Il caso Confortola

Dopo aver raggiunto la vetta del Gasherbrum I il 20 luglio 2025, Marco Confortola ha affermato di aver completato tutte le quattordici vette oltre gli 8000 metri. Questo annuncio ha provocato la reazione di altri alpinisti italiani, come Simone Moro, che lo hanno accusato di aver mentito su diverse cime. Su alcune, come Annapurna e Nanga Parbat, Confortola non ha prove, mentre per Makalu, Kangchenjunga e Lhotse è accusato di aver preso in prestito o alterato foto di cime scattate da altri alpinisti himalayani. La vicenda ha scosso il Club Alpino Italiano, che ha invocato il rispetto della verità e della trasparenza. Ma come si è potuto arrivare a questo punto?
La Redazione di Sherpa e di GognaBlog purtroppo non poteva disinteressarsi di questa diatriba che ha caratterizzato la quasi intera estate 2025. Non è nelle nostre corde sguazzare nelle torbide vicende che alimentano la fame dei social di argomenti che si prestano a frettolosi “crucefige”, perciò ci siamo accinti a questo compito obtorto collo. Con questo post però riteniamo di aver affrontato l’argomento con il massimo del rispetto possibile per tutte le parti in causa, fedeli al principio di “Sherpa, alta quota di verità”.
Pubblichiamo una serie di interventi per cercare di fare chiarezza, ma senza arrivare necessariamente a una conclusione. Partendo dal presupposto che “Il vissuto, la realtà, non dispongono di alcun privilegio sulla rappresentazione (Sylvain Jouty)”.

Come è arrivato a questo punto Marco Confortola?
di Jocelyn Chavy
(pubblicato su alpinemag.fr l’11 settembre 2025)

Campo base del Nanga Parbat, Pakistan, giugno 2023. Nella tenda mensa si fa strada il malumore perché il rinforzo degli sherpa nepalesi non è arrivato, e la mancanza del loro aiuto essenziale impedisce il proseguimento dell’acclimatamento delle spedizioni commerciali. Un alpinista italiano parla forte e chiaro, come ci racconta Ulysse Lefebvre di Alpine Mag, venuto a filmare Sophie Lavaud per il suo ultimo 8000 con François Damilano.

Questo uomo di 52 anni è una guida in Italia, ma è venuto da solo. Esorta tutti ad andare avanti per questo “sogno comune”, ma la sua invettiva suona come pura vanteria. Perché lui, come gli altri aspiranti al Nanga Parbat, non andrebbe da nessuna parte senza gli sherpa.

La guida e soccorritore Marco Confortola è senza dubbio un uomo coraggioso. Non ha forse partecipato al salvataggio di sette uomini bloccati sul Dhaulagiri nel 2017? È anche un sopravvissuto, uno dei tre sopravvissuti alla caduta del seracco del Collo di Bottiglia sul K2 nel 2008 (undici morti), al costo di una discesa straziante che gli è costata tutte le dita dei piedi, congelate. Uomo testardo, Marco Confortola ha continuato la sua ricerca dei quattordici Ottomila e afferma di averli scalati tutti. A dispetto della verità.

Marco Confortola, campo base del Nanga Parbat, 2023 ©Ulysse Lefebvre

Mondinelli afferma che Confortola non ha raggiunto la vetta dell’Annapurna nel 2006
Nato nel 1971, Marco Confortola ha scalato il suo primo Ottomila, l’Everest dal versante tibetano, nel 2004. Il Gasherbrum, l’ultimo, nel luglio 2025. Nel frattempo, decine di spedizioni e, a quanto pare, importanti compromessi con la verità sono in corso da molto tempo. Dopo l’annuncio dei quattordici Ottomila di fine luglio, l’alpinista Silvio Mondinelli, che ha scalato tutti i quattordici Ottomila, ha dichiarato alla rivista del Club Alpino Italiano, Lo Scarpone, che Confortola non aveva raggiunto la vetta dell’Annapurna nel 2006.

La vera vetta l’abbiamo raggiunta io e uno sherpa. Poi lui [Confortola, NdR] ha raggiunto la cresta, ma non la vetta. Diciamo che mancava ancora mezz’ora di cammino, sulla cresta saremmo a 7950 metri, 8000 (…). Al tempo avevo lasciato stare, ma ora mi girano le scatole che faccia certi annunci, anche perché si è allungata la lista delle salite in dubbio. Lo ritenevo una persona a posto, anche perché è uno che ti dà una mano: è gentile, simpatico, ha sempre portato i suoi carichi. Ma come fai ad affermare certe cose?”.

Marco Confortola al Nanga Parbat, 2023 ©Ulysse Lefebvre

Pochi giorni dopo, sulla stessa rivista del CAI, Confortola rispondeva: “Per l’Annapurna, è la mia parola contro la sua”. Ma non è solo l’Annapurna a rappresentare un problema, ed è per questo che diversi alpinisti italiani hanno visto rosso quando Confortola ha scritto sul suo profilo facebook a caratteri cubitali: HO FATTO 14 (Oggi sullo stesso profilo è stato tutto cancellato e figura solo la scritta del 21 luglio 2025 “L’alpinista valtellinese ha raggiunto la cima dell’undicesima montagna più alta della terra con Asang Ngima Sherpa e Lapka Tasi Sherpa. Sui social è subito polemica: è davvero il suo quattordicesimo ottomila?”, NdR).

Mitomania, un altro punto in comune con Trump. Ovvero, la versione di Confortola: sostenere, contro ogni giudizio, di aver scalato con successo i quattordici Ottomila, quando questo non è vero per diverse vette, e con certezza. Perché? Perché ha rubato o alterato foto che non gli appartenevano per presumibilmente dimostrare le sue scalate?

Ha mentito su forse cinque, o addirittura sei, cime. “In Italia, è un segreto di Pulcinella da anni. Ma qui, è stato troppo avido”, spiega Rodolphe Popier, un ricercatore dell’Himalayan Data Base.

Lo scandalo del Kangchenjunga
Secondo lui stesso, Confortola sarebbe il decimo italiano ad aver scalato tutti i quattordici Ottomila. Questo dimostra quanto sia importante questa lista in Italia. Se l’Annapurna fosse l’unica cima che non è riuscito a provare, il dubbio potrebbe prevalere: secondo Rodolphe Popier, lo stesso Mondinelli potrebbe non essere stato sulla vera vetta dell’Annapurna e della sua lunga cresta sommitale con le sue varie prominenze. Ma nel corso degli anni, sembra che Marco Confortola non abbia raggiunto nessun altro Ottomila.

Lo scandalo scoppiò nel 2022, come rivelato da Explorersweb (vedi più sotto). Marco Confortola afferma di aver raggiunto la vetta del Kangchenjunga 8586 m, la terza vetta più alta del pianeta, il 5 maggio. Ha pubblicato una foto di un pendio, dove compaiono rocce e, curiosamente, nessuno.

In realtà si tratta di una foto di un altro scalatore di quel giorno, scattata dal giovane pakistano Sheroze Kashif (The Broad Boy), che Confortola ha ritagliato e ingrandito, escludendo le persone visibili.

La tattica è rozza, persino ingenua, ma a tutt’oggi Confortola non si è nemmeno preso la briga di rimuovere la foto rubata dal suo account Instagram e continua ad affermare di essere salito in vetta, cosa negata da Kashif e dagli sherpa presenti quel giorno. E allora? Confortola è un habitué di queste affermazioni?

La foto che Marco Confortola dice di aver scattato dalla cima del Kangchenjunga.
La vera foto, cioè il selfie di Shehroze Kashif sulla cima del Kangchenjunga, che Confortola ha ritagliato per farla sua. ©Kashif / The Broad Boy.

Simone Moro entra in campo
Il Kangchenjunga e altre bugie sono rimaste impresse nella mente di Simone Moro. Per l’alpinista invernale himalayano, “ognuno deve fornire prove delle proprie azioni”. Dopo la prima accusa di Mondinelli a Confortola, in una nuova pubblicazione su Lo Scarpone, Moro racconta la sua esperienza al Kangchenjunga nel 2022 e le molteplici testimonianze di imbrogli di Confortola che ha raccolto.

“Nel 2022 ero al Kangchenjunga come pilota di elicottero, soccorritore e trasportavo gli alpinisti da e per il campo base. Ho anche trasportato lui personalmente e, alla fine della spedizione, ho riportato indietro i suoi zaini e il suo sherpa. Il suo sherpa [Nuri Sherpa, NdR] mi ha detto di aver insistito perché Marco percorresse a piedi l’ultimo tratto per raggiungere la vetta, che avrebbe dovuto essere tra i 70 e i 100 metri, anche con l’ossigeno. In questo modo, lo sherpa avrebbe ottenuto anche il bonus di vetta. E Marco gli ha detto: no, per me la vetta è qui”.

Simone Moro a 8517 metri… a casa l’8 agosto 2025, a Bergamo.

Il fatto è che l’agenzia di Confortola, la Seven Summit Treks, non ha inserito a suo tempo il suo nome nell’elenco dei clienti che avevano raggiunto la vetta quel giorno.

(Recentemente la Seven Summit Treks, nella persona di Thaneswar Guragai, general manager dell’agenzia, ha confermato che: “Marco era parte della nostra spedizione al Kangchenjunga. Ha tentato la via senza ossigeno, secondo il consiglio dato dallo stesso sherpa al tempo, insieme al resto del team. Crediamo che Marco non abbia raggiunto la vetta principale del Kangchenjunga, mancandola per alcuni metri. In aggiunta a ciò, è stato carente nel fornire sufficienti prove per conferirgli un certificato. La dichiarazione di avere raggiunto la cima è interamente a suo carico, così come quelle relative alla sua scalata”, NdR).

Quando Confortola è stato criticato per aver utilizzato la foto di Kashif, ha accusato la sua squadra di aver comunicato in modo troppo zelante e ha poi pubblicato una foto del suo braccio, del suo guanto e dell’altimetro che indicava più o meno l’altitudine del Kangchenjunga.

La risposta di Moro: ha postato una foto di sé a casa a Bergamo con un orologio che segna l’altitudine del Lhotse (8517 m): “Giuro che ero a casa e non in vetta”, scherza Simone acidamente. Tutti sanno che si può ricalibrare un orologio altimetro per fargli visualizzare quello che si vuole. Ma per Confortola, non importa. Il Kangchenjunga è ancora nella sua lista di vette, sul suo sito web. Ma senza foto.

(Simone Moro, vedi sua intervista de Lo Scarpone del 12 agosto 2025, aggiunge: “Ueli Steck ha sofferto per non avere la foto di vetta dell’Annapurna, ma lui non aveva certo bisogno di inventare: era il migliore. Allora, perché dovremmo accusare Ueli Steck mentre con Confortola tutti zitti?”

Simone Moro fa riferimento alla salita solitaria di Steck compiuta nell’ottobre 2013 quando scalò la parete sud dell’Annapurna per una via nuova, in sole 28 ore, concludendo un itinerario tentato anni prima da Pierre Béghin e Jean-Christophe Lafaille. Steck non aveva prove a supporto della sua salita in quanto aveva perso la macchina fotografica, insieme a un guanto, in una slavina che l’ha colpito durante la salita. Al rientro dalla spedizione sono seguite polemiche, richieste di chiarimenti, interviste serrate al personale presente al campo base e decine di mail agli organizzatori del Piolet d’Or perché gli venisse tolto il riconoscimento consegnatogli nel 2014 per la salita avvenuta nel 2013.

“Quello che stiamo portando avanti non è un trattamento contro Confortola, ma a favore della verità e degli obblighi e doveri di un alpinista: se vai nelle scuole, se vuoi fare il formatore, vuol dire che sei un simbolo di onestà, del senso civico e dei valori. E nei valori c’è anche quello della verità e di saper provare la tua verità. Di accettare il dubbio e la sconfitta. Io stesso non chiederei saldi se si mettessero in dubbio le mie invernali e metterei in fila tutte le prove e testimonianze che ho, e non solo basarmi sulla mia parola o minacciando azioni legali”. NdR).

I fotoritocchi
Il problema è che il Kangchenjunga non è un caso isolato. Come ha denunciato Simone Moro a Lo Scarpone, Confortola ha usato lo stesso metodo anche al Lhotse nel 2013. Ancora più disonesto, visto che ha ritoccato con Photoshop la foto di un alpinista per rimettere la testa al suo posto…

La foto che Confortola presenta come quella della cima del Lhotse è stata in realtà scattata dallo spagnolo Jorge Egochega, che (…) mi ha scritto qualche giorno fa: ‘Appena arrivato al campo base, lui [Confortola, NdR] è venuto a chiedermi la foto della cima. Gliel’ho data e purtroppo poi ho scoperto che l’aveva usata per sé. Sai, Simone, non mi piacciono le polemiche, ma non era giusto che si inventasse la foto della cima con quella bugia’”.

