori, specialmente di chi, come Heckmair e Cassin, uniscono idealmente il periodo dell’anteguerra con quello attuale.
Ma Heckmair prende qui una posizione netta contro tali correnti: a proposito di alcuni arrampicatori che si facevano mantenere a Grindelwald e compivano sull’Eiger tentativi e ricognizioni solo davanti a folto pubblico, li definisce “filibustieri dell’alpinismo”.
Ed ancora più intransigente, si dimostra di fronte alle salite fatte a cronometro: “Pensare di stabilire un record, è cosa quant’altre mai assurda nell’alpinismo”, scrive, quasi per giustificarsi, dopo di aver compiuto in cinque ore e mezza la salita alla Nord della Cima Grande di Lavaredo.
Ci resterebbe forse da esaminare un ultimo punto: quale è la posizione dell’autore di fronte all’alpinismo tedesco?
Alcuni hanno voluto vedere in quest’opera una smentita alla tendenza nietschiana, al disprezzo del rischio, che si è soliti attribuire agli scalatori germanici.
La questione ci sembra molto delicata, né vorremmo far cosa ingrata all’autore, cercando di approfondirla con competenza certo insufficiente. Ci limiteremo però a ricordare quanto scrive in merito Heckmair stesso; la spiegazione quasi filosofica che dà del fenomeno alpinistico fiorito a Monaco tra le due guerre mondiali; la dolente deplorazione, dopo la morte di Rittler e Brehm sulle Iorasses, o di Andreas Hinterstoisser, Toni Kurz, Edy Rainer e Willy Angerer sull’Eiger. — “Tutti erano giovani, troppo giovani! Si può far loro un rimprovero?”.
Ma d’altro canto, Heckmair non può certo essere preso e citato quale esempio degli scalatori tedeschi di quel periodo, come da noi non lo può Cassin. Heckmair e Cassin, come ieri Comici e Preuss rappresentano delle luminose eccezioni che onorano altamente l’alpinismo del loro paese. Ma, proprio perché eccezioni, si pongono al di fuori della corrente comune.
Siamo perciò grati ad Anderl Heckmair, uno degli scalatori più grandi di tutti i tempi, d’averci offerto la possibilità di conoscere dalla sua stessa voce le sue imprese e di far tesoro degli insegnamenti che indirettamente ci prodiga nel suo bel libro.
Prefazione all’edizione del CDA (aprile 2001)
di Spiro Dalla Porta Xydias
Quasi cinquant’anni fa, nella mia prefazione alla prima edizione italiana di questo libro, avevo scritto che, dopo tre lustri, si poteva indubbiamente constatare come le due grandi “prime” occidentali alla Nord dell’Eiger e allo sperone nord della Punta Walker sulle Grandes Jorasses avessero chiuso definitivamente un’epoca. E mettevo in rilievo la modernità di Heckmair che non si era accontentato di narrare la sua grande impresa nello spirito dei récit d’ascension e aveva invece ricercato l’inquadratura storica già nel titolo “I tre ultimi problemi delle Alpi”, mantenendosi poi fedele al concetto nel contesto narrativo, pur dedicando, ovviamente, molto meno spazio e attenzione alle Nord del Cervino e delle Jorasses in confronto a quella dell’Eiger. Oggi, il margine temporale dalla “prima” all’Eigerwand è di sessantatré anni, ma posso tranquillamente confermare la mia affermazione: questa salita, seguita a distanza di pochi giorni dalla direttissima allo sperone Walker delle Grandes Jorasses, ha proprio concluso un periodo storico nel mondo della scalata. E la Nord dell’Eiger diventa sempre più, malgrado la sensibile evoluzione tecnica, il mito della parete-simbolo, tale da concentrare tutte le peculiarità delle grandi pareti la cui “conquista” ha caratterizzato gli anni tra le due guerre mondiali. Lo confermano il dislivello (1800 metri, il maggiore di tutte le Alpi), i vani tentativi drammatici, il numero delle vittime (ben nove), la scura, tenebrosa atmosfera che ormai circondava la facciata, persino gli appellativi coniati allora per essa: “Parete proibita”, “Orco”, “Parete assassina”. E anche il fatto che tutti quegli incidenti mortali erano in un certo senso avvenuti “in diretta”, perché contrariamente agli altri grandi versanti nord delle Occidentali e delle Centrali, l’Eigerwand sorge con assoluta soluzione di continuità sopra uno zoccolo erboso, di fronte ai grandi alberghi della Kleine Scheidegg e di Grindelwald.
Malgrado l’accentuata evoluzione verificatasi nell’arrampicata, la Nord dell’Eiger non ha perso la sua aura di leggenda negativa, solo in parte giustificata dal fatto di essere stata l’ultima grande parete tradizionale ad essere stata scalata. Tale cioè da concludere appunto un periodo storico, il cui distacco dal seguente è stato esasperato dalla seconda guerra mondiale, scatenatasi un anno dopo. E neppure va dimenticato il numero elevato di morti, aumentato poi in modo sensibile nel corso dei primi tentativi di ripetizione.
Tanto più importante appare quindi l’impresa di Heckmair-Vörg-Kasparek-Harrer, la cordata vittoriosa, non solo dal punto di vista alpinistico, ma anche da quello umano.
Ai giorni nostri, questo fascino dell’estremamente difficile e pericoloso è stato in parte ridimensionato in seguito ad alcune performance eccezionali, dovute in buona parte agli incredibili progressi nel campo dell’equipaggiamento, dell’attrezzatura e dell’allenamento a tempo pieno, basti pensare alla tecnica della piolet-traction e agli attrezzi con cui oggi vengono affrontate le pareti di ghiaccio e di neve. Allora la grande innovazione era stata l’uso dei ramponi a dodici punte che aveva permesso ad Heckmair-Vörg l’incredibile inseguimento della cordata austriaca, partita un giorno prima e raggiunta già alla fine del secondo nevaio.
