I tre ultimi problemi delle Alpi – 2 (2/5)
di Anderl Heckmair
(continua da https://www.sherpa-gate.com/grandi-storie/i-tre-ultimi-problemi-delle-alpi-1/)
La conquista della Nord delle Grandes Jorasses
A parte alcuni vani tentativi di scalatori francesi, tra i quali particolare menzione merita la guida Armand Charlet di Chamonix, nulla d’importante era stato fatto nel 1932 e nel 1933. Io stesso, nel 1932 mi ero recato in Marocco sull’Alto Atlante con il mio fedele amico e compagno Gustl Kroner. Ma non avevamo rinunciato alla nostra meta, le Grandes Jorasses. Persino durante le calde notti nel deserto, o nell’aria piena di bagliori e di sole delle aride montagne dell’Atlante, parlavamo spesso della nostra parete di ghiaccio. Però nemmeno nel 1933 riuscimmo a concretare i nostri piani.
Nel giugno del 1933 avevo infatti superato l’esame di guida alpina. Mi ero adattato a condurre clienti nelle Dolomiti, perché dovevo pure guadagnarmi da vivere in qualche modo. Al rifugio Vajolet, sul Catinaccio, mi raggiunse una lettera di Gustl Kroner, in cui mi comunicava che da 14 giorni assediava con Walter Stösser la Nord del Cervino per compierne la seconda salita. Avevano già attaccato due volte ma, com’era successo a noi sulla Nord delle Jorasses, a causa delle scariche di pietre e del vetrato, erano stati costretti a ritirarsi. Ora il tempo era migliorato e per la mattina seguente sperava di trovarsi già in alto sulla parete, con Stösser, prima che le pietre cominciassero a cadere. Così mi aveva scritto la sera prima.
Insieme a quella lettera mi raggiunse la terribile notizia che Gustl Kroner era morto sulla Nord del Cervino. Non riuscivo a crederlo! Interruppi le mie ascensioni e mi affrettai a tornare in patria, dove il suo compagno Walter Stösser, otto giorni dopo il funerale a Traunstein, mi raccontò com’era successo l’incidente.
Erano partiti un sabato notte, il 19 agosto. Le stelle brillavano, l’aria era fredda. All’alba, quando raggiunsero la crepaccia terminale faceva ancora più freddo, e ritennero quindi che anche nella parte più alta della parete la temperatura sarebbe stata simile e il pericolo di scariche di sassi sarebbe stato così scongiurato.
Giunto fuori dalla crepaccia terminale, Gustl passò in testa e si innalzò gradinando lungo l’erto pendio di ghiaccio. Stösser rimase a far sicurezza sotto il labbro superiore della crepaccia. Improvvisamente percepì il rumore di sassi che, fischiando e rombando, piombavano davanti e intorno a lui. Un attimo dopo, così com’era iniziato, tutto ridivenne tranquillo. Già sperava che, come altre volte, tutto fosse andato per il meglio, quando la corda incominciò a scivolare lentamente in basso, e nell’attimo successivo il corpo di Gustl precipitò accanto a lui. Uno degli ultimi sassi, che la perizia medica stimò non più grosso d’una noce, l’aveva colpito sul capo. Non aveva avuto altre ferite. Così era perito il mio più caro amico, il fedele compagno di ore tristi e liete.
Ma sapevo che avrei agito contro il suo desiderio se avessi abbandonato il nostro progetto di vincere la Nord delle Grandes Jorasses. E così la nostra grande meta comune continuò ad aleggiarmi davanti agli occhi.
Nel 1934 mi ero messo d’accordo con Martin Maier, uno dei migliori scalatori monacensi. Ma, di ritorno da un giro in Svizzera con clienti, non trovai più nessun Martin Maier in tutta Monaco. Una lettera che mi aveva lasciato non mi raggiunse.
Profondamente abbattuto per la presunta infedeltà del compagno, mi aggiravo senza scopo per le strade di Monaco quando, a un angolo, incontrai Ludwig Steinauer, altro compagno della Sezione Bayerland. Era una vera fortuna.
“Mi sembra che anche tu ti sia già interessato alla Grandes Jorasses”, gli dissi. Steinauer si mostrò subito entusiasta e in meno di cinque minuti avevamo fissato e definito ogni cosa. Io dovevo dapprima ritornare sulle Dolomiti e da lì raggiungere direttamente il rifugio Leschaux attraverso Courmayeur. Nei giorni fissati Steinauer avrebbe portato direttamente da Chamonix alla capanna l’intero equipaggiamento. Tutto questo fu stabilito rapidamente e così, con il morale risollevato da un progetto concreto, mi affrettai ad adempiere agli altri obblighi.
Secondo il programma, il giorno previsto ero a Courmayeur. Ma il pensiero di passare da solo il tormentato ghiacciaio del Gigante non mi sorrideva troppo. A Entrèves incontrai però due Wandervögel, lì attendati, e chiesi loro da dove provenissero e dove mai si dirigessero. Mi raccontarono che avrebbero desiderato recarsi a Chamonix, ma che non si fidavano di andare da soli sulle montagne. Questo semplificava le cose! E quando dissi loro che ero guida e che non avrei chiesto nulla, accettarono con gioia la mia proposta di andare insieme. Erano due giovanotti grandi e grossi. Salivano bene, così bene che quasi mi facevano venire l’affanno. In sei ore eravamo saliti da Courmayeur al rifugio Torino, meta della nostra giornata.