Una bugia confermata dallo spagnolo Alex Txikon, che sostiene di averlo visto scendere lo stesso giorno senza essere stato in vetta. 

Il canale finale della via normale al Lhotse, 21 maggio 2013
Foto di Jorge Egochega sulla cima del Lhotse, 21 maggio 2013
Fotomontaggio di Marco Confortola. Stesso oggetto della foto precedente: un paletto con quello che sembra una busta di liofilizzato vuota, pronta a volare via; stessi buchi nella neve; stesse ombre e stessa inquadratura.

Cime ipotetiche
Abituati alla realtà? Questa è l’ipotesi avanzata per la vetta del Makalu: secondo Marco Camandona, alpinista himalayano italiano, Confortola avrebbe usato una sua foto per dimostrare la sua vetta nel 2016: “Sul Makalu, dopo essere arrivato in cima ho iniziato la discesa e, 100 metri sotto la vetta, ho incontrato Confortola. Faccio presente che, a quelle quote, 100 metri equivalgono a un’ora o un’ora e mezza di salita. Lui stava salendo, ci siamo salutati e io ho proseguito fino al campo base. Il giorno dopo, lui è arrivato al campo base dichiarando di aver raggiunto la cima. Io non l’ho visto, quindi non posso testimoniare in prima persona se sia arrivato o meno. Quello che posso invece affermare con certezza è che ha preso la mia foto di vetta del Makalu e l’ha manipolata. All’epoca avevo deciso di non sollevare la questione”, ha dichiarato a montagna.tv.

Camandona ribadisce, tra l’altro, i dubbi sulla salita del Dhaulagiri di Confortola del 2017, con una foto presumibilmente scattata in vetta: secondo Camandona, “sono ben visibili elementi che in realtà non si trovano sulla vetta: la roccia visibile sullo sfondo si trova in tutt’altra zona”.

Bastano cento dollari per ottenere un falso attestato di vetta (Simone Moro)”

L’Instagram di Confortola con la foto ritagliata del Kangchenjunga di Kashif.

Come accennato, nel 2023, Confortola si trovava in Pakistan per scalare il Nanga Parbat. Il maltempo non lo aiutò. Tornò indietro. Tentò di nuovo la vetta e il 7 luglio la sua squadra pubblicò un video che non era stato girato in vetta, sostenendo che Confortola avesse raggiunto la vetta. Non scattò foto e si pentì di aver dimenticato di collegare il suo GPS InReach per tenere traccia del percorso.

Afferma comunque di aver raggiunto la vetta, e finisce per mostrare al CAI un attestato di salita al Nanga Parbat redatto dall’Alpine Club del Pakistan. Un documento inutile per Simone Moro: “basta dare cento dollari a qualcuno e ti dà tutti gli attestati che vuoi” (per avere maggiori dettagli sui certificati, leggi qui, NdR). 

La questione non è più se Confortola abbia mentito, ma su quante cime – cinque o sei – e, soprattutto, come abbia potuto continuare a mentire? Sponsorizzato da una delle maggiori aziende italiane produttrici di attrezzature, Confortola gode anche di un ampio sostegno da parte della Regione Lombardia (è nato a Sondrio), dove tiene conferenze e firma il suo libro autobiografico Oltre la Cima.

Un sistema che a volte porta gli atleti a esagerare le proprie prestazioni? “La pressione degli sponsor è una scusa comoda”, afferma Rodolphe Popier. “Confortola è un personaggio simpatico, estremamente accomodante, un millantatore certo, ma simpatico. Ogni tanto fa operazioni di soccorso, si offre di aiutare nei campi base, nessuno penserà che quest’uomo non fa quello che dice”.

Su montagna.tv, anche Camandona fornisce la stessa spiegazione di Popier: “Bisogna dire che, nonostante la sua imponente personalità, Confortola non ha mai esitato a collaborare con altri nelle spedizioni: era sempre disponibile con tutti e contribuiva al successo di spedizioni diverse dalla sua”. Camandona aggiunge che la difesa di Confortola, ovvero “accusare Simone Moro di gelosia, è francamente incomprensibile” visti i precedenti di Moro.

Per Camandona, che accusa Confortola di avergli rubato la foto del Makalu, “per molto tempo la comunità alpinistica ha preferito non sollevare la questione, sperando che gli organi competenti prendessero posizione e che Confortola potesse fornire chiarimenti”.

Le verifiche
Nel frattempo, la sua serie di bugie e approssimazioni non è passata inosservata all’Himalayan Data Base: “Ci sarà un aggiornamento, come ogni anno, pubblicato questo autunno, in cui troveremo l’elenco delle cime convalidate”, spiega Popier, che ha indagato, quasi nove anni fa, sullo sloveno Tomo Česen in merito alla sua bugia sulla parete sud del Lhotse. All’epoca, Popier riuscì a dimostrare che le foto che Česen presentò come quelle della sua salita erano in realtà state scattate altrove nel Khumbu.

Nel caso di Confortola, alcune cime saranno convalidate, altre no, e alcune rimarranno indicate come “controverse”.

L’altro storico specializzato sugli Ottomila (e conduttore del sito web 8000.ers) Eberhard Jurgalski, ha deciso. Nella sua “tabella di transizione“ tra l’era antica (senza GPS o fotografia digitale) e quella attuale, elenca i candidati per i quattordici Ottomila. La valutazione, secondo Jurgalski, è inequivocabile.

Secondo lui, nella lista da lui stilata a fine 2023 (quindi senza Gasherbrum I), a Confortola mancano sei delle sue quattordici cime: Kangchenjunga, Lhotse, Makalu, Dhaulagiri, Manaslu e Annapurna. Precisazione: per il Dhaulagiri ha scalato solo l’anticima occidentale, per il Manaslu l’anticima C2, lo stesso per l’Annapurna (con l’anticima C1).

Parete nord dell’Annapurna, visibile la parte superiore della via normale. ©Jocelyn Chavy.

Ciò che ha fatto è stata una grande mancanza di rispetto per coloro che hanno effettivamente scalato queste vette (Marco Camandona)”.

L’Annapurna di Messner fu messa in discussione da Jurgalski, cosa che gli valse l’ira di alcuni alpinisti himalayani e dello stesso Messner. Ma questa non è la stessa epoca, né in termini di vie normali, né nello stato di conoscenza delle complesse creste sommitali, né nei mezzi (tracce GPS, foto) oggi disponibili.

Interpellato sulla vicenda dal quotidiano La Repubblica (17 agosto 2025), Messner dichiara, con il suo solito stile: “Quello che fa o dice di aver dimostrato non mi interessa. Se devo giudicare, mi sembra che parli in nome di un’élite cui non appartiene. Dico però che ha ragione Simone Moro, che al contrario è un grande alpinista: se qualcuno afferma di aver raggiunto la vetta di un Ottomila, ha il dovere di fornirne le prove”.

Poi attacca Confortola: “Anche se avesse potuto dimostrare di aver raggiunto le sei cime oltre gli 8000 metri che gli sono contestate, per me non avrebbe fatto nulla, perché non considero quello come alpinismo. (…) Confortola appartiene all’era degli Ottomila metri con percorsi normali segnalati: quella dei turisti, non degli alpinisti”. Basta così… 

Lasciamo la conclusione a Marco Camandona: “Quello che ha fatto Confortola è un’immensa mancanza di rispetto verso chi ha scalato questi Ottomila metri, verso chi è morto su queste montagne e verso chi è sempre stato onesto”.

Jocelyn Chavy

Jocelyn Chavy
Jocelyn Chavy è co-redattore capo di Alpine Mag. Giornalista, fotografo e cameraman, ama le montagne selvagge. È anche scrittore e regista quando Alpine Mag glielo permette.

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Domande sul Kangchenjunga Summit di Marco Confortola
di Angela Benavides *
(pubblicato su explorerweb.com il 1° giugno 2022)

Sono emersi dubbi sulla vetta del Kangchenjunga raggiunta o meno da Marco Confortola. L’alpinista italiano ha affermato di aver raggiunto la vetta il 5 maggio 2022 alle 14.30 (ora nepalese). Il suo team di appartenenza ha spiegato che non era riuscito a comunicare il suo successo in quel momento a causa di problemi con le batterie del suo telefono satellitare.

Il giorno prima aveva detto che stava monitorando la situazione, perché il freddo stava mettendo a dura prova i suoi piedi già danneggiati (aveva perso le dita dei piedi per congelamento in una precedente spedizione al K2).

Il Kangchenjunga sarebbe stato il dodicesimo Ottomila di Confortola senza ossigeno nella sua impresa di 14 Ottomila. Le sue due vette rimanenti sarebbero state il Nanga Parbat e il Gasherbrum I.

Foto controversa della vetta
Confortola ha condiviso una foto del suo orologio sportivo che mostrava un’altitudine di 8592 metri e una foto insolita che mostrava neve e rocce vicino alla cima del Kangchenjunga. Né lui né nessun altro era presente nella foto.

“La soddisfazione di leggere questa altitudine sul mio orologio, che rimarrà indelebile come la scalata di questa montagna che ho tentato tre volte”, ha scritto Confortola sul suo account Instagram accanto a questa foto riferita alla vetta del Kangchenjunga.

“La soddisfazione di leggere questa altitudine sul mio orologio, che rimarrà indelebile come la scalata di questa montagna che ho tentato tre volte”, ha scritto Confortola accanto a questa foto sul suo Instagram.

Come hanno fatto notare i media e gli scalatori a ExplorersWeb, la foto sembra essere stata ritagliata da un’altra foto pubblicata da Shehroze Kashif, che ha raggiunto la vetta lo stesso giorno alle 15.

Dopo la notizia della vetta, la squadra di Confortola ha segnalato che l’alpinista soffriva di oftalmia. Avrebbe dovuto sottoporsi a una visita oculistica da parte di medici in Italia prima di dirigersi al Nanga Parbat. Hanno annunciato che si sarebbe sottoposto a una risonanza magnetica. Da allora non sono stati pubblicati ulteriori aggiornamenti o dettagli sulla scalata.

Seven Summit Treks, con cui Confortola salì, non lo menzionò mai nella lista dei scalatori quel giorno. Il 5 maggio, STT si congratulò con Namja Bhote, Shehroze Kashif, Rudi Bollaert, Purnima Shrestha, Ariunzul Chuluunbaatar e Ming Temba Sherpa. Annotarono +counting, ma non aggiornarono mai l’informazione.

Il post dell’agenzia Seven Summit Treks con l’elenco degli alpinisti che hanno fatto la vetta del Kangchenjunga il 5 maggio 2022, dove non viene citato Marco Confortola.
Marco Confortola. Fotogramma da un video pubblicato su Instagram durante il trekking di avvicinamento al Kangchenjunga

Nessuna risposta
ExplorersWeb ha chiesto ulteriori dettagli a STT e a Marco Confortola. A distanza di settimane, non abbiamo ricevuto alcuna risposta. Per quanto ne sappiamo, il team di The Himalayan Database non ha ancora letto il rapporto di vetta dell’alpinista italiano.

Pochi giorni dopo il suo ritorno a casa, l’alpinista olandese Wilco van Rooijen ha pubblicato un resoconto completo del suo tentativo di raggiungere la vetta, in cui racconta di aver incontrato Confortola al suo ritorno al campo base dopo il tentativo di vetta.

Marco [Confortola] è stato il primo ad arrivare al BC. Cas [van de Gevel] e io lo abbiamo abbracciato e abbiamo pensato che non fosse arrivato in cima perché lo avevamo sentito dire dallo sherpa di Lolo [Lolo Gonzalez]. Ma all’improvviso Marco ha fatto capire di essere arrivato in cima! Ha mostrato con orgoglio le foto sul cellulare. Era vicino alla cima. Sullo sfondo si vedevano circa 4 o 5 scalatori in tuta rossa che salivano più in alto. Ma Marco ha detto che la cima era sacra e che il luogo in cui si era fermato era la cima rituale (1). Cas e io ci siamo guardati. Conosciamo anche le foto degli scalatori che si erano fermati poco prima della cima “sacra”, ma quel punto sembrava davvero diverso. Inoltre, se si vogliono completare i 14 Ottomila, bisogna trovare delle “foto di vetta” convincenti. Allo stesso tempo, ci siamo resi conto che non è la nostra storia, ma che avrebbe comunque avuto una conclusione”.