E qui c’è da fare subito una premessa. Talvolta il molo del secondo di cordata può essere determinante, anche se non arrampica mai in testa: questo si verificò, per esempio, nel corso della prima invernale a quella stessa Eigerwand, in cui Toni Hiebeler fu la mente direttiva e l’anima della formazione. Niente di tutto ciò per la prima assoluta a questa stessa parete: Heckmair è stato in tutti i sensi il vero “vincitore”. Raramente in una salita la funzione del capocordata è risultata così importante, essenziale. Heckmair non ha mai ceduto il comando della formazione, malgrado le difficoltà, i passaggi resi estremi dalle condizioni della parete (ghiaccio, vetrato, tempesta), le cadute, il bisogno di requie dopo l’impegno costante. Quel suo procedere impavido, al terzo giorno di scalata, lungo le fessure d’uscita aspettando la caduta delle valanghe, e sapendo, per precedente controllo, di avere circa un’ora di tempo a disposizione prima della slavina successiva, e di dovere superare in quel lasso di tempo una lunghezza di corda su quella fenditura ricoperta di ghiaccio, individuando poi un susseguente posto per il rinvio, fuori dalla traiettoria delle scariche; e questo per l’intera mattinata, fino al nevaio terminale raggiunto nelle primissime ore pomeridiane…
E così quel suo inoltrarsi in testa alla pesante formazione sul campo di ghiaccio che porta alla Rampa, oltrepassando il Bivacco della Morte – Colonne d’Ercole per l’ardimento umano! – su cui s’erano arenati tutti i precedenti tentativi, e quel condurre la cordata in vetta alla parete che aveva causato nove morti, rappresentano un’azione eccelsa dal punto di vista umano, prima ancora che sotto il profilo alpinistico.
Si leggano i resoconti delle ripetizioni scritti da Terray in I conquistatori dell’inutile e da Rébuffat in Stelle e tempeste per capire e apprezzare il valore della straordinaria impresa di Heckmair. Per cui, ho accettato con gioia di collaborare alla riedizione italiana della sua opera giusto omaggio a uno dei più grandi alpinisti di tutti i tempi.
Anche perché da qualche tempo si tende troppo spesso a dimenticarlo a favore di Harrer, sull’onda di un film di successo e di propagande abilmente interessate. La realtà è che Harrer, sull’Eigerwand, è stato secondo di Heckmair. E basta. Come già detto, la Nord dell’Eiger, per vari motivi, appare una delle imprese più importanti della storia dell’alpinismo. Insieme alla direttissima alla Punta Walker delle Jorasses, ha indubbiamente chiuso l’epoca forse più affascinante dell’alpinismo, quella dell’affermazione del sesto grado sulle Alpi. Non solo perché si tratta delle due ultime grandi vie nuove prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, che con il suo solco tragico e sanguinoso isolò ulteriormente quel momento della storia alpinistica, ma anche perché costituiscono rispettivamente l’ascensione più pericolosa e quella più difficile effettuate fino allora lungo tutto l’arco alpino — almeno nei settori occidentale e centrale.
Se vogliamo però fissarne una sola a simbolo di quell’era, bisogna certo scegliere quella all’Eigerwand, non solo per l’atmosfera di “parete proibita” con i suoi nove morti, ma anche perché la scalata di Heckmair-Vörg-Kasparek-Harrer ha costituito una prima assoluta, mentre la Nord delle Jorasses era già stata percorsa lungo un itinerario meno diretto da Rudolf Peters e Martin Meier.
Appare dunque indovinata questa edizione del libro di Heckmair, anche perché la prima edizione, del 1953, è del tutto introvabile, oltre che esaurita. E tanto più che a scriverla è stato proprio il protagonista dell’impresa, che con la sua capacità, la sua bravura, il suo ardimento, è riuscito a debellare il mito negativo forse più pauroso che sia mai esistito nel mondo dell’Alpe.
Ma c’è un altro motivo per cui I tre ultimi problemi delle Alpi andava ripubblicato ed è che si tratta di un bel libro. La sua rilettura, a tanti anni di distanza, non denuncia debolezze — che all’epoca della prima edizione, mentre l’impresa era ancora di attualità, avrebbero potuto passare inosservate. Ora il giudizio, proprio per il solco temporale, convalida appieno la validità dell’opera, sia per la forma che per l’equilibrio narrativo. L’importanza dell’avvenimento, anche se non presenta più l’interesse di una cronaca contemporanea, emerge anche per la fluidità dello stile e del contesto, e mantiene un’attualità che difficilmente si riscontra in opere del genere.
La scrittura di Heckmair non è mai carica di espressioni roboanti, ma proprio questa semplicità quasi scarna ha permesso al volume di superare il vaglio degli anni. Inoltre l’autore è dotato di un piacevole senso dell’umorismo, un po’ all’inglese, che tiene lontano il pericolo dell’enfasi e della retorica e stabilisce col lettore un contatto immediato e costante. Uno per tutti, l’episodio della scatola di sardine durante il primo bivacco.
Ma questa prosa asciutta ed essenziale assume anche, all’occasione, toni drammatici eccezionalmente coinvolgenti. La descrizione della tragedia e morte di Toni Kurz è uno dei brani più pregnanti della letteratura di montagna.
Heckmair ha avuto il grande merito di non adagiarsi nell’epopea di un’impresa forse ineguagliabile, ma ha inquadrato la sua salita all’Eigerwand nel suo periodo storico. E non lo ha fatto con epico, freddo distacco, ma ha saputo inserire con mano leggera la cronaca degli altri due “ultimi problemi” – le Nord del Cervino e delle Jorasses – nel racconto della sua vita alpinistica, raccontando i suoi tentativi e le sue sconfitte su queste due pareti assieme al suo successo sull’Eiger.