Non era ancora mezzogiorno, e dato che una fitta nebbia stava già levandosi serpeggiando sopra i ghiacciai, decidemmo di procedere subito dopo il pranzo. Saliti al Colle del Gigante, scendemmo l’omonimo ghiacciaio, naturalmente in cordata. Non avevamo ancora percorso 500 metri, che il primo Wandervögel cadde in un crepaccio. Lo spavento dei due mi parve quanto mai esagerato. Li rassicurai dicendo che le cadute nei crepacci erano assai comuni e che appunto per questo ci si legava. Con fatica li convinsi a proseguire e da allora procedettero come se stessero camminando sulle uova. Dopo un’ora vedemmo salire sotto di noi alcune cordate e, a una certa distanza, un alpinista isolato. Mi interessai sempre di più a quest’ultimo, dato il suo passo sicuro. Già da lontano lo riconobbi: “Dal vestire, dev’essere uno dei nostri!” Ed effettivamente era Martin Maier, quello stesso che m’aveva abbandonato!
Lanciammo grida di gioia. Lo legai subito alla mia cordata. Lasciammo scendere dinanzi a noi i due Wandervögel e chiarimmo il malinteso che ci aveva separati. Martin mi aveva lasciato una lettera a Monaco, che io però non avevo mai ricevuto, ed era partito prima, avendo avuto l’occasione di un passaggio in automobile. Ed ora mi stava aspettando da 10 giorni. Io gli raccontai la mia delusione quando lo avevo cercato invano per tutta Monaco, e il mio nuovo impegno con Ludwig Steinauer. Egli non se ne mostrò precisamente entusiasta, ma ormai non ci rimaneva altro che accordarci per andare in tre.
Parlando di tutto questo, non avevamo più badato ai due inesperti Wandervögel, che naturalmente ci avevano portati fuori strada. Erano scesi troppo in basso nel mezzo del ghiacciaio e ora ci trovavamo di fronte a un gigantesco crepaccio trasversale che ci rendeva impossibile procedere nella stessa direzione. Ci guardammo costernati di fronte al bell’imbroglio di cui eravamo colpevoli per la nostra distrazione! Non potevamo più tornare indietro. Il crepaccio, largo circa dieci metri, era troppo vasto per poter essere contornato e ci avrebbe portato in un nuovo imbroglio. Ma non era profondo più di trenta metri e inoltre vedemmo lateralmente sull’altra sponda un posto da dove avremmo potuto uscire e guadagnare le morene laterali. I Wandervögel ci fecero pietà con i loro sandali e i calzoni corti; dopo le due manovre di corda necessarie erano infatti tutti insanguinati. Quando raggiungemmo la salvezza, cioè il rifugio Requin, erano completamente esausti, ma sarebbe stato ancora peggio per loro dover bivaccare sul ghiacciaio.
Li lasciammo al rifugio e ci affrettammo nel cuore della notte verso la capanna Leschaux, dove Ludwig Steinauer era già giunto. Non ci andava troppo a genio di essere in tre, ma in fondo nessuno ne aveva colpa e in ultima analisi anche questo avrebbe potuto tornare a nostro vantaggio se…
Purtroppo anche questa volta non dovevamo raggiungere la meta. Il giorno seguente, di ritorno dall’aver fatto provviste a Chamonix, non eravamo più soli nel rifugio: una cordata di concorrenti assai seri era arrivata. Rudolf Peters e Peter Haringer, che già si erano affermati con la loro prima salita alla parete sud-est del Schüsselkor nel Wetterstein, erano entrati nel campo degli aspiranti alla Nord delle Jorasses. Temendo le conseguenze di una rivalità spinta agli estremi, informai Peters circa i pericoli peculiari di quella parete, dato che né lui né Haringer avevano la minima esperienza di ghiaccio. Ma caddi male. Mi interruppe bruscamente, senza complimenti: “Non bisogna elargire consigli a chi non li richiede”.
Il tempo era così malsicuro che potemmo fare solamente piccoli approcci e qualche ricognizione. Le relazioni tra le due cordate erano quasi ostili. Inoltre al rifugio Leschaux erano in corso lavori di ricostruzione e dovemmo per forza accamparci fuori. Elessi a nostro domicilio una caverna che conoscevo già da prima, al di sopra della capanna. Peters invece aveva piantato la sua tenda 50 metri sotto il rifugio, sopra un ripiano roccioso. Una notte scoppiò la bufera, talmente violenta che gli operai ebbero compassione di noi e ci chiamarono nella capanna. Ma Peters e Haringer rimasero nella loro tenda malgrado ogni invito.
Improvvisamente fuori ci fu un vivo bagliore, credemmo che fosse caduto un fulmine. Invece, era semplicemente scoppiato il fornello a spirito di Peters, e la tenda aveva preso fuoco. Per fortuna la pioggia che scendeva a catinelle aiutò a spegnere l’incendio. Il nostro invito rinnovato di raggiungerci nella capanna fu seguito almeno da Haringer, ma Peters rimase ostinatamente nei resti della sua tenda, malgrado la pioggia torrenziale. Di fronte a tanta caparbietà sentii crescere smisuratamente il mio rispetto: “Quello lì – dissi ai miei compagni — non si ritirerà facilmente una volta attaccata la parete!”
La tempesta aveva nuovamente ricoperto l’intero versante nord delle Jorasses di una spessa crosta di ghiaccio. Sapevo che prima del termine di due settimane qualsiasi tentativo sarebbe stato senza scopo o disperato. Inoltre mi raggiunse un telegramma che mi offriva una buona possibilità di guadagno, se fossi partito subito.
Veramente i miei compagni protestarono, ma si resero conto della validità dei miei motivi e mi accompagnarono giù in pieno accordo fino a Chamonix. Me ne andai sicuro che i due sarebbero stati vigilanti come cani da guardia e che nel giorno favorevole non avrebbero certamente lasciato la precedenza a Peters.