(1) A proposito della “vetta sacra”: il Kangchenjunga è una montagna sacra per la popolazione locale del Sikkim, sul versante indiano. Per questo motivo, i primi scalatori britannici, guidati da George Band, e molte spedizioni successive si sono tenuti rispettosamente a uno o due metri di distanza dal punto più alto. Tuttavia, la tradizione non è seguita rigorosamente, soprattutto perché oggi la vetta viene scalata principalmente dal Nepal.

Angela Benavides

Angela Benavides *
Angela Benavides, spagnola di Madrid, si è laureata in giornalismo ed è specializzata in alpinismo d’alta quota e notizie di spedizioni. Scrive di arrampicata, alpinismo, avventura e sport all’aria aperta da oltre 20 anni.
In precedenza, Angela Benavides ha lavorato presso diversi media locali e internazionali. Ha maturato esperienza anche nella consulenza per le aziende sponsor nel settore degli sport all’aria aperta, è responsabile stampa e responsabile della comunicazione ed è autrice di pubblicazioni.
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Lista link vari ad articoli della prima ora
https://www.lastampa.it/cronaca/2025/08/14/news/marco_confortola_simone_moro_alpinisti-15270537/?ref=LSHA-P9-S1-T1

https://torino.corriere.it/notizie/cronaca/25_agosto_13/guerra-tra-alpinisti-moro-contro-confortola-bugie-sugli-8-000-ha-mostrato-foto-di-vetta-non-sue-la-replica-e-solo-invidia-cd9c3a55-0722-4494-bbd1-e7dfa6ce8xlk.shtml

https://www.ilgiornale.it/news/politica/polemiche-alta-quota-confortola-sotto-accusa-bugie-sui-suoi-2522854.html

Intervista di Giampaolo Visetti a Reinhold Messner sul tema Confortola, La Repubblica, 17 agosto 2025


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Confortola: “Scalate inventate? Tutta invidia. Il mio unico errore è stato non morire sul K2”. Parla l’alpinista sospettato di aver inventato le prove: «Basta fango, Simone Moro non è il supremo giudice delle montagne. Io c’ero e ho realizzato il mio sogno»

L’intervista di Enrico Martinet a Marco Confortola
di Enrico Martinet
(pubblicato su La Stampa il 15 agosto 2025)

Marco Confortola è nato a Valfurva il 22 maggio 1971

Tempesta in alta quota. Parole, prove e controprove, accuse e difesa. Aumenta come le correnti jet che spirano a 200 chilometri l’ora sulle vette più alte della Terra. Ed è delle scalate di queste vette che si è impadronita una delle polemiche più feroci degli ultimi anni. Un processo con l’accusa di millantato credito, bugie, prove taroccate, testimonianze a carico dell’imputato Marco Confortola, guida alpina della Valtellina, nato a Valfurva nel 1971 che ha annunciato di essere salito su tutti e 14 gli Ottomila. L’accusa è sostenuta da Simone Moro, alpinista bergamasco che ha il record di prime salite invernali sugli Ottomila, quattro. Dice di avere «decine di testimonianze» a provare «le bugie di Confortola». C’è un altro illustre himalaysta, Silvio Mondinelli, che è uno dei pochi alpinisti ad aver salito tutti i giganti senza ossigeno.

Nero su bianco, compresa la difesa di Confortola che assicura «ciò che dico e che ho fatto è verità, sono vittima dell’invidia». Accusa e difesa da una settimana sono su Lo Scarpone, portale del Club alpino italiano. Fra le vette, nei rifugi alpini non si parla d’altro. E il “processo” fa il giro del pianeta. C’è l’occorrente per una storia infinita, come quelle delle foto taroccate sulla prima salita dell’Annapurna nel 1950 della spedizione di Herzog e Lachenal, che però è stata smentita, o come quella della straordinaria alpinista polacca Wanda Ruckiewicz che venne accusata di non essere arrivata in vetta all’Annapurna, unica donna in una spedizione di maschi. Marco Confortola è diventato famoso per essere sopravvissuto nel 2008 a una tempesta sul K2. Le sfuggì rimanendo per ore in una buca a 8400 metri. Si congelò i piedi e dovettero amputargli tutte le dita. Da quel giorno il suo obiettivo era raggiungere tutte e 14 le vette di 8000 metri del pianeta.

Confortola, a fine luglio lei ha gridato al mondo di aver esaudito il suo sogno raggiungendo gli 8080 metri del Gasherbrum I, in Pakistan. Ma davvero ha scalato tutti gli Ottomila?
«E certo».

Eppure sei vette risultano contestate…
«Ah sì? Da chi, da Simone Moro? E chi è, il supremo giudice dell’alpinismo? Io non mi sono mai permesso di parlare di nessuno, delle cose che fanno gli altri. Che vuole da me Moro? E poi magari gli è pure scaduto il brevetto di guida, non l’ho più visto negli elenchi».

Si presume che voglia la verità.
«Io so dove sono salito e che cosa ho fatto. Io lassù c’ero, non con lui, certo. E adesso vengo ricoperto di fango, di accuse, ma chi crede di essere Simone Moro?».

Non è il solo a dire che lei ha sostituito foto di altri alpinisti con la sua.
«Sì, certo. C’è anche un medico che lo dice per la salita sul Lhotse. E se fosse accaduto il contrario, la mia foto sostituita con quelle di altri? Chi può dirlo? Ma basta con questi fenomeni dell’alpinismo, questi campioni. Io non ho mai accusato nessuno e questi adesso lo fanno? Quando si fa un concorso o un esame all’università ti dicono se sei promosso e bocciato, così come nelle prove per il soccorso alpino, o sei verde o sei rosso. E sono docenti quelli che ti danno i voti. Moro chi è? Il mio esperto esaminatore? Io ho sempre creduto a ciò che ha raccontato, mai l’ho “indagato”».

Anche Silvio Mondinelli dice che lei non è salito su tutti gli Ottomila.
«Nel 2007 eravamo insieme a Trento per raccontare il nostro Annapurna. Eravamo sulla cima uno accanto all’altro. Allora io c’ero e dopo vent’anni non più?».

Lei ha detto che le accuse sono frutto di invidia nei suoi confronti…
«E lo confermo. Mal di pancia, invidia».

Ma, scusi, parliamo di grandi alpinisti, perché mai dovrebbero invidiarla?
«Perché io sono simpatico, racconto le mie imprese nelle aziende che mi chiamano per motivare chi ci lavora. Perché io ho scritto cinque libri per Mondadori, casa editrice che mi apprezza. Continuano a fidarsi di un bugiardo? E perché fra i 40 atleti scelti per il progetto nelle scuole “Allenarsi per il futuro” fra tanti alpinisti hanno chiamato proprio me, Marco Confortola?».

Confortola nei pressi della vetta (o in vetta?) dell’Annapurna, 12 ottobre 2006

Si è chiesto perché?
«Certo, perché so comunicare e soprattutto perché usando lo sport come metafora di saper andare avanti io ero il più adatto proprio perché dopo il K2 mi davano per finito. Sa che c’è? Mi scusi la volgarità, ma quando un alpinista piace alla gente, agli altri che fanno anche loro gli scalatori, brucia il culo. Tutto si spiega così».

Lei dice di avere i certificati di vetta.
«Si. Non ho quello dell’Everest perché non avevo il tempo di pensarci. Sono sceso e ripartito per il Pakistan per affrontare il K2. Proprio i certificati di vetta… Perché Moro non li chiede a tutti quelli che hanno fatto gli Ottomila? È ora di finirla con queste polemiche. Si misurano i metri che mancavano tra gli scarponi e la vetta? Perfino a Reinhold Messner hanno contestato dei metri, ma ci rendiamo conto?».

Sì, ma per lei si parla anche di 200 metri dalla vetta.
«Palle».

Magari ha fatto errori…
«Sa quale è stato il mio errore? Non morire sul K2 nel 2008. Così i fenomeni sarebbero stati contenti. E chiuso lì. Ma io ho voluto vivere e realizzare il mio sogno. L’ho fatto. Tanti saluti».

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Il “caso Confortola” sarà verificato dall’Himalayan Database, guidato da Billi Bierling, che aggiornerà i dati basandosi su testimonianze dirette e prove documentate. Come spiega Bierling: “Se una rivendicazione è incerta, lo diciamo apertamente, ma non attacchiamo né sminuiamo l’alpinista”.

In mano all’Himalayan Database
(Billi Bierling: “lo aggiorneremo”)
di Gian Luca Gasca
(pubblicato su loscarpone.it il 28 agosto 2025)

Il “caso Confortola”, con i dubbi sollevati sulle sue salite himalayane, è ormai ovunque. Dopo le prime dichiarazioni di Silvio Mondinelli e Simone Moro, pubblicate su Lo Scarpone, la querelle sulle vette realmente raggiunte dall’alpinista di Santa Caterina Valfurva ha lasciato la ristretta cerchia degli “addetti ai lavori” per raggiungere le maggiori testate nazionali e internazionali. A livelli più bassi la discussione è spesso divisa tra sostenitori e detrattori. Difficile trovare un’unica voce comune su questa vicenda, capace di mettere la parola fine al dibattito. Per l’alpinismo non esiste infatti, come accade per lo sport, un organismo ufficiale incaricato di certificare le vette.

L’unico punto di riferimento riconosciuto a livello internazionale, per le vette dell’Himalaya nepalese, rimane l’Himalayan Database, un archivio indipendente che da decenni raccoglie, ordina e – quando necessario – mette in discussione le rivendicazioni degli alpinisti.

Marco Confortola in vetta al Gasherbrum I, 20 luglio 2025. © Facebook Regione Lombardia.

A guidarlo oggi c’è Billi Bierling, giornalista tedesca e alpinista, che per vent’anni ha lavorato al fianco di Miss Elizabeth Hawley, la leggendaria cronista delle spedizioni in Nepal. Con oltre 90mila nomi registrati e un lavoro di verifica che si basa su testimonianze dirette, incrocio di dati e, sempre più spesso, indagini approfondite sui casi controversi, l’Himalayan Database è diventato una sorta di “memoria collettiva” dell’alpinismo himalayano.

Bierling, che ha scalato sei degli Ottomila, unisce la sensibilità della cronista con l’esperienza diretta di chi ha vissuto le grandi montagne alla competenza acquisita lavorando a diretto contatto con Miss Hawley. Abbiamo deciso di intervistarla per comprendere meglio quale sia il funzionamento del database, scoprire come vengono gestite le dispute e perché rigore e rispetto devono sempre andare di pari passo. E, soprattutto, per capire come l’Himalayan Database intenda gestire il “caso Confortola”, oggi al centro delle polemiche alpinistiche.

Billi, Andiamo subito al sodo, come è iniziata la vostra indagine sulle salite di Marco Confortola e cosa l’ha innescata?
A seguito della protesta della comunità alpinistica italiana riguardo alle rivendicazioni di vetta di Marco Confortola, e dopo diversi scambi di messaggi con Simone Moro, è risultato chiaro che il team dell’Himalayan Database dovesse condurre un’indagine propria. 

Confortola in vetta al Broad Peak, 12 luglio 2007

Come l’avete gestita?
Puntiamo a basarci su informazioni di prima mano quando trattiamo tali dispute. Ho contattato Silvio Mondinelli e altri alpinisti che si trovavano sulle stesse montagne con Marco, ed erano disposti a condividere le loro testimonianze. Stiamo attualmente raccogliendo prove e nel prossimo aggiornamento, previsto per novembre 2025, aggiorneremo di conseguenza l’Himalayan Database (è da notare che l’Himalayan Database tratta solo ed esclusivamente le ascensioni compiute nella catena himalayana, con esclusione dunque del Karakorum. Pertanto gli Ottomila pakistani non sono contemplati, NdR).
Per quanto riguarda Marco, lo abbiamo contattato per dargli l’opportunità di rispondere a queste affermazioni; tuttavia, non abbiamo ancora ricevuto risposta.

Il vostro lavoro è poco noto al pubblico. Quando ricevete e verificate una rivendicazione di vetta, quali tipi di prove sono più importanti per voi? Foto, dati GPS, testimoni oculari o rapporti ufficiali?
Tradizionalmente Miss Elizabeth Hawley, e in seguito il resto del team, intervistava le spedizioni nei loro hotel, annotando a mano i loro resoconti su moduli che venivano conservati nel suo ufficio (questi documenti cartacei sono ora archiviati presso l’American Alpine Club a Golden, CO, USA). A meno che una spedizione non avesse scalato una nuova via, tentato una nuova montagna o ci fossero dubbi su una rivendicazione di vetta, non insisteva sulle foto di vetta. Il suo approccio si basava sulla fiducia, e questo rimane il fondamento per me e per il team oggi.