C’è ancora una storia che desidero raccontare a chiusa di questa mia nuova presentazione. O meglio, l’intreccio di due storie.
Nel 1938 l’ascensione dell’inviolata parete nord dell’Eiger era diventata un incubo, un imperativo categorico, angoscioso. Con la differenza che prima si era trattato di un drammatico problema esclusivamente germanico, mentre quell’anno, dopo la sfortunata avventura di Bruno Detassis e Giuseppe Pirovano, e specialmente la tragedia di Sandri e Menti, precipitati dalla “parete proibita” travolti da una valanga, era diventata anche una questione italiana.
Per anni Gino Soldà aveva fatto di tutto per poter attaccare la grande, terribile parete, sempre ostacolato dalla carenza di mezzi finanziari per affrontare l’onerosa trasferta (“A me, i soldi non li hanno dati!”, dirà più tardi). E in perfetto silenzio si era preparato, con i suoi compagni Esposito e Tizzoni, uno dei più grandi alpinisti di tutti i tempi, Riccardo Cassin, vincitore dello spigolo sud-est della Torre Trieste, della Nord della Cima Ovest di Lavaredo, della Nord-est del Pizzo Badile. Quando finalmente i tre lecchesi furono pronti e ottennero il permesso dal lavoro (allora c’era anche quel problema, altro che le odierne sponsorizzazioni!) partirono per Grindelwald. Ma arrivarono tardi: da due giorni Heckmair era in parete con i suoi compagni e stava per concludere felicemente la grande impresa. I tre italiani aspettarono sul posto la fine vittoriosa della salita, poi Cassin si ricordò dell’esistenza di un altro “grande problema”, suggeritogli dall’amico giornalista Vittorio Varale: la direttissima alla Nord della Punta Walker delle Grandes Jorasses, sulla quale erano stati effettuati parecchi vani tentativi. Così, sfumato il sogno dell’Eigerwand, Riccardo si recò sotto l’altra parete con i compagni, attaccò, e in tre giorni di arrampicata estrema, malgrado una tempesta che li colse quasi in uscita, riuscì a raggiungere la cima.
Intanto anche a Heckmair, dopo breve, meritato riposo, venne in mente l’altro grande problema insoluto, la Nord della Walker: perché non approfittare della forma strepitosa e dello splendido affiatamento con Vörg per tentare anche quest’altra grande prima? Ne parlò con Wiggerl che si dimostrò subito entusiasta. Ma giunti a Chamonix appresero che qualche giorno prima Cassin, con Esposito e Tizzoni, aveva compiuto la salita. I ruoli si erano invertiti: questa volta era stato Heckmair a giungere in ritardo!
Ma Heckmair, che è un uomo tenace e non dimentica gli impegni che si è prefisso, tredici anni dopo fece ritorno con Köllensperger alla Nord della Punta Walker e compì la settima ripetizione, resa oltremodo ardua da una violenta tempesta di neve che colse gli scalatori in parete.
Nella relazione di questa salita, Heckmair commentò testualmente: “Iscrivo in testa a questo articolo il nome di Riccardo Cassin. Dopo aver salito il suo itinerario lungo lo sperone della Punta Walker, sento il dovere di rendere pubblicamente omaggio al valore di questo grande scalatore italiano che, pur non avendo il piacere di conoscere personalmente, dichiaro di considerare ora come il più luminoso esempio che io abbia mai incontrato nella mia carriera di alpinista per l’audacia, la resistenza, l’intuizione della via da lui manifestate guidando la vittoriosa impresa del 1938”.
Anderl mi aveva già fatto un bellissimo regalo quando avevo tradotto il suo libro nel 1952, consegnandomi il racconto della sua salita alla Punta Walker, che non era stato ancora pubblicato e che comparve per la prima volta nell’edizione italiana. Un anno dopo, ebbi la fortuna di fare incontrare per la prima volta i due eccezionali alpinisti, Cassin ed Heckmair, in occasione di una conferenza sull’Eigerwand che avevo organizzato a Lecco.
Ma il dono più eccezionale che ho ricevuto è stato quello di essere diventato amico sia di Anderl che di Riccardo: due uomini i cui nomi sono iscritti per sempre nella storia del grande alpinismo e dell’ardimento umano.
I tre ultimi problemi delle Alpi
di Anderl Heckmair
I primi successi e insuccessi. La conquista della Nord del Cervino
Le conquiste degli ultimi tre grandi problemi delle Alpi sono collegate direttamente tra di loro in modo più stretto di quanto possa sembrare a prima vista. E non per caso le tre cordate che vinsero le ultime grandi pareti nord erano tutte di Monaco.
Intorno al 1930 si erano infatti affermati a Monaco alcuni giovani, seguendo l’esempio di grandissimi scalatori quali Hans Dülfer, Otto Herzog, Emil Solleder, Hermann Kobel (dopo accurata ricerca, non risulta il nome di Kobel tra gli alpinisti di lingua tedesca attivi in quel periodo, NdR), ecc. Ma la gioventù, per natura, non si accontenta di seguire la traccia degli anziani, vuole superarli; non si attarda a riflettere sul significato dell’alpinismo e, se pur comprende il sentimento della natura, la cosa principale rimane sempre il senso della libertà e la possibilità di misurare le proprie forze fresche. Oltre a ciò s’era aggiunta la grave disoccupazione che colpì particolarmente i giovani nel 1928. Obbligati all’ozio forzato, rivolsero tutto il loro slancio e il loro bisogno d’azione alla montagna. Questo fu anche il mio caso – ero inoltre libero da qualsiasi vincolo.
Questo volume narra, attraverso la mia vita alpinistica, la soluzione degli ultimi tre grandi problemi alpini: i tragici tentativi e le felici vittorie.