Nuovamente tutto si svolse in modo differente di come era prevedibile, fuorché per quanto riguardava il tempo, che rimase incostante. Per questo motivo Maier e Steinauer dovettero interrompere un tentativo, durante il quale avevano già bivaccato in parete, e ritirarsi. Mentre si stavano riposando al rifugio, Peters e Haringer avevano attaccato a loro volta.
Come chiunque si trovi per la prima volta sul ghiaccio, avevano faticosamente lavorato per intagliare gradini della dimensione d’una vasca da bagno! Fu loro necessaria l’intera giornata per raggiungere un pilastro roccioso a destra, sopra il pendio ghiacciato. In una breccia di questo allestirono il loro primo bivacco. La mattina seguente, mentre erano ancora occupati con i preparativi di partenza, un’altra cordata salita con incredibile rapidità lungo il pendio di ghiaccio passò loro dinanzi. Guardarono stupefatti i due che, arrampicandosi come gatti, erano spariti oltre le rocce sopra il posto di bivacco. Non sapevano che si trattava della cordata di Armand Charlet, che aveva già compiuto molti tentativi. Con sentimenti facilmente comprensibili, incominciarono anch’essi a innalzarsi sulle orme degli altri. Al pomeriggio avevano superato una buona metà della parete, quando improvvisamente la cordata che li precedeva fece un brusco voltafaccia. Dissero a Peters che un camino ghiacciato precludeva ogni ulteriore avanzata e inoltre che il tempo non era sufficientemente stabile. Ma, come abbiamo visto, con buoni consigli non si otteneva nulla da Peters.
Mentre la cordata di Charlet scendeva, Peters e Haringer avevano continuato a salire raggiungendo ben presto il camino vetrato. Abituati alle difficoltà estreme di roccia, quel paesaggio, malgrado il ghiaccio, non li inquietò oltremodo. Inoltre ora procedevano di slancio per la gioia d’essere i primi. Con salita e sicurezza a doppia corda e altre raffinatezze tecniche, superarono il camino. Frattanto era scesa la sera e durante la notte il tempo peggiorò in modo tale che la mattina seguente dovettero malgrado tutto risolversi alla ritirata.
Lentamente iniziarono la discesa e le ore passavano come minuti. Nevicava, c’era la tempesta, e furono obbligati a servirsi di complicate manovre di corda doppia finché si videro nuovamente costretti al bivacco. Peters preparò il pasto per la notte. Haringer riempì di neve fresca un pentolino, qualche passo più in là. Improvvisamente scivolò e sparì silenziosamente nell’abisso. Peters rimase come pietrificato dallo spavento, sentì tre colpi cupi, sempre più deboli, poi nulla, silenzio mortale. Chiamò con tutte le forze che gli rimanevano. Nulla…
Qualche anno dopo Peters mi raccontò le sensazioni provate dopo la perdita del suo compagno. Rimase solo, disperato, con lo sguardo fisso perduto nelle tenebre. Ben pochi avrebbero sopportato un bivacco così spaventoso, perché insieme ad Haringer era caduto anche l’equipaggiamento e la tempesta aveva ripreso con somma violenza. Al mattino seguente la sua volontà di vivere si era quasi esaurita, ed egli aveva pensato seriamente a lasciarsi scivolare nell’abisso. Ma poi era tornato in lui l’istinto di conservazione e incominciò a scendere a corda doppia.
Una nuova sventura lo colpì: perse gli occhiali da neve. Il ghiaccio e la nebbia lo abbagliarono a tal punto che gli occhi gli si infiammarono e fu preso dalla cecità delle nevi. Solo chi ha provato una volta quel male sa quanto sia doloroso. Sempre e di nuovo gli tornava la tentazione di lasciarsi cadere. In meno di un minuto tutto sarebbe finito, e forse poteva andargli bene lo stesso, perché solamente 200 o 300 metri lo separavano dalla base. Il vuoto lo attirava, ma la sua volontà di ferro gli fece superare la crisi.
Nel rifugio i compagni – con in più Franz Schmid, che si trovava per caso nella regione con un americano – erano da tempo inquieti. All’improvviso videro chiaramente, durante un breve squarcio della nebbia, un punto che si muoveva sul pendio di ghiaccio. Subito partirono in spedizione di soccorso.
Peters era ormai giunto al limite della resistenza: pochi metri sopra il crepaccio terminale, quasi cieco, reso del tutto apatico dal dolore agli occhi, stava cercando di piantare il suo ultimo chiodo da ghiaccio per l’ultima corda doppia. In quel momento giunsero i soccorritori. Intuirono immediatamente quanto era accaduto: non furono necessarie molte parole e, non appena Peters fu portato al sicuro, cercarono il corpo di Haringer, che trovarono quasi subito.
Qualche giorno dopo Haringer fu seppellito a Chamonix. Al posto del caduto, Peters prese Martin Maier sul sedile posteriore della sua motocicletta e lo riportò a casa.
Anche il 1934 aveva avuto una fine tragica, ma nessuno pensava ad arrendersi. Ormai sapevo con che genere di concorrenza avevo a che fare e in ogni caso nel 1935 volevo essere il primo a salire la Nord delle Grandes Jorasses. Ma formare cordata con un compagno è, oltre che una questione di tempo, anche una questione finanziaria.