Naturalmente, l’alpinismo ha sempre visto alcune persone piegare la verità, ma sia Miss Hawley sia io abbiamo creduto che la maggior parte degli alpinisti sia onesta. È anche importante ricordare che l’Himalayan Database non è un ente certificatore; non rilasciamo certificati di vetta. Quello è il ruolo del Ministero del Turismo, con il quale lavoriamo a stretto contatto. Se qualcuno distorce la verità, allora i dati possono risultare inaccurati, ma come diceva Miss Hawley: “Sono loro a dover vivere con la loro bugia”.

Chiara e diretta, Miss Hawley… Come gestite però i casi in cui un alpinista non risponde o non collabora? Il silenzio può influenzare l’esito dell’indagine?
Nell’Himalayan Database abbiamo due categorie per le salite dubbie. La prima è “non riconosciuta”, che usiamo quando è chiaramente evidente che un alpinista non ha raggiunto la vetta. Sono un esempio i casi di foto di vetta falsificate o altre prove inequivocabili.

Se l’alpinista insiste comunque di aver raggiunto la vetta, la salita è segnata con una (u) di “unrecognised”. Un esempio noto è la coppia di poliziotti indiani, Dinesh e Tarakeshwari Rathod, che falsificarono la loro foto di vetta nel 2016.

Qual è invece la seconda categoria?
La seconda categoria è “contestata”. Questa viene usata quando ci sono forti prove esterne che suggeriscono che un alpinista non abbia raggiunto la vetta, anche se sostiene il contrario. Una salita segnata come contestata non significa automaticamente che il nostro team dubiti dell’impresa, ma se esistono controprove credibili, possiamo assegnarle una (d). Un caso simile è la salita in solitaria di Ueli Steck sulla parete sud dell’Annapurna I. Miss Hawley ed io lo intervistammo insieme e credemmo al suo racconto – e io ci credo ancora – ma poiché anche le prove contrarie erano forti, fummo essenzialmente costretti a segnarla come contestata.

In entrambe le categorie, l’obiettivo è la trasparenza. Presentiamo le informazioni, e poi spetta agli utenti dell’Himalayan Database studiare i dettagli e decidere da soli cosa, e chi, credere.

Prima ci dicevi che il prossimo aggiornamento dell’Himalayan Database è previsto per novembre 2025, come mai in questo periodo?
Perché raccogliamo una grande quantità di informazioni ogni stagione e occorrono diversi mesi prima che il database possa essere completamente aggiornato. 

Come funziona questo processo di revisione e pubblicazione?
Ci basiamo sui rapporti del Ministero del Turismo così come sulle agenzie di trekking nepalesi e, come si può immaginare, può volerci un bel po’ prima che le loro informazioni ci raggiungano. Inoltre, seguiamo direttamente i contatti con gli alpinisti, cosa che richiede anch’essa tempo. Una volta raccolto tutto il materiale, Richard Salisbury, che gestisce il lato digitale del database, deve inserire tutto nel sistema, un altro processo che richiede tempo.

Elizabeth Hawley

Quella dell’Himalayan Database è una macchina complessa, costituita da una moltitudine di persone. Da chi è formato l’attuale team e come organizzate il monitoraggio di così tante spedizioni ogni anno?
Richard Salisbury è la mente dietro al database digitale: Richard vive ad Ann Arbor e ha lavorato con Miss Hawley dai primi anni Novanta. Le si avvicinò per la prima volta durante un tentativo all’Annapurna IV, chiedendole se valesse la pena digitalizzare il database. Tre donne nepalesi iniziarono presto a trascrivere gli appunti di Miss Hawley nel sistema, un processo che richiese più di dieci anni.
Tobias Pantel, cittadino tedesco che aiuta a intervistare i team delle spedizioni, raccogliere informazioni dalle agenzie di trekking e supporta il coordinamento con il Ministero del Turismo.
Rodolphe Popier, cittadino francese focalizzato su nuove salite, nuove vie e ripetizioni significative. Oltre a contribuire all’Himalayan Database, gestisce la cronaca della rivista del Club Alpino Francese e collabora con Lindsay Griffin sia per l’American Alpine Journal sia per i Piolets d’Or. Vive vicino a Chamonix, in Francia.
Jeevan Shrestha, cittadino nepalese che ha lavorato con Miss Hawley dal 1997 intervistando gli alpinisti che vengono a scalare nell’Himalaya nepalese.
Lisa Choegyal, amica di lunga data di Elizabeth Hawley e nostra direttrice finanziaria.
Billi Bierling, io, cittadina tedesca, giornalista di formazione, esperta di comunicazione per l’Aiuto Umanitario Svizzero e team leader dell’Himalayan Database. Ho iniziato a collaborare con Elizabeth Hawley nel 2004 e, ispirata dalle grandi montagne, ho scalato sei dei 14 Ottomila.

Un team molto numeroso…
Negli anni abbiamo avuto anche volontari che ci hanno aiutato a incontrare i team delle spedizioni. Tuttavia, poiché tutto questo lavoro è svolto su base volontaria, non è remunerato, il che può renderlo insostenibile per molte persone.
Monitorare le spedizioni era molto più semplice ai tempi di Miss Hawley. Lei, Jeevan ed io chiamavamo le agenzie di trekking che sapevamo organizzassero spedizioni – forse 70 o 80 in totale – all’inizio di ogni stagione per sapere chi sarebbe arrivato e dove avrebbe soggiornato. Una volta raccolte tutte le informazioni, le organizzavamo per data, e quando la stagione iniziava, chiamavamo gli hotel nel giorno dell’arrivo delle spedizioni per incontrarle lì. Poi fissavamo un incontro con il capospedizione per raccogliere i dati biografici dei membri e degli sherpa e conoscere i loro piani, e li incontravamo di nuovo dopo la spedizione.
Dal 2010 circa, quando le grandi compagnie nepalesi hanno preso il sopravvento e i giorni delle classiche spedizioni con un capospedizione erano perlopiù finiti, questo sistema è diventato impossibile da mantenere. Anche se abbiamo ancora contatti diretti con le spedizioni regolari che vengono ogni anno, oggi ci affidiamo molto alle informazioni provenienti dai social media e da altri siti di notizie di montagna.

2 maggio 2007, Confortola in vetta al Cho Oyu

Rimane che un database è più che un contenitore di semplici statistiche. È diventato una memoria collettiva. Come ti senti personalmente riguardo a questa responsabilità?
Quando ho iniziato a collaborare con Miss Hawley nell’autunno 2004 immaginavo che sarebbe stato solo per una stagione o forse un anno. La vita, tuttavia, aveva altri piani per me, e ho continuato questo lavoro fino ad oggi. Mi sento incredibilmente fortunata ad aver conosciuto così da vicino Miss Hawley e ad aver imparato così tanto da lei. 

Far parte della scena alpinistica in Nepal è anche un dono meraviglioso che custodisco profondamente. Non avrei mai immaginato di diventare in parte responsabile del database, ma così è andata. A volte trovo difficile prendere decisioni, e sono grata di lavorare con un team straordinario che mi sostiene sempre. In momenti come questi però, mi manca Miss Hawley e vorrei poterle chiedere cosa farebbe. Nel caso di Marco Confortola sono certa che la sua risposta sarebbe stata simile a ciò che una volta disse riguardo a Miss Oh (Eun-Sun Oh, vedi poco oltre, NdR).
In breve, mi sento onorata che Miss Hawley si sia fidata di me nel continuare il suo lavoro insieme al team.

Come ci hai ricordato, citando il caso di Miss Oh, non è la prima volta che sorgono dubbi su una salita registrata. Quali casi passati ricordi e quali lezioni ne hai tratto?
Fin dall’inizio dell’alpinismo himalayano alcune persone hanno distorto la verità. Ma se confronti i numeri – l’Himalayan Database attualmente registra 90.850 membri, inclusi oltre 20mila staff nepalesi – i casi di salite non riconosciute (91 membri e 23 staff d’alta quota) o contestate (129 membri e 24 staff d’alta quota) restano molto pochi in proporzione.
Alcuni casi sono già stati menzionati sopra, ma oltre ad analizzare le informazioni fornite dagli intervistati, aiuta anche avere una buona comprensione delle persone. Miss Hawley certamente aveva questo intuito, e mi piace pensare che dopo 20 anni di lavoro con il database, anch’io ne abbia sviluppato un po’, anche se ovviamente nulla a confronto con lei. Miss Hawley era una donna unica, e le sue scarpe sono troppo grandi per me. Mi sento però incredibilmente fortunata ad aver imparato così tanto da lei. Insieme al team cerco di portare avanti il database al meglio delle mie possibilità. Quando Miss Hawley è morta, un pezzo di storia dell’alpinismo è morto con lei.
Un caso che ricordo bene è proprio quello dell’alpinista sudcoreana Eun-Sun Oh, che stava tentando la salita di tutti i 14 Ottomila. Affermò di aver raggiunto la vetta del Kangchenjunga nel 2009, ma sorsero rapidamente dubbi, specialmente nel suo Paese. Una volta che la storia esplose in Corea del Sud, Miss Hawley iniziò la sua indagine, che portò infine a segnare la salita come non riconosciuta. Durante il processo, ricordo che mi disse: “Lasciamoli chiarire prima in Corea del Sud, e poi faremo le nostre indagini”.

Una volta conclusa un’indagine quanto del materiale raccolto diventa pubblico? Quali criteri guidano le vostre decisioni sulla trasparenza?
L’Himalayan Database è liberamente accessibile al pubblico, quindi chiunque può vedere le decisioni che prendiamo. Non vedo alcun problema di trasparenza in questo senso.
Fondato da Elizabeth Hawley, l’Himalayan Database serve oggi come risorsa vitale per la comunità alpinistica internazionale. Come ho detto in precedenza, non è un ente certificatore. Il nostro ruolo è fornire informazioni accurate e servire chiunque abbia bisogno di dati sull’alpinismo himalayano in Nepal, inclusi ricercatori, studi medici e altri stakeholder. Quello che è iniziato come un hobby è cresciuto fino a diventare un’istituzione.
Incontrare Miss Hawley era una parte importante di qualsiasi spedizione in Nepal. Quando gli alpinisti arrivavano a Kathmandu, non vedevano l’ora di conoscerla, era una leggenda. Ma la scena alpinistica è cambiata. Molti giovani alpinisti oggi non conoscono più l’Himalayan Database né ricordano Miss Hawley, il che è un peccato. Da quando mi ha passato la responsabilità nel 2016, è diventato impossibile mantenere il suo livello di impegno personale.

Come mai?
Ci sono semplicemente troppi alpinisti oggi, e servirebbe un esercito di 100 persone per parlare con tutti.
Oltre a condurre le nostre interviste, siamo grati al Ministero del Turismo del Nepal per condividerci le loro informazioni. Siamo ancora molto interessati a incontrare di persona i team delle spedizioni, specialmente quelli che scalano nuove montagne o tentano nuove vie, perché questo era lo scopo originale del database: registrare quanti più dettagli possibili sulle vie sconosciute. Per le vie commerciali su montagne ben conosciute – in particolare la maggior parte degli Ottomila – il livello di dettaglio è meno critico, perché le spedizioni generalmente usano gli stessi campi e seguono itinerari simili.

Prevedete di introdurre standard di verifica più rigorosi o nuovi strumenti tecnologici in futuro, anche in risposta a casi come quello di Confortola?
Al momento, non abbiamo piani ma vediamo cosa riserva il futuro.

Un’ultima domanda: come bilanciate la necessità di rigore e trasparenza con il rispetto dovuto agli alpinisti, specialmente nei casi delicati?
Per me rigore e trasparenza non sono negoziabili, perché il valore dell’Himalayan Database si fonda sulla sua accuratezza e credibilità. Allo stesso tempo, sono molto consapevole che dietro ogni spedizione ci sono persone che mettono cuore, energia e talvolta la loro vita nell’arrampicata. Nei casi delicati cerco di seguire l’esempio di Miss Hawley: raccogliamo quante più informazioni possibile, ascoltiamo attentamente ed evitiamo di affrettare le conclusioni. Se una rivendicazione è incerta, lo diciamo apertamente, ma non attacchiamo né sminuiamo l’alpinista. Il rispetto significa dare alle persone un ascolto equo e riconoscere il loro impegno, mentre il rigore significa prendere decisioni solo quando i fatti sono chiari. Trovare questo equilibrio non è sempre facile, ma credo che sia l’unico modo per onorare sia gli alpinisti sia l’integrità del record.