Prima di aver mai messo piede su una parete avevo già udito parlare della Nord del Cervino nella cerchia di amici di mio fratello, di due anni più anziano di me. Infatti già nel 1925 Hermann Kobel (vedi nota precedente, NdR) e Emil Solleder pensavano seriamente a questo problema. Data la loro valentia e la loro esperienza, tutti e due erano certamente all’altezza dell’impresa, ma il destino aveva stabilito altrimenti. Kobel per primo rimase ucciso da una scarica di sassi sulla parete del Benedikt (dopo accurata ricerca, non risulta il nome “Benedikt” tra le cime austriache o dolomitiche, NdR). Poi Solleder, qualche anno dopo, seguì la sua sorte in un incidente, durante una discesa a corda doppia nella traversata della Meije, in Delfinato. Queste sciagure mi fecero un’impressione più profonda di quel che io stesso credessi allora.
I primi timidi tentativi della mia carriera di scalatore li feci nel Kaiser, in compagnia d’un amico di mio fratello. Poi percorsi da solo le magnifiche montagne del Karwendel e rimasi muto e attonito sotto l’immane parete nord della Lalider.
Chi è capace di compiere una simile impresa – pensai – chi può salire sereno questa parete, deve sentirsi certamente molto al di sopra delle piccinerie umane! E, pieno di rispetto, lessi nel libro della Falkenhütte i nomi degli alpinisti che avevano compiuto questa scalata.
Ma la mia soggezione per tali imprese non durò a lungo. Bene allenato nella nostra palestra di Monaco, dove avevo passato ogni ora libera facendo la conoscenza dei giovani scalatori locali, potei ben presto compiere scalate nel Kaiser e fare, tra le altre, con Ludwig Gramminger, la Nord della Lalider. Percorremmo sistematicamente tutte le vie delle Alpi vicine a casa, ma non ci azzardammo ancora a pensare a prime salite.
Frattanto ero diventato socio del club Hoch Empor e della Sezione Baviera del Club Alpino Tedesco. Lì strinsi amicizia con tutti i compagni coi quali dovevo poi compiere le mie ascensioni, specialmente con Leo Rittler e Hans Brehm.
Nel 1929, in una serata alla sezione Baviera, Walter Stösser di Pforzheim, parlando delle scalate fatte sulle Dolomiti, raccontò come, durante la quarta salita alla Solleder della Civetta, da lui compiuta, un masso enorme si fosse staccato dal suo alveolo.
“La ripetizione della Solleder diventa ora problematica” – aggiunse – e io mi spaventai molto e pensai che dovevo affrettarmi ad andare su quella via ritenuta finora la più dura di tutte, finché era ancora fattibile. Così fissai decisamente la mia prima gita nelle Dolomiti. Hans Brehm doveva essere il mio compagno.
Nella primavera del 1930, con poco denaro, zaini enormi e specialmente con la sensazione della più completa libertà, ci dirigemmo attraverso il Brennero verso il meraviglioso paese dei nostri sogni, le Dolomiti. Avevamo una sola meta: la Nord della Civetta. L’alveolo poteva rompersi, e allora addio salita…!
Passammo sotto lo stupendo Catinaccio, ci inerpicammo su per il Pordoi, poi giù, fino ad Alleghe. Ci fermammo solo ai piedi della gigantesca muraglia della Civetta.
I monacensi Emil Solleder e Gustav Lettenbauer ne avevano fatto la prima scalata nel 1925. La parete si innalza per 1200 metri, con difficoltà sempre ininterrotta. Allora non si era a conoscenza della moderna tecnica dei chiodi, e tutta la salita doveva essere compiuta in arrampicata libera. Eravamo la quinta cordata che si avventurava su quella parete, ma in quali condizioni! Sapevamo che nessuno era riuscito a evitare il bivacco. E noi eravamo senza sacco da bivacco. La parete stessa si mostrava in gran parte ricoperta da neve fresca. Ma tutto questo non ci impedì di attaccare già il giorno successivo al nostro arrivo. Così fanno i giovani…
Ma le conseguenze di questo slancio irragionevole non si fecero aspettare! Durante una traversata, Brehm volò e rimase appeso sotto uno strapiombo senza che io avessi la minima idea di come fare per recuperarlo. Dopo molti vani tentativi, dovetti risolvermi a calarlo giù, e raggiungerlo poi a corda doppia sul terrazzino che per fortuna aveva incontrato.
Rimanemmo lì a lungo, incerti e disperati, non sapendo se proseguire o tornare indietro. Poi decidemmo di continuare e alle due del pomeriggio avevamo raggiunto soltanto il punto in cui io ero già arrivato la mattina alle dieci. Ore preziose erano così andate perdute, ma malgrado ciò e malgrado l’abbondante neve fresca, alle otto di sera eravamo in cima, bagnati fino alle ossa, affamati, ma felici. La nostra euforia non durò a lungo, perché una fitta nebbia ci velò la via di discesa di cui, fino a quel momento, non ci eravamo minimamente preoccupati. Dovemmo bivaccare in vetta, nello stato in cui eravamo, senza il minimo equipaggiamento. Inoltre di notte venne giù una pioggia fredda e continua che non ci lasciò il tempo di annoiarci.
Quell’estate non colsi altre strepitose vittorie alpine. Riuscimmo a compiere la seconda ascensione alla Est del Sass Maor e a scalare una serie di pareti meno importanti; tra queste lo Spigolo del Velo, sulla cui vetta, raggiunta nel pomeriggio, ci addormentammo placidamente, risvegliandoci soltanto di sera, avvolti nella nebbia più fitta. La discesa in terreno sconosciuto (compiuta in gran parte a corda doppia) risultò naturalmente pericolosa, e solo grazie alla buona sorte raggiungemmo la base della parete sani e salvi.
La fortuna rappresenta certamente un fattore importantissimo nei successi alpinistici della gioventù. È come per un ubriaco riuscire a raggiungere la meta al volante di un’automobile lanciata a cento all’ora. Ma chi si limita a biasimare la gioventù non è mai stato giovane, oppure rinnega il suo passato. Inoltre ogni errore arricchisce la nostra esperienza e ci rende sempre più maturi per le grandi imprese.