Questa volta mi accordai con Hans Lucke, aspirante-guida di Kufstein. Di nuovo mi misi in viaggio attraverso l’Italia verso Courmayeur. Essendo la stagione ancora molto in ritardo, avevamo preso con noi gli sci per la neve estiva; infatti al principio di giugno c’era da fare i conti con parecchio innevamento che riempiva il pendio dal Colle del Gigante al Pavillon. Valanghe spaventose precipitavano dovunque. Questo non l’avevamo certo immaginato. In che stato doveva essere la parete…
Per tre settimane non ci sarebbe stato certamente niente da fare, e poi avrebbe avuto inizio l’assedio. Ci venne quindi in mente che avremmo potuto passare molto più piacevolmente quel tempo in Riviera, dato che alcuni nostri conoscenti avevano una casetta a Portofino. Lì c’erano anche roccioni per allenarsi. Dunque, via verso la Riviera!
Facemmo colpo, quando vi giungemmo, alla metà di giugno, con i nostri sci e l’intero equipaggiamento da ghiaccio e da roccia. Ma la cosa ci era del tutto indifferente. Ricevuti nel modo più cordiale dagli amici, passammo tre settimane meravigliose, ma non ci abbandonammo alle lusinghe d’una vita comoda e oziosa, e ci allenammo spartanamente.
Giunse il giorno di fare i bagagli e nel pomeriggio ci venne voglia di fare un ultimo piccolo allenamento su una parete rocciosa. Era destino! Un appiglietto mi si ruppe in mano; fui obbligato a saltare giù e sentii un forte dolore al piede. La radiografia rivelò che il malleolo era scheggiato. Mi ingessarono, e dopo qualche giorno potei avviarmi non già verso le Jorasses, ma verso casa. Partii del tutto disamorato della Riviera. Giunto a Monaco, andai a far visita a un amico. Mi ricevette con uno strano sguardo e mi mise sotto il naso l’ultimo numero del giornale, dove stava scritto a caratteri cubitali: “La parete nord delle Grandes Jorasses conquistata da Peters e Maier!”
Sprofondai in una poltrona che l’amico aveva fatto abilmente scivolare dietro la mia schiena. A rendere più completo il mio annichilimento, mi chiese con tono compassionevole: “Quanti anni hai?” – “L’anno prossimo, trenta” risposi. “Allora sei buono da vendere come ferrovecchio. Mettiti il cuore in pace e cerca un’altra professione”.
Questo finì col mettermi definitivamente a terra. Non perché fossi invidioso della vittoria dei miei compagni. Ma perché in quella occasione mi pareva d’aver fatto una figura troppo misera. E così, con il morale a terra e amareggiato con il mondo intero, me ne tornai a Bayrischzell.
Primi tentativi all’Eiger
Mentre andavo ancora in giro zoppicando col mio gesso, una notizia sensazionale mise in subbuglio il mondo alpinistico. Un tentativo alla parete nord dell’Eiger!
Ancora una volta i protagonisti erano due nostri compagni, Max Sedlmayer e Karl Mehringer, che avevano osato ciò che sembrava impossibile. Conoscevo Mehringer solo di sfuggita, e sapevo che Sedlmayer era un eccellente scalatore. Aveva compiuto, dopo di me, la terza salita al Sass Maor per la via Solleder. Purtroppo i due non avevano la minima esperienza di ghiaccio. Senza dubbio un buon scalatore può superare le difficoltà tecniche anche sul ghiaccio. Ma il pericolo è di tutt’altro genere, e per lo più passa del tutto inosservato agli alpinisti inesperti in quel campo. Sedlmayer e Mehringer avevano studiato accuratamente la parete prima di impegnarvisi, ma dovevano essersi notevolmente ingannati riguardo alle sue dimensioni.
La parete nord dell’Eiger ha un’altezza di 1800 metri. Ai suoi piedi si è troppo vicini per poter valutare, per esempio, se una fascia rocciosa si elevi solo per una lunghezza di corda o per 200 metri. Per questa illusione ottica i due avevano attaccato direttamente le prime rocce rotte e strapiombanti, immediatamente sopra lo zoccolo basale della parete, fatto che causò sperpero di tempo e d’energia. Ben presto dovettero rendersi conto che non avrebbero potuto superare quel primo bastione prima del calare della notte, perciò ridiscesero e bivaccarono sull’orlo superiore dello zoccolo.
L’indomani forzarono la zona di rocce strapiombanti, ma adoperarono per questo l’intera giornata raggiungendo appena il primo nevaio dove stabilirono il loro secondo bivacco. Probabilmente per superare il primo baluardo di rocce avevano dato fondo a troppe energie, perché anche il terzo giorno avanzarono molto lentamente, scalando un tratto relativamente breve.
Inoltre era subentrato un altro fattore: la seconda notte era stata assai fredda e tempestosa. Alla Kleine Scheidegg ci furono otto gradi sotto zero. Pure, malgrado quel terribile bivacco gelido, continuarono a salire e fissarono il loro terzo bivacco sull’orlo superiore del secondo nevaio.
Già da lungo tempo i due scalatori erano seguiti e osservati da Grindelwald e dalla Kleine Scheidegg. Tutti i binocoli disponibili erano puntati sulla parete, ogni loro passo seguito con attenzione. Al quarto giorno la montagna fu ricoperta dalla nebbia, che solo verso mezzogiorno si squarciò un momento, permettendo di scorgere i due alpinisti mentre proseguivano la salita e raggiungevano il terzo nevaio. Poi la nebbia li riavvolse. Sedlmayer e Mehringer non furono più visti vivi.
La squadra di soccorso di Monaco organizzò subito una spedizione che giunse a Grindelwald due giorni dopo. Ma continuando a imperversare il maltempo, ogni tentativo di soccorso fu vano; e quando infine spuntò nuovamente il sole, l’intera parete era ricoperta da uno strato così spesso di ghiaccio e di neve fresca da non lasciar più scorgere la minima traccia. Anche gli aeroplani militari svizzeri, volando vicinissimi alla parete, non videro nulla. Dopo otto giorni la spedizione di soccorso dovette rientrare senza aver potuto intraprendere nulla.