Billi Bierling

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Caro Marco
(uno, nessuno o quattordici Ottomila: le imprese non sono queste)
di Giuseppe Miotti
(pubblicato su La Provincia del 15 agosto 2025)

Da sempre distante dalle vicende dell’himalaysmo, ma non a digiuno della sua storia, in questi giorni sono stato mio malgrado raggiunto dalle voci pro e contro le imprese di Marco Confortola e della supposta mendacia delle sue affermazioni in merito alla sua scalata dei 14 Ottomila. Di primo acchito mi viene da sorridere: trent’anni fa poteva essere un exploit ma oggi, che un gruppetto di ragazzi nepalesi li ha saliti tutti in una sola stagione, come si può spacciare per impresa storica la pur dura esperienza del furvasco? Sì, perché dobbiamo riconoscerlo: impegnarsi lungamente per conseguire un risultato, affrontare anche momenti di certo difficili ma mai desistere va a tutto merito di Marco.

Personalmente non mi importa se alla sua collezione manchino un paio di Ottomila e sarei disposto a concedere che abbia salito anche questi pur sapendo che, senza ossigeno ausiliario e a quelle quote, cento metri sono un dislivello notevolissimo e percorrerli o evitarli fa differenza. Ma tutto finisce qui perché è il corollario alle sue salite a delineare un quadro sconfortante che si spinge al limite della millanteria. Oggi, di fronte ad accuse circostanziate mosse da altri quotatissimi salitori agli Ottomila, Marco dice che è tutta invidia e che ci penseranno i suoi avvocati.

A questo punto da appassionato di storia dell’alpinismo devo mettere subito in chiaro che la sua affermazione è risibile perché nel panorama delle salite himalayane Marco è uno dei tanti: basta dare un’occhiata alle foto della affollatissima cresta dell’Everest per farsi un’idea. E mai ha fatto cose di pregio alpinistico: “solo” le vie normali, nemmeno una variante notevole. Quindi come si può affidare ad un giornale il titolo “Confortola è entrato nella storia dell’alpinismo”? Quanto meno ci vorrebbe un minimo di umiltà nei confronti di quella Storia e dei suoi veri protagonisti. Non c’è paragone fra le scelte alpinistiche di un Moro o un Mondinelli e quelle di Confortola.

Giuseppe Popi Miotti

Ma dubbi sulle gesta del Selvadegh ci sono anche su alcune sue conclamate imprese compiute sulle Alpi prima che si lanciasse sugli Ottomila: nell’ambiente tutti lo sanno. Molto fumo e poco arrosto si potrebbe dire e germogli di una pianta alimentata malamente. Del resto ogni sua “impresa” viene fatta passare per storica, come ad esempio le oltre 400salite al Gran Zebrù, una passeggiata, senza rispetto per personaggi del passato, come ad esempio un Giacomo Fiorelli, che già negli anni Cinquanta aveva salito più di 500 volte il Pizzo Badile, ben più difficile del Gran Zebrù, senza tanto chiasso. Ma qui entra in gioco il business, che porta a forgiare un’immagine quasi superomistica del personaggio con risultati a mio avviso controproducenti che a volte fanno pensare al Tartarin di Tarascona. Veramente clamorose sono alcune foto di vetta che a un raffronto paiono spudoratamente taroccate con Photoshop.

Promuovere la propria immagine va bene, visto che ciò che si fa deve essere trasformato anche in fonte di reddito, ma farlo attraverso esagerazioni o peggio, presunte menzogne, profittando della scarsa conoscenza del pubblico, degli sponsor o delle istituzioni, che pure lo sostengono finanziariamente, mostra scarso rispetto per gli altri e per i valori fondamentali dell’alpinismo. Ancor più pericoloso è il messaggio che filtra fra le comparsate di Confortola nelle scuole con l’esaltazione di un alpinismo macho fuori dal tempo e cattivo maestro. Non ho mai sentito il nostro prendere posizione su problemi ambientali eppure mi pare sia sostenuto anche dal Parco dello Stelvio ove si è cercato di captare impunemente e sotto gli occhi di tutti le acque del Lago Bianco per alimentare gli impianti di innevamento artificiale di Santa Caterina. Con tutti i suoi battage, sui media neppure una parola.

Simone Moro ha lamentato che un fuoriclasse come Ueli Steck sia stato processato al suo ritorno dalla solitaria alla parete sud dell’Annapurna e a Confortola siano state risparmiate critiche. Ma Simone, a parte che condivido il tuo moto di pietà per il furvasco, Steck era un grande che faceva cose grandi, era al centro della competizione spesso mascherata, e sempre esistita, del grande alpinismo. Come tutti i campioni era inevitabilmente sottoposto a severi “controlli”; viceversa, per quanto detto sopra, Confortola non li meriterebbe quasi.

Il messaggio che circola nelle conferenze di Marco presso le scuole, il grande pubblico o sui social è a mio avviso tossico e fuorviarne anche per una corretta visione delle imprese alpinistiche, ma pare che a lui questo poco importi. In una società dove persino i ministri dichiarano lauree e titoli mai conseguiti e persino presidenti di grandi Nazioni raccontano fandonie tutto appare normale. Se lo fanno loro e nessuno li controlla, volete che lo facciano gli sponsor del Marco che spesso puntano sulla quantità piuttosto che sulla qualità? Ha fatto tutti gli Ottomila? Chiedo venia: ne avesse fatto anche solo uno mentendo sugli altri, a mio avviso il problema non sta lì.
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La difesa 1
Confortola: “Continuano a rompere, ma il certificato c’è. Basta polemiche”
di Guido Sassi
(pubblicato su loscarpone.it l’8 agosto 2025)

In risposta al nostro articolo di ieri dal titolo “Marco Confortola, la fine degli Ottomila”, siamo stati contattati dall’alpinista valtellinese, che ha accettato di rispondere ad alcune delle contestazioni e delle perplessità riguardanti in particolare le salite ad Annapurna, Kangchenjunga e Nanga Parbat, provenienti da alcuni alpinisti.

“Mi dispiace perché tutte le volte c’è sempre una questione, non parliamo mai di cose importanti, di cose belle, ma dobbiamo soffermarci sempre sulle polemiche. Perché non parliamo della scuola [in Nepal, NdR], o dell’intervento di soccorso al Dhaulagiri dove ne abbiamo salvati sette? [Confortola fa riferimento al salvataggio di 7 alpinisti compiuto il 23 maggio 2017 dove appeso in long line, è riuscito nel recupero degli alpinisti bloccati tra i 5600 e i 7400 metri, NdR] Nella società oggi e anche nel mondo dell’alpinismo, quante polemiche”.

L’Annapurna
Il primo argomento affrontato è quello relativo alla discussa salita dell’Annapurna. “Il finanziere [Silvio Mondinelli, NdR] è andato in cima prima di me, l’ho incrociato a 100 metri dalla cima, lui scendeva e io salivo, poi ho incontrato Camandona e ancora io scendevo e lui saliva. Ma come fa uno a dire che non va in cima se ci si incrocia, si va e si viene”.

Mondinelli dice che vi siete incontrati sulla cresta mentre lui scendeva e da lì siete scesi insieme.
“No. Ci siamo incrociati, lui andava in giù e io in su. Poi, dopo, io l’ho raggiunto in discesa più tardi, quello sì”.

Le versioni contrastano.
“È la mia parola contro la sua”.

Hai una foto scattata più in alto rispetto a quella fatta da te in cresta?
“No. Io ho solo visto che lì la cresta è così, mi sembra che ha come un dente, un dente di squalo, ma poi va giù, giù dall’altra parte”.

Però lo hai detto anche tu che sei andato avanti dopo avere incrociato Mondinelli. Non hai scattato un’altra foto?
“Sono andato avanti ma poi la cresta va via in piano e poi quando è piatto è piatto. Purtroppo allora non c’erano i tracciatori, ora ho il mio tracciatore gps. Infatti sul Nanga mi ha dato ragione. Tutti gli himalayisti dovrebbero averlo, così nessuno dice più niente a nessuno. Il vero problema è il mal di pancia che si ha sempre: io non metto in dubbio quello che fanno gli altri, ma qua c’è l’invidia”.

Il Kangchenjunga
La conversazione prosegue con il Kangchenjunga, su cui invitiamo Marco a spiegare liberamente come è andata la spedizione.“Sul Kangchenjunga ho avuto un edema corneale, basta, finito. Poi lì c’è un orologio, ma l’orologio non va bene. Fate quello che volete, io ero in cima, poi fate quello che volete”.

Lo sherpa però, secondo quanto ci ha riferito Simone Moro, era di altro avviso e ti ha chiesto se volevi proseguire.
“Lo sherpa può dire quello che vuole”.

Ci sono anche altri alpinisti che sostengono la stessa cosa. Sei andato più avanti del punto che lo sherpa indica o no? Se sei andato più avanti fin dove sei arrivato?

A questi interrogativi Confortola ha preferito non dare risposta, ponendo l’attenzione su altri aspetti della spedizione e della salita del 5 maggio 2022, ma anche in questo caso ha preferito non entrare nei particolari. “Quello che puoi scrivere è che sul Kangchenjunga hanno raccontato cose che non sono corrette e ci sono delle cose che non sono corrette”.

Il Nanga Parbat
Il discorso poi si sposta sul Nanga Parbat, una salita contestata anche perché in un primo momento era stato lo stesso Confortola a dichiarare pubblicamente di non essere arrivato in vetta, con unpost del 7 luglio 2023.

Post di Confortola, 7 luglio 2023, dopo la salita al Nanga Parbat

“Vogliamo mettere in dubbio anche il club alpino pakistano? A questo punto mettiamo in dubbio tutto. Sul Nanga sono tre anni che continuano a martellare. C’è il certificato”.

Mondinelli ha solo evidenziato che in un primo momento sei stato tu stesso a dire di non essere arrivato in cima.
“Ma c’è il certificato di vetta e sono tre anni che rompono”.

La foto del certificato di vetta del Nanga Parbat che ci ha fornito Marco Confortola © Marco Confortola

Quando hai ricevuto il certificato?
“Un mese e mezzo dopo la salita. Perché quando sono andato al Nanga per fortuna mia moglie mi ha dato il tracciatore e mi ha detto di accenderlo. Per fortuna avevo quel coso lì, poi sono andato al club alpino pakistano e gli ho fatto vedere questo e loro mi hanno detto ‘maybe summit’ e gli ho detto vediamo. Questi signori hanno analizzato i dati e mi hanno mandato il certificato di vetta”.

Grazie al certificato di vetta del Nanga Parbat, che oggi possiamo pubblicare, rimane ufficialmente non attestata per la chiusura dei 14 Ottomila solo la salita al Kangchenjunga. Una cima non riconosciuta né dall’agenzia che ti ha supportato, né da un ente che lo possa certificare. Come puoi commentare questa situazione?
“I poteri forti sono nelle agenzie, li hanno le agenzie e io non ho avuto il certificato per quello che è successo con gli sherpa. Ti ricordo solo che qualcuno è stato minacciato con un coltello alla gola”.
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La difesa 2
Confortola risponde a Moro: “Sono stato in cima al Lhotse, mi vuole infangare”
di
Guido Sassi
(pubblicato su loscarpone.cai.it il 14 agosto 2025)

Dopo la pubblicazione della nostra ultima intervista a Simone Moro, Marco Confortola ci ha contattato per replicare, accettando di rispondere a tutte le domande poste, a parte quella relativa al rapporto con Nuri Sherpa (che lo ha accompagnato sul Kangchenjunga), argomento su cui non vuole tornare. 
Gli interrogativi rivolti nel corso della telefonata sono in parte legati alle questioni sollevate da Moro stesso e alle testimonianze che l’alpinista bergamasco avrebbe raccolto da altri colleghi e riferito a Lo Scarpone; in parte correlati alle dichiarazioni rilasciate da Thaneswar Guragai, il titolare dell’agenzia Seven Summit Treks. Questi non crede che Confortola sia stato in cima al Kangchenjunga, motivo per cui non ha rilasciato il certificato di vetta, unitamente al fatto che la guida alpina valtellinese non è stata in grado di fornire prove convincenti del raggiungimento della cima.

Sei stato in cima al Lhotse? 
Sono stato in cima, dopo il morto. A fianco delle corde fisse, sotto la cima, c’era un alpinista appeso, aveva una tuta rossa e il secchiello infilato nelle corde. Era in discesa, ma forse ora l’hanno tirato giù. Comunque sono stato in cima e Alex [Txikon, NdR] lo ha anche scritto. Silvia [la moglie di Confortola] lo ha saputo perché Alex lo ha scritto in un twitter. [Il twitter non è rintracciabile, mentre è ancora online l’articolo di Explorersweb del 2013 che lo cita come fonte da cui sono state ricavate le informazioni comunicate da Txikon, NdR].