L’ultima salita dell’anno 1930 doveva avere una grande importanza per la mia vita futura di scalatore. Fu infatti sulla Ovest del Totenkirchl, nel Kaisergebirge, che conobbi Gustav Gustl Kröner di Traunstein. Durante l’estate egli aveva compiuto tutta una serie di ascensioni nelle Alpi Occidentali, tra cui la seconda salita alla Sentinelle Rouge del Monte Bianco. Di sera allo Stripsenjoch ci narrammo reciprocamente le nostre salite e parlammo degli “ultimi grandi problemi”. Conoscevo quello della Nord del Cervino e Gustl mi parlò della Nord delle Grandes Jorasses, che egli aveva potuto ammirare. Pronunciammo anche la parola magica “Eigerwand”; avevo infatti sentito Welzenbach accennare a questa parete. Con i volti infiammati, non andammo neppure a dormire, e quando l’alba spuntò grigia, avevamo deciso: “Una di quelle pareti dovrà essere nostra!”
In realtà, fino a quel momento non avevo neppure mai visto il ghiaccio, ma questo non era un ostacolo. Il nome “Grandes Jorasses” era per noi il più melodioso dei tre, e perciò optammo per le Jorasses. Da quel giorno fu come se quella parete fosse entrata in me e dominasse ogni mio pensiero e la mia stessa vita. Ero a conoscenza di parecchi problemi minori, ma ormai non m’interessavano più e mi concentravo solo su quella parete. Naturalmente mantenemmo il massimo silenzio sui nostri progetti, confidandoci solo con i nostri amici migliori, i cui consigli e il cui appoggio ci sarebbero stati necessari.
Nel numero di questi erano pure Hans Brehm e Leo Rittler, che approvarono entusiasticamente i nostri progetti; loro stessi erano decisi a conquistare la Nord del Cervino.
Per la primavera del 1931 ogni cosa era pronta. In giugno, bene allenati, Gustl Kröner e io inforcammo le nostre biciclette e uscimmo da Monaco. Rittler e Brehm ci accompagnarono fino a Pasing, poi ritornarono indietro, dovendo ancora portare a termine i loro preparativi e avendo stabilito di partire per Zermatt tre settimane più tardi.
Lungo la strada facemmo una scappata fino alla parete sud della Drusenfluh, di cui avevamo udito orribili notizie. Walter Stösser aveva infatti raccontato d’essersi imbattuto in cinque cadaveri durante la scalata compiuta. Sulla parete aleggiava un’aria di tragedia. I primi salitori avevano portato a termine felicemente l’arrampicata, i secondi erano caduti, i terzi erano riusciti, i quarti erano precipitati, e così fino a Stösser, che aveva fatto la nona scalata. Tutte le cordate pari erano cadute. Queste notizie erano riportate sull’ultimo numero del Bergsteiger, che ci era capitato tra le mani prima della partenza. Così la prossima cordata, la decima, pareva nuovamente destinata alla catastrofe.
Volevamo renderci conto proprio di questo. Perciò a Feldkirch deviammo a sinistra e l’indomani, alle tre del pomeriggio, eravamo alla base della via temuta. In realtà non aveva poi l’aria così terribile, tanto che dubitammo persino di trovarci di fronte alla parete sinistramente descritta. Ma già dopo un paio di lunghezze di corda, trovammo un vecchio brandello di corda.
Dopo pochi metri ci imbattemmo nei primi cadaveri. Non avevano un aspetto spaventoso, perché in gran parte erano ricoperti da pietre e detriti. Secondo la relazione, bisognava ora obliquare a sinistra e trovare, dopo 150 metri, i secondi cadaveri. Eravamo assai impressionati dal fatto che essi segnassero così efficacemente la via. Alle sei eravamo già in vetta. Era stata una buona scalata, non troppo facile, ma nemmeno troppo difficile.
Il giorno seguente, a Schruns, riferimmo le macabre scoperte; fummo indirizzati al parroco, da lì al borgomastro, da questi a un nuovo ufficio, ma nessuno mostrò il minimo entusiasmo per la nostra offerta di collaborare al recupero dei corpi. In fondo, noi non avevamo nessun interesse particolare; eravamo andati lì solo per scongiurare la cattiva sorte, che del resto non ci era stata mai d’ostacolo. Così, con la coscienza a posto, riprendemmo il viaggio attraverso la meravigliosa Svizzera, verso Chamonix.
Raggiungemmo la nostra meta assai prima del previsto. Dovemmo invece aspettare quasi tre settimane il bagaglio – tenda, ramponi, piccozze, pedule, ecc. – che stupidamente avevamo spedito per ferrovia. Quel periodo d’ozio forzato ci parve sfibrante. In seguito, però, la gioia fu ancora più grande quando finalmente, bene equipaggiati, ci dirigemmo verso il rifugio Leschaux, ai piedi delle Grandes Jorasses.
Il primo sguardo a quella immane muraglia corazzata di ghiaccio ci sopraffece. E come se non fosse bastato, la natura ci diede un energico avviso. Per raggiungere il rifugio Leschaux bisogna costeggiare la base della parete nord dei Grands Charmoz, prima di entrare nella Mer de Glace. Avevamo appena raggiunto questo ghiacciaio, quando una scarica di massi piombò giù con terribile frastuono dalla Nord dei Charmoz. Doveva essere crollata un’intera torre. Mi parve persino di aver scorto, così, in piena luce, le scintille provocate dai sassi che si spezzavano. Spaventati, saltammo dietro un roccione, ma la grandine di pietre raggiunse appena la morena. Mi parve un ammonimento, e mi impressionò profondamente. Ma due mesi dopo dovevamo essere impegnati a fondo su quella stessa parete.