Due settimane più tardi Ernst Udet, in un nuovo volo di fianco alla parete, passò circa 20 metri più in alto del punto in cui si presumeva che i due avessero stabilito il loro ultimo bivacco. Improvvisamente scoprì uno degli scalatori irrigidito, congelato contro la parete. Ma non si poteva certo pensare a recuperare il corpo, la stagione era troppo avanzata e ormai si era entrati nell’autunno.
Tutto questo produsse una profonda impressione su di me; i miei pensieri si fissarono ormai definitivamente sull’Eiger e fui certo che questa tragedia era solamente un prologo. L’inverno seguente raccolsi tutte le fotografie e gli scritti sull’Eiger che riuscii a procurarmi.
Nell’inverno del 1932, in occasione d’un giro in sci nell’Oberland Bernese, ero salito in cima all’Eiger. Quella volta ero partito da Gletsch e lungo il ghiacciaio di Aletsch ero salito nell’Oberland Bernese. Così avevo potuto raggiungere la cima dell’Eiger, ma non ne avevo mai veduto la parete nord.
Ecco le tappe della storia dell’Eiger fino a quel momento: nel 1858 viene salito per la prima volta dall’inglese Charles Barrington con le guide Christian Almer e Peter Bohren; un anno dopo si ha la prima traversata dell’Eigerjoch dal ghiacciaio dell’Eiger fino all’Ewig-Schneefeld; nel 1874 viene salita la cresta sud-ovest e due anni dopo, nel 1876, quella sud; nel 1885 la cresta est, chiamata cresta di Mittellegi, è percorsa in discesa, ma solo il 10 settembre 1921 viene superata per la prima volta in salita, dal giapponese Yūkō Maki accompagnato dalle guide svizzere Fritz Amatter, Samuel Brawand e Fritz Steuri.
Particolarmente interessante è il tentativo fatto nel luglio 1932 sulla parete nord da alcuni scalatori francesi che però non riuscirono a superare lo zoccolo. Il 20 agosto dello stesso anno, due noti alpinisti svizzeri, il dottor Hans Lauper e Alfred Zürcher, con le celebri guide di Zermatt Joseph Knubel e Alexander Graven, ebbero maggior fortuna: raggiunsero infatti la cima dell’Eiger da nord. Ma non lungo la parete nord, bensì da quella nord-est. Questo fatto portò notevoli confusioni nei commenti relativi agli incidenti sulla parete nord. Spesso infatti si scrisse che i tentativi sulla Nord non costituivano una prima salita.
Per chiarire quest’errore, basta riflettere circa la conformazione della montagna. La piramide dell’Eiger ha la sua parete nord tra lo spigolo ovest che separa la faccia nord dalla ovest e un costolone roccioso che separa dalla Nord una parete nord-est di minore pendenza.
La parete nord vera e propria si erge contro questo costolone con una linea spaventosamente verticale, specie nel tratto superiore. La via Lauper invece si svolge completamente sulla parete nord-est e non tocca neppure una volta la Nord.
La Nord dell’Eiger – o Eigerwand, come la si è sempre chiamata per semplificazione — si può dividere in tre parti pressoché di altezza uguale. Dalla base, a 2200 metri, fino a quota 2800 abbiamo il cosiddetto Zoccolo. Il secondo terzo fino ai 3400 metri è costituito dai tre grandi successivi nevai pensili, e infine l’ultimo tratto fino alla vetta comprende una parete estremamente ripida, a metà della quale si trova, come incastonato, un ultimo nevaio chiamato il Ragno.
Nel 1912 fu inaugurata una linea ferroviaria che conduce al Jungfraujoch, a 3400 metri. Un gigantesco tunnel permette al treno di risalire all’interno dell’intera Eigerwand.
Durante la costruzione di questa galleria furono praticate due aperture: la prima a ovest per lo scarico dei materiali, la seconda cinquecento metri più a est, a metà parete. Quest’ultima è in corrispondenza della stazione Eigergletscher in cui i treni s’incrociano, i viaggiatori possono scendere e, attraverso le finestre munite di solide sbarre, guardare la parete. Le finestre erano state dotate di inferriate perché un giorno si era buttato da lì un suicida che poi venne annoverato nell’elenco delle vittime dell’Eigerwand. Questa galleria doveva avere un ruolo importante nella storia dell’Eiger.
Per nulla scoraggiate dall’esito tragico del tentativo del 1935, tre cordate distinte si ritrovarono l’anno seguente ai piedi della parete. Erano i monacensi Albert Herbst e Hans Teufel, Andreas Hinterstoisser e Toni Kurz di Berchtesgaden, Edi Rainer e Willi Angerer di Innsbruck. Hinterstoisser e Kurz erano annoverati tra i migliori rocciatori della loro regione, con all’attivo molte difficili prime salite. Anche Herbst e Teufel erano considerati eccellenti scalatori. Soltanto i nomi di Rainer e di Angerer non avevano ancora molta risonanza.
Tutti erano giovani, troppo giovani! Si può muovere loro un rimprovero? Dopo la tragedia, lessi in un giornale una frase che mi colpì profondamente: “Sacrificare così la propria vita, significa raggiungere il limite estremo, la forma più perfetta d’espiazione”.