Moro dice di avere parlato con Txikon e che lui gli ha riferito di averti incrociato sotto la cima. Era con altri alpinisti e ti hanno visto fermarti prima. Cosa rispondi?
Io sono andato in cima, poi la gente può dire quello che vuole. Mettiamo in dubbio la parola di Txikon? 

Credi che sia Moro a riferire male o che Txikon abbia cambiato versione?
Non lo so. Nonostante Moro stia cercando di infangarmi, non lo so perché se non lo sento parlare non so cosa dirgli. Io dico le cose perché le so, non per riportato. 

La tua foto di vetta del Lhotse è stata ritoccata? È vero che l’originale te l’ha data Jorge Egocheaga [un medico alpinista, summiter, che Confortola aveva incontrato al campo base, NdR]? In caso affermativo, perché l’hai utilizzata?
Questa è un’altra bugia, la foto l’ho fatta. Se uno ha fatto una foto in cima nella stessa maniera, per forza deve essere una foto rubata? Anche questa non è una cosa vera. Poi la foto può essere messa in dubbio, ma non mi interessa. 

Confortola in vetta all’Everest, 25 maggio 2004


Hai ricevuto da Egocheaga una foto?
Non mi ricordo se gliela ho chiesta, stiamo parlando del 2013.

La foto di vetta del Makalu: è vero che è stata fatta sotto la cima, come Moro ci riferisce da una conversazione con Arjun Vajpai? L’alpinista indiano ti avrebbe incontrato sotto la vetta mentre scendevi [e lo avrebbe riconosciuto perché aveva la foto con il 58 di Simoncelli, NdR].
Ero in cima al Makalu, poi c’era anche un po’ di nevischio, non era una giornata perfetta, non è che stai su a brindare. 

La foto con la bandiera potrebbe essere stata fatta sotto, dietro a una roccia? 
Qui tutti sono diventati geometri, un dieci centimetri avanti o indietro può essere cima o non cima, se guardiamo la geolocalizzazione, ma allora non so più chi ha fatto le cime. 

Non è una questione di diversi metri?
No, sto parlando di centimetri, non di metri. Ma qua stiamo andando a cercare il centimetro.

La foto del Dhaulagiri è stata scattata in vetta o sotto la vetta come dice Moro?
Sul Dhaulagiri esci dal canale e vai a sinistra, allora lì c’era un altro morto. Quello lì era disteso, mentre quello del Lhotse era appeso. Lì fai la foto. Magari vai avanti e indietro un metro o due metri, ma quella è la cima. Anche lì, il punto di geolocalizzazione bisogna chiederlo ai geometri. 

Moro parla di cento metri lineari dalla cima, è possibile?
Mah, non penso proprio. Lì è una cresta lunga. A meno che, quando uno arriva in cima, non debba farla tutta avanti e indietro per trovare il punto esatto, mi sembra che si stia esagerando con queste affermazioni. 

Sul Nanga Parbat ritieni che Lo Scarpone non abbia fatto informazione corretta. Noi abbiamo riportato le perplessità di Mondinelli che ha parlato di due tue versioni discordanti: una prima in cui affermavi di non essere arrivato in cima e una seconda in cui dicevi che la cima era stata raggiunta.
Il Nanga ha una cresta molto lunga, cercavo il famoso tubo di Messner, sognavo quello. La storia degli Ottomila l’ha fatta Messner, il resto non conta. Ha ragione il presidente del CAI [Antonio Montani, NdR] nel dire che la sfida, la corsa agli Ottomila è finita. Io so quello che ho fatto, poi se le persone ci credono bene, altrimenti fa lo stesso. Ho scalato per me, non ho chiesto niente a nessuno e anche dopo la tragedia del K2 mi sono rialzato grazie a tutte quelle persone che mi vogliono bene. Tornando al Nanga Parbat, bisogna ricordare che sono amputato e se rimango troppo tempo mi si congelano i piedi e poi mi fanno gli zoccoli. Non ho trovato quello che cercavo, pensavo di essere in cima e sono sceso.

Al tempo, nel post pubblicato, tu stesso però avevi scritto che ci tenevi a ribadire che non era la cima.
Sì, perché non avevo trovato il tubo, ma facilmente era stato il brutto tempo a coprire tutto. La mia fortuna è stato il tracciatore, che invece ha rilevato i dati. 

Tu saresti disposto a fornirci i dati del gps del Nanga, gli stessi forniti al club alpino pakistano?
Non ho più il contratto, quei dati non sono più in mio possesso, ma posso provare a vedere. [successivamente da Confortola ci è stata inviato lo screenshot di una traccia, non dettagliata, che evidenzia il percorso alla cima del Nanga Parbat e che qui pubblichiamo, NdR].

Lo screenshot che Confortola ci ha fornito a supporto della tracciatura satellitare della salita al Nanga Parbat © archivio Marco Confortola

Dopo la salita al Gasherbrum I, alcuni giornali hanno fatto dei titoli che sono stati equivocati: leggendoli, si poteva pensare che tu avessi dichiarato di essere stato in cima a tutti i quattordici Ottomila senza ossigeno. 
Ma io non l’ho mai detto, mai. Mai dichiarato di essere stato in cima a tutti i quattordici Ottomila senza ossigeno. 

Non hai pensato che era il caso di chiedere una rettifica?
No, ma lo scrivo anche sui libri che ne ho fatti con l’ossigeno. Quando ho fatto l’Everest da nord e Mondinelli e compagnia sono tornati indietro, io sono andato avanti con l’ossigeno. L’ho sempre detto, ma poi non posso rincorrere tutti, non posso leggere tutto nel dettaglio. Che si sono dimenticati Mario Vielmo invece l’ho fatto presente, con tutta la fatica che abbiamo fatto insieme. 

Vuoi aggiungere qualcosa sulle discrepanze che ti vengono attribuite rispetto a diverse cime?
A questo punto consiglierei a tutti gli alpinisti di avere sempre con sé un tracciatore satellitare, per evitare tutte queste polemiche sterili. E così ti dicono esattamente se andare avanti di un metro, dove fermarti. Questa è l’assurdità di dove siamo arrivati adesso. 

Per avere la certificazione di un Ottomila oggi bisogna produrre delle evidenze: foto, tracciature, avere testimoni. Ne sei cosciente, o ritieni sia ingiusto che – per esempio sul Kangchenjunga- l’agenzia non ti abbia dato il certificato di vetta?
Il tracciatore io ce l’ho dal 2023, per le foto non è sempre così semplice: a volte non ci sono le condizioni, a volte devo pensare ai miei piedi. Sul Kangchenjunga vedevo a un metro. Non ho avuto problemi con l’agenzia, non metto in dubbio il loro lavoro, ma ho avuto fortuna che sono tornato vivo. 

Perché non hai fatto il selfie come gli altri alpinisti?
A quelle quote manca l’ossigeno, non si è così lucidi, ho avuto un edema corneale. Non ho fatto la foto precisa, poi lo so che altri hanno fatto foto più precise. Io quello che non capisco è perché qualcuno contesti in modo così strumentale, come nel caso di Mondinelli con l’Annapurna. Anni fa esce un film sull’Annapurna con me e Mondinelli ed era tutto contento, ora invece è cambiato tutto.

Saresti disposto ad accettare un confronto pubblico con Mondinelli e Moro, come proposto da loro?
Mi spiace ma non ho tempo da perdere. 

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Breve filmato dell’arrivo di marco Confortola in vetta al Gasherbrum I, 20 luglio 2025

La solidarietà
Riceviamo e pubblichiamo con piacere la lettera di un socio del CAI Valfurva che, con parole appassionate, prende posizione dopo le dure dichiarazioni di Reinhold Messner su Marco Confortola.

Dalla Valfurva una voce per Confortola: “oltre le polemiche, la sua montagna è esempio di vita”
di Gian Luca Gasca
(pubblicato su loscarpone.cai.it il 27 agosto 2025)

Riceviamo e pubblichiamo con piacere questa lettera inviataci da Valeriano Antonioli, socio della Sezione CAI di Valfurva, che nasce dal desiderio di rendere omaggio alla figura di Marco Confortola dopo le recenti dichiarazioni di Reinhold Messner che ha parlato di Confortola con parole dure e senza usare mezze misure. L’autore della lettera offre una testimonianza intensa che va oltre la polemica, e tiene a ricordare il valore umano, sportivo e culturale di Confortola e il segno che la sua storia ha lasciato nel mondo della montagna.

Gentile direttore,
ho letto con sorpresa e amarezza le recenti parole di Reinhold Messner nei confronti di Marco Confortola. Nessuno può mettere in discussione la grandezza di Messner e ciò che ha rappresentato per l’alpinismo, ma credo sia doveroso ricordare anche la straordinaria storia di Marco.

Conosco Marco da quando è nato: come lui sono originario della Valfurva e, da membro del CAI, ho potuto seguirne negli anni le imprese umane, sportive e di soccorso alpino. La sua vita è sempre stata intrecciata alla montagna, vissuta non come una gara di record ma come scuola di lentezza, consapevolezza e rispetto. La sua filosofia di “slow mountain” ha ispirato molti di noi.

Da sinistra, Silvio Mondinelli, Cristian Gobbi, Michele Enzio e Marco Confortola in vetta allo Shisha Pangma, 9 maggio 2006

Nel 2008, sul K2, Marco ha conosciuto il lato più tragico dell’Himalaya: ha perso undici compagni di salita e ha subito il congelamento totale dei piedi. A seguito di quell’incidente gli sono state amputate tutte le falangi, passando da una scarpa numero 43 a una 36 per entrambe. I medici dissero che non avrebbe più camminato normalmente. Dove molti si sarebbero fermati, lui ha trovato la forza di ricominciare: con sudore, fatica e resilienza è tornato prima a camminare, poi a scalare, fino a raggiungere – una dopo l’altra – tutte le quattordici vette oltre gli ottomila metri.

Ed è qui che sta, a mio avviso, il suo più grande successo: essere riuscito, nonostante l’handicap fisico, nel corso di più di vent’anni, a realizzare il suo grande sogno, ovvero arrivare in cima a tutte le vette degli Ottomila. Diventando così – credo – un esempio straordinario di resilienza, volontà e caparbietà.

Negli anni, accanto alle sue spedizioni, Marco ha contribuito con generosità anche al soccorso alpino e alla diffusione della cultura della montagna, raccontandola come palestra di vita e strumento di crescita interiore. Le discussioni sui dettagli tecnici delle ascensioni non possono oscurare l’essenza della sua testimonianza: quella di un uomo che ha saputo trasformare il dolore in rinascita, l’handicap in forza, e che continua a trasmettere non solo amore per la montagna, ma anche valori di solidarietà, altruismo e impegno umano.

Messner ci ha insegnato che “non conta dove vai, ma come ci vai”. È proprio questo che Marco ha dimostrato: il “come” fatto di sacrificio, passione autentica e capacità di rialzarsi dopo un destino che pareva segnato.

Per questo, al di là di ogni sterile polemica, credo che la testimonianza di Marco Confortola meriti rispetto e riconoscenza: non solo come alpinista, ma come esempio umano.
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Lista degli Ottomila di Marco Confortola
Gasherbrum 1 8068 m, 20 luglio 2025 (foto presente altrove)
Nanga Parbat 8126 m, primi di luglio 2023 (senza foto)
Kangchenjunga 8586 m, 5 maggio 2022 (foto assente dopo essere stata contestata)
Gasherbrum II 8035 m, 18 luglio 2019
Dhaulagiri 8167 m, 20 maggio 2017 (senza foto)
Makalu 8463 m, 23 maggio 2016 (foto contestata perché manipolata)
Lhotse 8516 m, 21 maggio 2013 (foto contestata perché fotomontaggio)
Manaslu 8163 m, 30 settembre 2012
K2 8611 m, 1 agosto 2008
Broad Peak 8027 m, 12 luglio 2007
Cho Oyu 8201 m, 2 maggio 2007
Annapurna 8091 m, 12 ottobre 2006.
Shisha Pangma 8027 m, 9 maggio 2006.
Everest 8848 m, 25 maggio 2004.
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Elogio della dissimulazione
di Sylvain Jouty
(tratto da Dal settimo grado al settimo cielo, antologia da Passage-Cahiers de l’alpinisme, Zanichelli, 1982. Originariamente su Passage 3 (1979), con il titolo Éloge de la dissimulation, traduzione Studio Feinaigle, Verona).