Così, con rispetto molto maggiore, la prima bella giornata che ci parve adatta, ci avvicinammo alla parete nord delle Grandes Jorasses. C’erano tre crepacci marginali da superare. Era la prima volta che avevo i ramponi ai piedi, ma mi sentii subito a mio agio sul ghiaccio lucido. Gustl, nella sua qualità di occidentalista esperto, prese la direzione della cordata e si mise a intagliare gradini della dimensione di autentiche vasche da bagno.
Volevamo salire direttamente per il colatoio tra la Punta Walker e la Punta Whymper. Il pendio di ghiaccio era molto più ripido e più elevato di quanto avevamo supposto. Ero così impaziente che mi sembrava di procedere troppo lentamente. Mentre Gustl obliquava in alto a sinistra, io guardavo in su con fare annoiato, quando ecco spuntare come una nuvola bianca con punti neri. Ebbi appena il tempo di avvertire Gustl, che già pietre grosse come pentole cadevano sibilando intorno a noi, con accompagnamento e seguito di valanga. Riuscimmo a schivarle con mosse e salti felini, come nel gioco del pallone; solo che questa volta si trattava di cosa maledettamente seria. Un sasso mi colpì di striscio e un altro centrò la corda attorcigliata: avremmo potuto romperci le ossa, invece ce la cavammo con il solo spavento.
Era già il pomeriggio e scorgemmo arrivare da ovest un temporale che ci spinse a una rapida ritirata. Appena fuori della parete il maltempo scoppiò sopra di noi, con valanghe e scariche di pietre che spazzavano il colatoio. Eravamo fradici, ma oltremodo lieti d’essere sani e salvi quando raggiungemmo di nuovo il rifugio. Era proprio un bel principio, e avevamo ricevuto la nostra prima lezione. Ci rese prudenti, ma non ci scoraggiò.
Nelle settimane successive, come gatti intorno alla pappa, circondammo la parete con il nostro assedio, salendo le cime all’intorno, l’Aiguille de Tacul, il Mont Mallet, la Cresta di Rochefort, ma i nostri occhi e la nostra attenzione erano sempre rivolti alla parete. Gustl, che è un vero artista come pittore, riprese vari schizzi con i tracciati delle possibili vie di salite. Tra questi c’era anche l’itinerario che Peters e Meier dovevano seguire nella loro vittoriosa scalata del 1935.
Partimmo per un secondo tentativo ai primi d’agosto. Per attaccare scegliemmo lo stesso punto al di sopra della crepaccia terminale, lungo il colatoio di ghiaccio. Ma poi ci buttammo a destra su per le rocce della cresta che lo limitano. Esattamente come la prima volta, spuntavano sopra il nostro capo le bianche coltri di neve con i punti neri. Non volevamo retrocedere, ma il cambiamento del tempo ci obbligò a ritirarci.
Per tutta l’annata 1931 non vi fu mai un perìodo di vero bel tempo, e nel gruppo del Monte Bianco i cambiamenti atmosferici sono più forti che altrove. Volevamo assolutamente aspettare un miglioramento del tempo prima di effettuare un terzo tentativo e utilizzammo le rare giornate belle per salire l’Aiguille du Dru, il Grépon e altre cime note. La nostra sola consolazione stava nel sapere che evidentemente non eravamo i soli cui le cose andassero così di traverso.
Incontrammo due celebrità, Welzenbach e Merkl, i cui progetti non ci rimasero a lungo segreti: avevano posto gli occhi sulla parete nord dei Charmoz, ma non ebbero miglior fortuna di noi sulle Jorasses. Al primo tentativo, dovettero attraversare, il secondo giorno, sulla cresta nord-ovest. La seconda volta andò peggio ancora: il temporale li sorprese in alto, sopra il pendio mediano di ghiaccio, e li tenne prigionieri per tre giorni e tre notti su un piccolo terrazzino. Avevamo perso ormai ogni speranza di rivederli e ci preparavamo a una spedizione di soccorso da effettuarsi nella prima bella giornata che si fosse presentata dopo quel tempo catastrofico. Grande fu quindi la nostra meraviglia quando, nelle prime ore della mattina di un giorno di bel tempo, li trovammo sani e salvi nel loro albergo al Montenvers: per la gioia di rivederli, vuotammo una bottiglia di buon vino.
Ancora una volta ritornammo al rifugio dalla salita all’Aiguille du Réquin bagnati fino alle ossa; sentivamo così forte la nostalgia di un po’ di sole, che decidemmo di andare alla scoperta di terre più calde.
Lo stesso giorno, con un leggero bagaglio, inforcammo le nostre biciclette e, superando molti passi, ci dirigemmo verso il sud e la Riviera. Ce la spassammo per una settimana circa gironzolando da Montecarlo a Marsiglia, andando a caccia di avventure nel quartiere arabo e dormendo nell’asilo dei senzatetto, ma ben presto risentimmo la nostalgia per il mondo puro del Monte Bianco. Il timore di poter perdere un periodo di bel tempo ci spinse nuovamente in alto, verso la meta della nostra nostalgia. In una sola giornata coprimmo ben 340 chilometri.
In quei giorni il Giro di Francia passava lungo lo stesso nostro percorso. In molti luoghi venimmo scambiati per corridori tedeschi, fummo accolti entusiasticamente e rifocillati con generosità. Naturalmente non avemmo il cuore di disilludere i nostri ammiratori.
Giunti di nuovo a Chamonix, constatammo con soddisfazione di non aver perso nulla. Il tempo era rimasto incostante, e non ci sarebbe stato da pensare a una salita sulla Nord delle Grandes Jorasses. Ma un altro problema ci parve risolvibile: decidemmo di concludere quanto Merkl e Welzenbach avevano realizzato sulla Nord della Charmoz. Perciò pensammo bene di bivaccare ai piedi della parete per attaccare all’alba.