Già nei primi giorni la sventura fece capolino. Essendo ancora troppo presto per un tentativo all’Eigerwancl, Herbst e Teufel si erano prefissi un’altra meta e avevano compiuto la prima salita della parete nord del Schneehorn, nel gruppo della Jungfrau. Durante la discesa Teufel precipitò da uno strapiombo di ghiaccio, trascinando il compagno nella caduta. Teufel morì sul colpo e Herbst, gravemente ferito, dovette tornare in patria.
Le altre due cordate si riunirono e il 18 luglio, alle 2 del mattino, partirono per il loro tragico tentativo da cui non dovevano più tornare. La via prescelta offre una chiara prova della capacità di giudizio e dell’istinto naturale di montanaro del capocordata Hinterstoisser. Al contrario di Sedlmayer, aggirarono le prime barriere di rocce e salirono più a destra, puntando direttamente alle placche insormontabili della Rote Flüh. Si innalzarono così finché fu possibile, poi traversarono a sinistra obliquando in leggera discesa con manovra di corda e riuscirono a raggiungere il primo nevaio. In tal modo avevano risolto in modo magistrale il passaggio-chiave della parete. Ma proprio quel capolavoro doveva poi costituire la loro condanna, perché ritirando la corda della traversata in discesa, si preclusero ogni possibilità di ritorno. Certamente allora non pensavano all’eventualità di una ritirata e si affrettavano invece a salire, toccando così il limite superiore del secondo nevaio.
Anche questa volta ogni loro passo era seguito con attenzione dal basso; si constatò così che il ritmo, rapido all’inizio, era diminuito sensibilmente verso sera. Mentre al principio le due cordate procedevano separatamente, sul tardo pomeriggio tutti e quattro si erano riuniti. Inoltre si era notato con esattezza che a un certo punto tre di loro si erano prodigati intorno al quarto e gli avevano bendato la testa. Più tardi si poté stabilire che il ferito era Angerer, colpito da una scarica di pietre. A quota 3200 m venne allestito il primo bivacco.
Il secondo giorno la parete era parzialmente ricoperta di nebbia, e solo nelle brevi schiarite si poteva vedere qualcosa. Nuovamente si potevano scorgere i quattro che procedevano in un’unica cordata. L’inviato speciale di un giornale svizzer,o che scrutava instancabilmente la parete con un grande cannocchiale, scrisse: “Alla mattina tutto intorno al cielo è azzurro, solo le montagne davanti a noi sono avvolte in un fitto velo di nubi. La brezza mattutina alzandosi ha scacciato il temporale notturno dalla vallata sulle cime ghiacciate. Attraverso l’impenetrabile cortina delle nuvole, i quattro ospiti del ‘freddo albergo della Rote Flüh ‘ devono essere condannati all’inazione. Non possono sapere che giù, in valle, sta spuntando una giornata radiosa. Solamente alle 6.45 la prima cordata abbandona il posto di bivacco. Giungiamo alla Kleine Scheidegg giusto in tempo per guardare con il cannocchiale dell’albergo quel che sta succedendo sulla soglia del posto di bivacco. Il capocordata – certamente come il giorno prima il robusto Hinterstoisser – ha già percorso una lunghezza di corda sul ripido nevaio, intagliando buoni scalini per i piedi e dirigendosi verso est. La corda bagnata, rigida e nera, striscia sulla neve umida. Circa 30 metri più sotto, proprio davanti al posto di bivacco, il secondo – il giovane e ardente Toni Kurz – sta facendo sicurezza. Alle 7.30 il capocordata si è saldamente installato su un gradino, piantando probabilmente un lungo chiodo nel corpo stesso dell’infinito nevaio; il secondo sta per muoversi… in questo momento la cortina si chiude…”.
Non si scorgeva più nulla. Durante l’intera giornata le nubi velarono la parete. Solamente il giorno seguente poterono scoprire il posto in cui i quattro avevano passato la seconda notte. Nella seconda giornata avevano percorso appena 200 metri. Solo 200 metri! Perché erano andati così lentamente lungo un tratto relativamente facile? Era chiaro ormai che con quel ritmo non sarebbero riusciti a compiere la scalata. Solo una pronta ritirata avrebbe ormai potuto salvarli. Ma quando si sarebbero decisi, quegli alpinisti così inesperti sul ghiaccio?
Si cercò di entrare in comunicazione con loro. Una cordata svizzera, malgrado la nebbia, salì fino in cima per lo spigolo ovest e cercò dalla cresta di farsi sentire con i reiterati appelli. Ma la nebbia avrebbe inghiottito anche un muggito. Nessuna voce raggiunse quegli uomini perduti che proseguivano inconsapevoli il loro cammino verso la morte.
Il terzo giorno il tempo schiarì. Si poteva scorgere il primo mentre si affannava sotto le rocce del bivacco. Si trattava di uno dei tedeschi; infatti ci si era ormai abituati a distinguerli dai vestiti. Passò un lungo intervallo prima che si potessero rivedere tutti e quattro; stavano riuniti e rimasero a lungo così, come se stessero discutendo sul da farsi. Per due ore furono osservati così nell’attesa che iniziassero da un momento all’altro la ritirata. Ma che cosa stava accadendo?
Con spavento li si vide a un tratto proseguire verso il posto in cui Sedlmayer e Mehringer erano stati scorti per l’ultima volta. E dopo un altro conciliabolo, finalmente sembrarono decidersi e iniziarono la ritirata, come se il posto della disgrazia li avesse fatti rinsavire.
La discesa si svolse ancora più lentamente della salita. Uno di loro specialmente, probabilmente Angerer ferito, era sempre sostenuto di peso e guidato prudentemente. La nebbia si alzò di nuovo e tolse ogni visibilità. Era come se la natura, presa da pudore o compassione per quegli uomini in parete, avesse voluto proteggerli dai cannocchiali e dal pubblico avido di emozioni che del resto nulla poteva fare per aiutarli.