Huqiuzi dice: «Qual è la meta suprema del viaggiatore? La meta suprema del viaggiatore è di ignorare dove sta andando. La meta suprema di colui che contempla è di non sapere più cosa egli contempla (Lieh Tzu, Il Vero Classico della vacuità perfetta)».

Accettare o rifiutare l’ideologia, non è qui l’essenziale
Di tutti i discorsi che io sento oggi sull’alpinismo, nessuno mi convince, nessuno mi trattiene. Dal più tradizionale al più anticonformista, tutti si iscrivono nel quadro di una scelta binaria che io non accetto; all’ingrosso (e con tanto di virgolette), accettare l’ideologia corrente dell’alpinismo, la politica delle sue istituzioni, l’evoluzione che si disegna — o rifiutarle, anzi combatterle, proporre delle nuove interpretazioni, costruire una nuova concezione dell’alpinismo. Da un lato mi si parlerà di evoluzione necessaria, dall’altro di crisi e di inquietudine. In tutti e due i casi, io non mi sento molto interessato. Non che io non abbia qualche opinione sulle questioni di cui si discute nel piccolo mondo degli scalatori: ruolo dei primattori, finanziamento delle spedizioni, ruolo delle guide, chiodi e cunei, ecc. Non che io non esprima queste opinioni. Ma l’essenziale non è questo (l’essenziale dell’alpinismo, intendo, come lo concepisco).

Bisogna cambiare discorso
Quando mi si dice che l’alpinismo è in crisi, quando mi si parla della necessità di formulare i problemi, di smascherare l’ideologia, io non posso che rimanere scettico. Prima di cercar di parlare della «verità» dell’alpinismo (in linguaggio di verità d’oggi, cioè in linguaggio universitario), forse sarebbe interessante guardare perché gli scalatori di oggi abbiano tanta voglia di parlare di se stessi, delle loro motivazioni, delle loro azioni, e di fare in modo che gli altri ne parlino. Perché in questo campo accade qualcosa di nuovo. Gli alpinisti prima prendevano la penna per una sorta di derivazione libidinale dall’azione verso la scrittura. Prima, tutto andava da sé: l’alpinismo, e il modo di parlarne; oggi non è più così. Gli alpinisti sono divenuti vergognosi. Vergognosi, talvolta, di partecipare a delle manifestazioni in effetti dubbie, anzi, più generalmente, al sistema di uno sport che, prima di essere ecologico, è stato militare-patriottico (seguendo in questo, con una rara elasticità d’adattamento, l’evoluzione delle mode). Vergognosi, soprattutto, di doversi esprimere nel quadro di un discorso alpinistico rigido, dai connotati contestabili. Il discorso alpinistico classico è in effetti molto rigido. Gli alpinisti sono cambiati; non l’alpinismo (almeno, non nella stessa misura), né la sua necessità di discorso. Le metafore militar-sessuali intimidiscono un po’ gli scalatori di oggi; difficile, dunque, parlare della montagna nel contesto sclerotizzato del racconto di imprese (salvo inventarlo di nuovo, cosa che non è da tutti), e tuttavia, bisogno imperioso di parlare o di scrivere sulla montagna. L’alpinista — ogni alpinista — sente un giorno o l’altro qualche fremito nella stilografica; ma il quadro normale d’espressione, il racconto di imprese, gli sembra ormai precluso. Da qui la tentazione di inventare di nuovo un discorso attuale sull’alpinismo, in cui non sia più (o più solamente) questione di Eroici-Sforzi-per-Vincere-l’Ultimo-Problema, o di Stringere-i-denti-per-resistere, o di Gioia-ineffabile-della-vetta, ecc. Soltanto, ecco: questo nuovo discorso vuole anch’esso (e più ancora del vecchio) esprimere l’alpinismo, nella sua realtà e nella sua verità. Il semplice racconto degli avvenimenti appare antiquato, e allora tutto ciò non è possibile che in un modo: la teoria, l’ideologia. Era vetusta? Poco importa, cambiamola…

Confortola in vetta al Gasherbrum II, 18 luglio 2019

Allora in modo di parodia si potrebbe dire questo: l’alpinismo di oggi esiste, l’ho incontrato in Passage. Ciò che si tenta di elaborare qui è un nuovo linguaggio sull’alpinismo – un linguaggio più «alla moda». Riferimenti di stile nei best seller intellettuali; voglia di urlarne, voglia di dire, di chiarire, di far dire, di collegare tutto all’alpinismo. Vi è qui il richiamo un po’ fosco dell’analizzato che domanda l’interpretazione. Molto narcisistico tutto ciò… Con la concomitante smania del commento; al limite, tutto è commento, note, e la montagna e l’alpinismo non sono più che dei riferimenti lontani, sempre più nebbiosi. Si va verso un alpinismo concettuale?

All’incirca, dunque, un adattamento dell’alpinismo e del suo discorso «vetusto» al paesaggio intellettuale di oggi: uno sforzo per renderlo più credibile, applicarlo alla sua realtà.

Ma è così facile?
Non posso impedirmi di essere impacciato da questa volontà di far «confessare» l’alpinismo. Non che io pensi che sia del dominio dell’ineffabile – niente a che vedere con il Tao di Zhuangzi! Al contrario, c’è molto da dire del discorso alpinistico. Ma si crede di poter così facilmente respingerlo, o cambiarlo? Coloro che vogliono rinnovare questo discorso in effetti rigido e vecchio, non valutano forse nel loro giusto peso le costrizioni di certe metafore; e forse bisognerebbe, prima, cambiare il proprio comportamento sul terreno… Questo discorso è uno degli elementi dell’alpinismo, e non una sovrastruttura che lo copre. E, a questo titolo, poco importa che esso sia vecchio o nuovo; ciò che conta è che, come tutti i discorsi «seri», miri a un effetto di verità. È qui la debolezza e allo stesso tempo la forza dell’alpinismo, «sport» in cui l’impresa nasce dal racconto che ne è fatto. In questo spazio fra gli avvenimenti vissuti e i loro racconti, c’è di che giocare: di che smuovere l’alpinismo.

In primo luogo smuovere l’alpinismo
L’alpinismo poggia su una finzione – vale a dire, quella della differenza radicale fra l’alta quota e il mondo in basso. «Non si possono nutrire cattivi pensieri al di là di una certa altitudine», diceva François Mauriac, che non aveva mai partecipato ad una spedizione. Si troveranno delle metafore simili e delle altre ancor più gustose, ma sotto penne meno illustri, lungo tutta la letteratura alpina. L’alpinismo poggia su una finzione – e il saperlo non gli impedisce l’azione. Chi crede all’intrigo di un romanzo poliziesco? Ciò non impedisce di gustarne la lettura. Questo spiega, d’altronde, come questo mito possa continuare a funzionare anche nei massicci più frequentati.

La foto contestata di Marco Confortola in vetta al Makalu, 23 maggio 2016

È forse bene formulare qualche verità ovvia. L’alpinismo è un fatto sociale (e, come tale, sarebbe bene astenersi dal giudicarlo: «c’è», come diceva Hegel di fronte alla Jungfrau). Ed ecco il busillis: l’alta montagna, luogo normale d’evoluzione dell’alpinismo, è ormai uno spazio di rilevanza sociale; non c’è più differenza tra la montagna e il resto (come chiamarlo?), mentre è troppo facile mostrare che l’alpinismo è costruito su questa opposizione. C’è sempre meno natura e alta montagna da scoprire o da percorrere, se non a mo’ di fantasticheria. Dove trovare ormai lo stato selvaggio? Sicuramente, ciascuno di noi ha ancora i suoi paradisi segreti; ma, fenomeno nuovo, li si custodisce gelosamente, mentre prima li si esibiva. Ciò non impedisce l’affermarsi di un movimento irreversibile, nel quale i veri avventurieri di ieri nutrono i miti che fanno la fortuna degli operatori turistici di oggi. Così, il più organizzato dei viaggi organizzati è sempre un’avventura; nel discorso pubblicitario, si intende, ma anche nello spirito di coloro che lo vivono. È la stessa cosa in montagna; l’«avventura», lo «stato selvaggio», realmente vissuti da pochi, divengono dei miti che mascherano una realtà socio-economica complessa e in sviluppo, nella quale questi due concetti sospetti hanno poco da fare. E allo stesso modo l’avventura che noi viviamo o che crediamo di vivere oggi poggia sui miti e i racconti degli scalatori di ieri (e in questo l’alpinismo è un’attività eminentemente letteraria).

Ma l’alpinismo non è solitario!
La storia dell’alpinismo – e il fatto che l’alpinismo abbia una storia – smentiscono radicalmente questa pretesa alla «singolarità dell’Altitudine». Poiché essa non è altro che questa introduzione sempre più grande dell’alta montagna nell’economia, nel capitale, nel sistema – chiamatelo come volete. È la socializzazione progressiva di un territorio al principio «terrà incognita» – anzi nemmeno: prima del XVIII secolo l’alta montagna è qualcosa di cui non si è neppure percepita l’esistenza. È questo movimento che fonda la storia dell’alpinismo, le sue imprese, i suoi miti e le sue giustificazioni.

E il suo progresso è il suicidio…
Ecco dov’è la verità dell’alpinismo: nel suo perpetuo crollo. E questo movimento storico ha spesso vissuto se stesso come crisi, proprio mentre trovava scarpe per i propri piedi – intendo dire razionalizzazione a volontà. Già nel 1880 alcuni trovavano che niente era più come prima, c’era troppa gente nell’Alpe, si avvicinava l’epoca dei grandi incidenti, le Alpi erano esaurite, lo sport alpino andava sviandosi. Allora occorre evitare di cadere in trappola, e di dire che allora era l’ordine del fantasma, mentre oggi è la realtà. Non si dirà, no, ciò che è ancora fantasma, che le Alpi saranno sempre abbastanza spaziose (ciò che in certa misura sarebbe vero). Bisogna piuttosto vedere che l’alpinismo avanza su una perenne sconfitta: ogni «prima» vi significa, per chi viene dopo, la dispersione di un patrimonio. Il progresso non è altro che questo movimento, e parlare di progresso è una scelta: quella dell’ottimismo. Quando questa evoluzione ci svia troppo si parla piuttosto di decadenza… Così gli arrampicatori sono sempre spinti in avanti, dato che le possibilità di avventura sono state tutte distrutte dal discorso. Effettivamente, una cima non è conquistata, una conquista non è effettiva che nell’atto di essere detta e creduta. Ciò che di nuovo è come dire che la realtà della conquista non ha nessuna importanza.

Probabilmente questo movimento è irreversibile: non i soli alpinisti sono in causa, ma tutto il peso sociale che tende a investire la montagna. Esso avrà certo termine quando non ci sarà più differenza fra l’alta montagna e il resto dello spazio sociale: quel giorno, l’alpinismo non avrà più grande interesse. Certo ci saranno sempre neve, rocce, ghiaccio. Credete davvero che basterà?

Confortola in vetta al K2, 1 agosto 2008

La montagna non basta
Cosa significa, in concreto, una tale evoluzione? Facile da immaginarsi: un alpinismo che non si differenzia più in nulla o quasi dagli altri sport, con le grandi stelle da una parte e la massa di ammiratori-praticanti dall’altra. Un carrierismo e un arrivismo obbligatori per i giovani scalatori. Delle montagne che non nascondono più nulla di sconosciuto, più nessuna vera avventura, in cui si compra ogni rischio, ogni sicurezza, in cui tutto è previsto grazie all’azione devota delle burocrazie alpine. Presto senza dubbio, un giorno o l’altro in ogni caso, legislazioni, interdizioni, obblighi vari, come classifiche, concorsi, premi già più o meno ufficiosi. In parole povere, la perdita del solo vero privilegio che possedeva l’alta montagna: l’essere uno spazio non completamente socializzato, un piccolo isolotto allo stato selvaggio nel cuore della nostra vecchia Europa, un luogo in cui non dover rendere conto a nessuno. Ecco ciò che termina sotto i nostri occhi. Lottare contro? Tutt’al più si potrà, per scelta personale, vivere l’alpinismo altrimenti. Amare la montagna, la scalata, è una cosa; credere all’alpinismo, prenderlo sul serio, è un’altra. Forse è necessario, al contrario, attaccarlo nel suo punto debole: il rapporto tenuto tra azione e rappresentazione.