Ma eravamo partiti troppo presto dal rifugio Leschaux, e già alle tre del pomeriggio eravamo alla base dei Charmoz. Ci sentivamo troppo impazienti per rimanere tranquillamente seduti fino all’ora del bivacco: decidemmo di salire per giungere quanto più in alto fosse possibile. Alle sei di sera eravamo già sul nevaio e lì pensammo di allestire il bivacco. Improvvisamente piombò giù una valanga che letteralmente ci sfiorò.
Ci parve quindi opportuno di tirare avanti per avvicinarci alla vetta. Il ghiaccio era tanto marcio che a ogni colpo di piccozza zampillava fuori acqua, il che ci spronò a un ritmo di salita molto celere, tanto che già dopo un’ora raggiungemmo il colatoio di ghiaccio terminale sotto la vetta. Lì il pendio era troppo ripido per poter trovare un posticino di riposo, e quindi tirammo ancora avanti! Il ghiaccio alla base del colatoio sembrava una cascata pietrificata. Welzenbach e Merkl avevano pensato che fosse impossibile salire lungo questo colatoio, però non s’erano accorti d’una fessurina nella roccia dove ci si poteva afferrare con le mani, e contemporaneamente salire lungo il ghiaccio contiguo con i piedi armati di ramponi.
Era però impossibile sostare, e allora non ci fermammo, e ci valemmo di questa nuovissima tecnica per salire contemporaneamente. Infatti, quando ebbi terminato la mia lunghezza di corda senza aver trovato il minimo punto di sosta, non restò a Gustl altra soluzione che seguirmi procedendo nello stesso modo. Mentre stavamo così salendo, il sole era tramontato e s’era fatto scuro. Giù nella valle brillavano le luci e molto in basso sotto di noi scintillava il ghiacciaio della Mer de Glace con bagliori azzurrognoli, mentre a occidente le nuvole che avanzavano avevano tutti i colori dell’iride, dall’oro chiaro al viola cupo. Non bisogna credere che in questa lotta per l’esistenza, mentre eravamo spinti dal sopravvenire della notte, non avessimo occhi per queste bellezze naturali. Al contrario, tutto ciò si è impresso così profondamente nella nostra anima, che per tutta la vita non potremo più scordarlo.
Per fortuna la colata di ghiaccio quasi strapiombante divenne finalmente meno ripida, cosicché potemmo nuovamente procedere su quella. Ma una cornice di ghiaccio ci precludeva l’ultimo tratto; mi scavai un passaggio con la piccozza e nello stesso momento in cui raggiunsi il bordo superiore, la cornice crollò sotto i miei piedi.
Per una frazione di secondo fui sul punto di precipitare anch’io, poi istintivamente trovai un appoggio nella neve rimasta. L’attimo successivo ricevetti uno strappo terribile. Per fortuna riuscii a tenere anche quello. La massa di neve aveva spazzato via Gustl dal suo posto, ma pochi minuti più tardi eravamo salvi e felici sulla vetta dei Grands Charmoz. In quello stesso istante si alzò la luna e le stelle brillarono sopra il nostro capo. Né fame, né umidità, né freddo ci importarono più. Strettamente abbracciati cantammo felici, battendo i denti, tutte le canzoni che conoscevamo e anche quelle che non conoscevamo.
Il giorno dopo, a mezzogiorno, festeggiammo modestamente la nostra vittoria con un mezzo litro di birra al Montenvers. Dopodiché ritornammo al nostro bel rifugio Leschaux che ormai ci era diventato caro, e che raggiungemmo sotto una pioggia torrenziale ventiquattro ore dopo averlo lasciato.
Ci rallegrammo per la nostra vittoria, ma la meta dei nostri desideri era di nuovo avvolta in nubi grigie, e quando il tempo migliorò l’intera parete delle Jorasses era ricoperta di ghiaccio in modo tale che avremmo dovuto aspettare almeno otto giorni prima di poter fare un tentativo di scalata.
Due giorni dopo ci portammo sul versante italiano di Courmayeur, e salimmo alla capanna Gamba. Non appena raggiunte le Dames Anglaises, il bel tempo sparì. Ridiscendemmo a Courmayeur e naturalmente nella vallata trovammo un sole meraviglioso. Ripartimmo per il Colle del Gigante, ma non appena arrivati trovammo di nuovo brutto tempo. Pernottammo al rifugio Torino, e alla mattina fummo svegliati da una notizia sorprendente: “La parete nord del Cervino è stata conquistata!“
Già ci rallegrammo per la vittoria dei nostri amici Leo Rittler e Hans Brehm, ma i nomi dei vincitori erano invece altri: Toni e Franz Schmid. Anche questi due erano buoni compagni, ma non eravamo al corrente delle loro intenzioni: avevano tenuto i loro progetti rigorosamente segreti.
Come noi eravamo andati a Chamonix, così i due fratelli Schmid si erano recati in bicicletta da Monaco a Zermatt. Franz voleva fare prima qualche salita di minore impegno, ma Toni, il più giovane e il più spericolato, non ne aveva voluto sapere. Il primo giorno di bel tempo erano saliti direttamente al grande nevaio posto sulla parte sinistra della parete, lungo il quale l’alpinista viennese Alfred Horeschowsky con i suoi compagni aveva tentato di salire nel 1923. Prima di raggiungere il grande colatoio, Horeschowsky aveva piegato a sinistra, uscendo sulla cresta di Hörnli, un po’ al di sopra della capanna Solvay; impresa prodigiosa per quell’epoca – in cui non si conosceva ancora la moderna tecnica sul ghiaccio, e quindi mai abbastanza lodata – che non era però riuscita a risolvere il problema della parete nord.