Verso le cinque del pomeriggio ci fu nuovamente una schiarita e si videro i quattro alpinisti sul nevaio sopra la Rote Flüh. Il tratto di parete tra il primo e il secondo nevaio sembrava procurare loro grandi difficoltà. Ricorsero a complicate manovre di corda per calare il ferito e il materiale e solo alle nove di sera riuscirono a discendere quel tratto di appena 50 metri. Anche il fatto che fossero riusciti a farlo in quelle condizioni era chiaro indice delle loro capacità alpinistiche. Era ormai tempo che si preparassero al bivacco, che allestirono proprio nel medesimo posto dove Sedlmayer e Mehringer avevano passato la seconda notte. Erano discesi solo di 300 metri e 900 li separavano ancora dalla base della parete, che si intravedeva nella grigia profondità del crepuscolo. Trascorsero quel terzo bivacco bagnati, irrigiditi dal freddo, esausti.
Il tempo non migliorava. Al contrario, era ancora peggiorato quando, alla mattina del 21 luglio, ripresero la ritirata. Quel giorno doveva segnare definitivamente il loro destino. Il giornalista svizzero scrisse ancora: “Verso le nove del mattino scorgo di nuovo la cordata. Distinguo tre alpinisti mentre scendono, ma non riesco a scoprire il quarto. Quello che ieri si trascinava giù a fatica probabilmente non è ora in grado di muoversi. Per due ore la nebbia vela ogni cosa. Poi li si vede avanzare tutti e quattro insieme verso il limite inferiore del primo nevaio. A destra e a sinistra rombano cascate d’acqua e precipita la neve. Sotto li aspetta l’ultimo terribile ostacolo, la parete di 200 metri con la lunga traversata di 40 metri che avevano superato in 2 ore. Ma allora erano ancora freschi per quel risalto ostico. Ora la situazione è mutata. Hanno sopportato il peso di tre bivacchi, sono bagnati fino alle ossa, la corda è gelata, le provviste esaurite, e la discesa della parete verticale bagnata, ricoperta di neve fresca, è pericolosa. Da Alpiglen scruto l’intera Eigerwand fino all’Eigergletscher, ma non si può scorgere nulla: la nebbia ricopre tutto”.
Sul nevaio inferiore raggiunsero il punto dove terminava la traversata in discesa. Questo capolavoro di soluzione della via doveva essere loro fatale, perché una traversata in cui si superano obliquando in discesa placche lisce con manovra a doppia corda non può più essere ripercorsa in senso inverso, una volta ritirata la corda. E loro avevano ritirato la corda.
Rimasero fermi, disperati, in quel posto e cercarono invano di superare direttamente la traversata. Ore preziose andarono perdute. Dopo che Hinterstoisser, arrischiando il tutto per tutto, era precipitato, rinunciarono ai vani tentativi e nella loro disperazione presero la tragica decisione di scendere direttamente in doppia la barriera rocciosa di 100 metri, in buona parte strapiombante.
La scalata del colatoio che conduce al punto di partenza è oltremodo pericolosa: le valanghe passano rombando in quel colatoio lungo il quale si accinsero a progredire. Quale doveva essere la loro disperazione mentre si dirigevano a occhi aperti verso la fine!
Improvvisamente un richiamo risuonò molto vicino. Erano infatti giunti a circa 200 metri dalla galleria ovest della ferrovia, e un guardiano, salendo lungo il tunnel, era uscito e aveva chiamato verso l’alto. Da tre giorni erano rimasti tagliati fuori da ogni rapporto con gli altri uomini e ora, improvvisamente, ecco attraverso la nebbia una voce chiara e percettibile. Provarono una tal gioia da dimenticare in un attimo ogni pericolo, sentendo nuovamente il desiderio di vivere.
In questo stato d’animo risposero gridando che stavano tutti bene e che presto l’avrebbero raggiunto. Il guardiano tornò all’interno, preparò del tè caldo e attese un’ora. Una seconda ora passò e intanto la violenza infernale della tempesta aumentava. L’uomo uscì nuovamente dal tunnel e sentì risuonare invocazioni di soccorso disperate. Subito si mise in comunicazione telefonica con la stazione ferroviaria dell’Eigergletscher, dove si trovavano per caso tre guide di Wengen.
Le guide svizzere, per salvaguardare la propria vita, si erano impegnate a non intervenire nel caso di nuova disgrazia sulla Nord dell’Eiger. Forse pensavano di porre così un freno all’imprudenza degli scalatori. Ma ora, di fronte a un caso di vita o morte, questi valorosi non esitarono un attimo ad andare in parete nella tempesta per portare aiuto dove c’era bisogno. Anzi, fecero di più. La ferrovia della Jungfrau mise subito a disposizione un treno speciale per trasportare la spedizione di soccorso fino alla galleria. Riuscirono così a giungere fino a 100 metri dal punto in cui risuonavano i richiami, ma non poterono proseguire oltre. Gridando e urlando entrano tuttavia in comunicazione con l’infortunato e vennero così a sapere, attraverso il rombo delle valanghe e il muggito delle frane, che Toni Kurz era ormai l’unico sopravvissuto. Gli altri tre erano morti, colpiti dalle scariche di sassi. Toni era su un piccolo sperone roccioso; ma era impossibile salire fino a lui ed egli non aveva più chiodi per scendere ancora a corda doppia.
”Puoi resistere un’altra notte?”.
“No!”.
Non c’era più nulla da fare. Scese la notte e il tempo peggiorò ancora, tanto che anche i soccorritori si trovarono in grande pericolo. E così, col cuore gonfio di tristezza, dovettero abbandonare Kurz, come per una condanna del destino, e mettersi loro stessi in salvo nella galleria.
Il 22 luglio segnò l’epilogo di questo dramma, unico in tutta la storia dell’alpinismo. Già alle cinque del mattino le guide, rinforzate da Arnold Glatthard, erano già sul posto. E accadde quel che non osavano sperare: Toni Kurz era ancora vivo e chiamava nuovamente in aiuto con voce chiara.
Questa volta riuscirono a innalzarsi fino a 40 metri da lui, ma a quel punto un colossale strapiombo precluse loro ogni possibilità di ulteriore salita. La comunicazione venne ristabilita e poterono conversare chiaramente con lui: “Dove sono i tuoi compagni?”.
“Morti!”.
“Da quando?”.
“Da ieri. Sono solo. Hinterstoisser è precipitato, fin giù, Angerer è di sopra congelato e Rainer è sotto di me strangolato dalla corda!”.
“Cerca di recuperare tutta la corda del morto, tagliala e annoda i due capi, per farla arrivare fino a noi!”.
Kurz dovette dapprima discendere fino a Rainer, che pendeva 12 metri sotto di lui, per tagliare la corda. Rainer era incollato dal gelo alla parete, quasi verticalmente, e non cadde giù nemmeno quando venne tagliata la corda. Solo dopo qualche ora il cadavere si scollò dalla parete e volò sopra il capo delle guide per mille metri nell’abisso.
Con le dita congelate Kurz impiegò ore per sciogliere le corde, annodarle e ottenere la lunghezza voluta. Le guide dovettero infatti aspettare quattro ore per avere il capo della corda. Allora vi legarono due corde, chiodi da roccia, moschettoni e provviste. La corda venne ritirata e dopo un’altra ora Kurz incominciò a scendere in doppia.
Non usava il metodo Dülfer, ma un anello di cordino con agganciato un moschettone in cui scorreva la corda. Questa tecnica, generalmente adoperata per le corde doppie, gli costerà la vita. Lentamente scese verso i salvatori. Ancora tre metri! Ma ecco il nodo con cui la seconda corda era annodata alla prima; Kurz cercò di farlo passare attraverso il moschettone…
“Niente da fare!…”.
Le guide lo incoraggiarono: “Fai scorrere il nodo e sei salvo!”.
Ma con le mani congelate Kurz non riusciva più a sollevarsi per scaricare il peso dalle corde; cercò di aiutarsi con i denti… nulla! Borbottò qualcosa di incomprensibile. Polvere di neve cadde dall’alto, una folata di vento fece pendolare la corda…
Improvvisamente Toni Kurz gemette tre o quattro volte, perse l’equilibrio e rimase penzoloni senza movimento, trattenuto a metà del corpo dalla corda. La sua vita coraggiosa si era spenta.
Solo tre metri più in basso le guide assistettero impotenti a questa lotta estrema, e profondamente commosse dovettero lasciare appeso alla corda l’uomo che già pensavano d’aver salvato. Stendendo il braccio, potevano toccare con la piccozza le punte dei ramponi ai suoi piedi, ma non riuscivano a sciogliere il corpo dalla corda. Con il cuore grosso ritornarono giù nella valle.
Solo la spedizione di soccorso, accorsa da Monaco in automobile, riuscì a recuperare i corpi. Per primo quello di Toni Kurz. La corda da cui pendeva venne dapprima fissata, indi tagliata al di sopra del corpo con un coltello legato in cima a una pertica. Nella caduta il nodo di Kurz si sciolse ed egli precipitò nell’abisso.
Poi l’intero zoccolo venne ispezionato. Per primo trovarono Rainer, poi, tra la sorpresa generale, il corpo di Sedlmayer, che tutti pensavano fosse ancora in parete, nelle vicinanze del Bivacco della Morte. Dei sei cadaveri solo quattro poterono essere recuperati. Uno fu scoperto durante i tentativi dell’anno successivo; Mehringer invece rimane per sempre celato nel suo immane sepolcro.
Questi avvenimenti avevano prodotto una viva emozione anche al di fuori dell’ambiente alpinistico. Ciò è pure dovuto in parte alla particolare situazione geografica dell’Eiger. Mentre la maggior parte dell’attività alpina rimane inosservata, perché solo raramente si può assistere alla lotta in parete, l’Eiger, a causa della sua posizione, è assediato dai cannocchiali, e lo scalatore deve effettuare i suoi tentativi in parete esposto alla curiosità generale.
Se il pubblico che assiste fosse composto solo da alpinisti, ciò non sarebbe un male. Ma generalmente è proprio il caso opposto, e così si possono spiegare le grida e le proteste salite in cielo prima ancora che l’ultimo componente della tragica cordata fosse spirato.
Le proteste spinsero il governo svizzero a emanare il formale divieto di salire la parete nord dell’Eiger. Ma alcuni rinomati alpinisti svizzeri combatterono contro questa assurda disposizione e riuscirono a farla revocare. Rimase però stabilito che le squadre di soccorso svizzere non avrebbero più avuto il dovere d’intervenire in caso di una nuova disgrazia. Questa decisione era stata presa anche in precedenza, ma alla prima occasione, come abbiamo visto, le guide svizzere erano intervenute, dimostrando il loro alto senso di solidarietà alpina.
(continua in https://www.sherpa-gate.com/grandi-storie/i-tre-ultimi-problemi-delle-alpi-3/)
Ho letto moltissime volte il racconto della vicenda di Kurz e dei suoi compagni e ogni volta l’angoscia mi assale.