Toni e Franz, dopo aver superato il nevaio, attaccarono bravamente il colatoio. Le difficoltà erano così forti da costringerli a proseguire assai lentamente e dovettero bivaccare ancora nel colatoio. All’inizio del secondo giorno non andava molto meglio. Nel pomeriggio superarono il tratto più difficile: dovettero combattere nella nebbia e nella tempesta per scalare l’ultimo tratto verso la vetta. Ma non avevano ancora vinto! La discesa nella bufera che imperversava li impegnò fortemente e solo verso sera raggiunsero la capanna Solvay, dove per il maltempo rimasero per un giorno e mezzo. Il mattino successivo si svegliarono con un sole splendente, e ben presto si riunirono ai loro amici al rifugio Hörnli, da dove vennero accompagnati in trionfo fino in valle e festeggiati come non era mai accaduto ad alcun alpinista.
Ma cosa era dunque accaduto a Rittler e Brehm? Come ben sapevamo, si erano recati alla base della Nord del Cervino, ma li conoscevamo troppo bene per pensare che si fossero semplicemente uniti ai festeggiamenti per la vittoria. Forse passando per Chamonix, erano venuti a raggiungerci alle Grandes Jorasses.
Presi dall’inquietudine, ci affrettammo verso il Leschaux. Il rifugio era chiuso dall’esterno, quindi nessuno poteva trovarsi dentro. Ma all’interno vi era un certo disordine. Un pentolino di cacao mezzo vuoto sulla tavola, con accanto un chiodo della stessa specie dei nostri. A Monaco avevamo un fabbro nel nostro club Hoch Empor che fabbricava i chiodi per tutto il gruppo di arrampicatori, e il chiodo in questione era uno di questi. Non poteva essere nostro perché avevamo sempre accuratamente riordinato la roba lasciata, e infatti i nostri erano ancora intatti al loro posto. Sulla parete stava appesa una giacca che ben conoscevo… Mi venne un terribile sospetto: “È la giacca di Leo!”, dissi a Gustl, che mi guardò costernato.
Frugai nelle tasche e tirai fuori il passaporto. Ormai non rimanevano più dubbi! I due erano sulla Nord delle Jorasses. Ma fuori c’era nebbia e la tempesta di neve. Sapevamo per esperienza che cosa poteva accadere sulla parete. Purché non capitasse loro una disgrazia!
Verso sera la nebbia si schiarì. Sulla parete tutto era muto e tranquillo, come irrigidito dal ghiaccio e dalla neve. Non era possibile salire subito: ci volevano tre ore per arrivare alla base, malgrado l’apparente vicinanza. Chiamammo insieme con tutte le nostre forze… Niente…
Improvvisamente ci parve di vedere due puntini lontani. Subito preparammo del tè e guardammo fuori nuovamente. I puntini erano ancora allo stesso posto. Non resistetti più e mi slanciai fuori per rendermi conto che si trattava solo di due roccioni. La nebbia ricoprì ogni cosa e ritornai con difficoltà nel rifugio.
Il giorno dopo la tempesta infuriava ancora e la speranza di rivedere vivi i nostri amici si faceva sempre più tenue. Gustl mi ricordava che Merkl e Welzenbach con un tempo simile avevano resistito per tre giorni e tre notti sulla parete nord dei Charmoz; ma Rittler e Brehm, per quanto bravi, non potevano essere paragonati a Welzenbach e Merkl, perché questi avevano una grande esperienza, mentre Brehm e Rittler erano alla loro prima prova sul ghiaccio. L’inaudito successo dei fratelli Schmid doveva averli abbagliati e certamente si erano buttati alla cieca su questa muraglia gigantesca, senza nemmeno averla prima studiata.
Ero oppresso dall’angoscia, ma attaccare in quelle condizioni sarebbe stata una follia. Perciò scesi a Chamonix per denunciare l’incidente, mentre Gustl rimase al rifugio, per ogni evenienza. A Chamonix incontrai alcuni compagni tedeschi, che al mio appello si misero subito a disposizione per accompagnarmi al rifugio Leschaux. Il giorno dopo, essendosi calmata la tempesta, ci lanciammo verso la parete. Sotto la crepaccia terminale affondavamo fino al petto nella neve fresca. Non era possibile salire direttamente come al solito, e perciò dovetti obliquare a destra. Improvvisamente vidi una mano sporgere dalla neve…
Impallidimmo e rimanemmo come pietrificati. Poi ci mettemmo a scavare nella neve. Un groviglio di corde, i corpi irrigiditi dei nostri amici… Così dovevamo rivedere quelli che ci avevano accompagnati quando eravamo partiti per conquistare questa stessa parete!
Ma ormai a cosa servivano considerazioni filosofiche sul destino? Inoltre non era né il luogo né il momento adatto per farlo. Da un istante all’altro avremmo potuto essere spazzati via da una valanga o colpiti dai sassi. Trascinammo i nostri compagni morti fuori dalla zona pericolosa, e li seppellimmo provvisoriamente nella neve. Li portammo giù il giorno successivo con l’aiuto di guide e portatori, e vennero poi tumulati a Chamonix quando giunsero da Monaco i parenti.
Profondamente afflitti per la perdita dei nostri amici, incominciammo il viaggio di ritorno. In verità avevamo in programma un’escursione nel Delfinato, ma dopo questa esperienza non ci sentivamo più d’intraprendere salite difficili.
Transitammo in bicicletta il Piccolo San Bernardo, poi attraverso l’Italia del Nord, lungo le rive del Lago di Carda e oltre il Brennero su per il Wilder Kaiser, rientrammo in patria. Prima di separarci facemmo ancora qualche ascensione e ci promettemmo di riprendere insieme la lotta per le Grandes Jorasses.
Così terminò per noi l’anno alpinistico 1931. Il primo dei tre grandi problemi era stato risolto; il secondo invece restava, e aveva portato lutto e delusione. Ma la nostra volontà di vincere non era diminuita.
(continua)
Davvero entusiasmanti, i racconti delle scalate!
Grazie per averli pubblicati.