Allora, giocare?
Credere all’alpinismo? Si crede di vedere dei fatti, dell’azione, della sofferenza, dell’angoscia, delle gioie; ma non si fa che leggere dei segni. L’alpinista mette sempre troppa carne al fuoco: la sua avventura si sposta tra due poli, che definiscono molto bene i due significati della parola «gioco». Messa in gioco e messa in scena: l’investimento – cioè l’azione e il rischio – poi la sua rappresentazione in un discorso. Mai uno senza l’altro. La prova? Cercate d’immaginare un alpinista che non lascia alcuna traccia: anche se avesse fatto le più grandi ascensioni del mondo, egli non esisterebbe. Tutto sommato, d’altronde, esiste solo il discorso dell’alpinismo: cronaca alpina, racconti, fotografie, discorsi di corridoio, tale è la sola base reale, utilizzabile, di chi vuol parlare dell’alpinismo (salvo volerlo cogliere come fenomeno economico e sociale). L’avventura non esiste che dal momento in cui chi la vive la rappresenta, cioè l’inventa sul filo di un discorso: poiché è nel racconto che essa prende forma. Nel fuoco dell’azione non c’è prodezza o eroismo. È per questo che il discorso dell’alpinismo ha tanta importanza, che ci sono tante riviste, tanti libri. Henri Béraldi non aveva affatto torto nel pensare che un alpinista esiste veramente solo a condizione di scalare e di scrivere; vero è che in questo grande bibliofilo doveva trattarsi soprattutto di una deformazione professionale. Un primato di cui non resta alcuna traccia non è un primato; è per questo che, del tutto legittimamente, l’alpinismo inizia solo con la rivendicazione dell’ascensione: gli Incas sui vulcani boliviani, i cercatori di cristalli e gli studiosi di geodesia sulle vette delle Alpi e dei Pirenei sono al di fuori del quadro. L’alpinismo nasce con la coscienza di conquistare, e con la necessità di raccontare: Louis François Élisabeth Ramond, Horace-Bénédict de Saussure, Marc-Théodore Bourrit (e forse, in questo senso, un giorno finirà).

Scrivere per esistere, decriptare o deludere?
Per gli stessi motivi, il racconto alpinistico stenta a uscire dal realismo. Infatti, narrare ascensioni è imparentato abbastanza da vicino con la pornografia: troviamo nei due casi, a stadi diversi è vero, lo stesso desiderio di aderire al reale, e la stessa incuranza dello stile e dell’opera. Che sia scritto bene o male, il racconto ha lo stesso valore, perché il suo effetto non è letterario a dirla schietta, ma prodotto dall’identificazione fantasmatica del lettore nella situazione descritta. Non si tratta di scrivere un testo, ma di far partecipare il lettore dall’interno a qualcosa che gli si presenta come iperrealista. E, in entrambi i casi, questa iperrealtà non funziona che operando una scelta rigorosa e monotona nella serie di situazioni e rappresentazioni possibili, confermando così il suo statuto immaginario e la condizione stessa della sua forza.

Confortola in vetta al Manaslu, 30 settembre 2012

Ecco perché la scrittura degli alpinisti stenta tanto ad uscire dal reale, a inventare; perché i romanzi di montagna, salvo rare eccezioni dovute a veri scrittori, partono da storie reali trasposte; perché i saggi tentano sempre di imporre la loro verità all’alpinismo (ed io sono caduto nella trappola); perché le sole finzioni facilmente accettate (le sole, o pressappoco, che si incontrano nelle riviste di montagna) sono l’anticipazione o il poema, pegni, nella loro forma stessa, di irrealismo. Ecco perché, anche, gli alpinisti hanno sempre voluto circoscrivere l’enigma dell’alpinismo; le formulazioni, le realizzazioni sono variabili, ma c’è sempre questa pretesa di trovare la verità dell’alpinismo. Cosa che senza dubbio non è che un altro modo di essere realisti.

Il vissuto, la realtà, non dispongono di alcun privilegio sulla rappresentazione. L’alpinismo, ed è là la sua ricchezza, è un campo in cui nessun criterio permette di distinguere il falso dal vero, l’esagerato dal ragionevole, la favola dal veritiero – poiché questi non sono che degli effetti del discorso, poiché ogni racconto suppone la veracità, poiché l’alpinista stesso, all’occorrenza, crede al suo intreccio.

In ogni caso non credere più
Di fronte a questa situazione, la tendenza naturale è di cercare di vederci chiaro. Io non ho voglia di chiarire; preferirei confondere le carte. Buona o cattiva, «vera» o «falsa», l’alpinismo avrà sempre un’ideologia o qualcosa – chiamatela come volete – che ne fa le veci; esso si investirà sempre in discorsi la cui verità sarà sempre «indecidibile» – ed è ciò che fa la sua forza.

L’essenziale mi sembra che sia preservare le possibilità di investimento affettivo sulla montagna; e ciò è attuabile solo se tutti i discorsi e tutti i comportamenti vi sono possibili, anche i più contraddittori. Cosa che presuppone che non si creda più forzatamente che ci sia adeguamento tra una realtà – l’alpinismo – e la sua rappresentazione nel discorso; che, tra i due, possa inserirsi un gioco ed uno sfalsamento: dissimulazione, disinganno. Ingannare è un piacere; disorientare anche.

Il discorso di certi «nuovi alpinisti», per quanto innovatore, serve sfortunatamente troppo spesso da garanzia a una pratica dell’alpinismo molto tradizionale, ad un’accettazione di fatto della sua evoluzione, per quanto denunciata a parole. Temo che, come ogni discorso di «liberazione», una nuova ideologia alpina rischi di servire da maschera all’altra evoluzione che vive l’alta montagna, socioeconomica quella, e che tutti gli alpinisti hanno interesse, in un certo senso, a dimenticare, per poter continuare a credere nell’alpinismo. Un po’ come i parchi nazionali, presentati al pubblico come una preservazione della natura, sono stati in realtà una nuova tecnica, più sottile, per socializzarla ed «economizzarla». Un po’ come lo sci di fondo, venduto dai pubblicitari e dalle stazioni sciistiche come un ritorno alla natura, è soprattutto un apparato che attira nelle loro reti un’altra clientela, meno ricca o più anziana. In entrambi i casi, l’ideologia del ritorno alla natura, della liberazione di uno spazio violato dalla società, è servito a nascondere esattamente il contrario: una presa in carico accresciuta di certi campi da parte della società.

Il mio problema è di ordine pratico. Esso riguarda la capacità che avranno o meno gli alpinisti di conservare le possibilità di gioco (in tutti i sensi di gioco e in tutti i sensi di senso, come direbbe un patafisico) che l’alta montagna permette. E, per preservare queste possibilità, è essenziale, secondo me, non «credere» più all’alpinismo.

Dunque mentire (per azione o per omissione)
Bisognerebbe tentare qui la riabilitazione dei troppo screditati mitomani dell’Alpe. Impossibile creder loro, impossibile sapere se e quando essi dicono il vero. Così il mitomane rappresenta perfettamente uno dei due poli dell’alpinismo, quello della rappresentazione, senza alcun supporto reale nel suo caso. L’altro polo esiste? Esso è in ogni caso ancora più paradossale: l’alpinista che vivesse le sue avventure, ma si preoccupasse così poco delle conseguenze sociali delle sue azioni (poiché l’alpinismo è anche un modo di riuscire nella vita) da non farne parola, restando per sempre sconosciuto. Come il mitomane, egli rappresenta uno stato estremo e insostenibile. Alcuni hanno potuto avvicinarvisi; penso a persone come Valentine John Eustace Ryan, o Georg Winkler. Chiunque si ponga tra questi due stati-limite può avere il titolo di alpinista.

Questa dialettica dal reale al racconto crea la storia alpina, e quindi instaura una certa verità, del resto sempre rivalutabile. Ma allo stesso tempo, essa ci dispensa dal considerare come unici legittimi i discorsi «verosimili»: la verosimiglianza è fondata solo statisticamente. Ciò che manca invece all’alpinismo sono la dissimulazione e la menzogna, che perturbano il suo funzionamento economico. Perché, è interessante notarlo, la mercantilizzazione dell’alta montagna si basa, anch’essa, su un effetto di verità, cioè sul postulato fondamentale che gli scalatori dicono il vero: ecco la spiegazione di questo fenomeno che impensierisce tanto i non alpinisti, per cui si crede sempre a uno scalatore sulla parola. Senza questo tacito accordo, non ci sarebbe alcun mezzo di vendere l’alpinismo (comunque, alcuni oggi vanno forse troppo lontano, e in questo c’è un pericolo per tutti coloro che sono implicati nel marketing alpino: esagerando troppo, niente più effetto di verità…).

Nella comunità alpinistica, dato che ci sono pochi criteri misurabili per valutare il «valore» degli uni e degli altri, la maldicenza generalizzata e la fanfaronata – oltre ad altri sistemi più sottili di messa in valore – sono di rigore. Verso l’esterno, verso i non alpinisti, la favola e l’esagerazione (quando non è menzogna pura e semplice) sono moneta corrente. Ma queste truffe e queste menzogne si basano sempre su una credenza molto profonda nella verità del discorso. Curiosamente, una menzogna che sarebbe molto mal tollerata tra alpinisti è accettata quando è diretta ai fabbricanti, o al pubblico di una sala di conferenze…

Ma mentire in verità…
La svalutazione costante delle ascensioni non ha altra origine. Essa non nasce che accessoriamente dai problemi materiali (numero di chiodi, ecc.), essendo piuttosto prodotta dalla rappresentazione: anche senza aver letto la relazione non si affronta allo stesso modo quella che si sa essere una «seconda», o una «prima». Salire sul Montenvers verso il 1800 rappresentava probabilmente una «prodezza» dello stesso ordine del monte Bianco o del Grépon oggi; come dire che la difficoltà delle ascensioni è prima di tutto psicologica, e che la conquista di una cima o di una parete ha luogo prima di tutto nella testa dello scalatore. Il solo cambiamento reale che occasiona la conquista di una cima è che il suo interesse si trova sminuito per chi viene dopo: ecco l’origine della svalutazione. L’alpinismo funziona su questa piccola menzogna, ed ognuno ha fatto l’ascensione più difficile delle Alpi: resta da sapere se si tratta di quella del 1938, del 1953 o del 1964. Questo sistema permette a ciascuno di ritrovarcisi.

Senza questa rappresentazione di se stesso che lo fonda, e che lo integra al sociale, l’alpinismo conoscerebbe forse ancora delle vette vergini, o qualcosa che ne faccia le veci. Creare, qui o là, una riserva di cime inviolate? I Norvegesi sono su questa via, sembra… Ma per quale interesse? Una tale creazione non avrebbe probabilmente altro effetto degli sforzi fatti per «preservare» la natura: l’apparenza di una protezione, la realtà dello sfruttamento di un mito. E poi, la mercantilizzazione della montagna è inevitabile, e noi vi partecipiamo tutti.

Per uccidere il mito
meglio allontanarsene. Le regole del gioco alpinistico, io mi prendo il diritto di considerarle mie solo a mio arbitrio. La libertà dell’Alpe, poco importa che sia reale o fantastica, è da inventare nuovamente, e ognuno deve costruirsi la sua versione dell’alpinismo: per questo, non c’è alcun bisogno di guida topografica. Nulla serve ad aggiornare l’ideologia alpina se si continua a rispettarla sul terreno. Nulla vi obbliga a rispettare la reputazione delle vette e degli itinerari. Si fa la Walker perché è una bella ascensione, o perché è la Walker? E, nel suo stato attuale, la Walker è una bella ascensione? Non si è forzati a rispondere negativamente, ma almeno ci si può porre la domanda. Nulla vi obbliga a credere alle relazioni, a prendere sul serio l’idea stessa di vetta o di via: varianti selvagge, l’errare senza nome, itinerari diagonali e idioti… L’itinerario non è che una possibilità in una parete, mentre con la tecnica attuale si può passare ovunque o quasi; semplice questione di voglia. Nulla impedisce di pensare che una ritirata, una meta di ripiego possano essere altrettanto piacevoli di una scalata cosiddetta riuscita.

E ritrovare la libertà, la vera, l’incredibile
Nulla impedisce di ritrovare la libertà di scalare e di parlare, di seguire quella fessura invece dell’altra, o di cambiar parere. A condizione di preferire, alle montagne-riferimento, alle ascensioni-che-bisogna-aver-fatto, le proprie voglie ed i propri impulsi… Cessate di credere al taylorismo alpino: orari obbligatori, tante escursioni all’anno, tali percentuali di prove e di insuccessi, al di là o al di qua dei quali non si è un «buon alpinista» – categoria sublime d’innocenza. Nulla vi obbliga a dichiarare le vostre ascensioni a Chi-di-dovere, a passare di fronte alle istanze di un qualsiasi club accademico che vi conferirà un brevetto di membro dell’élite alpina. Nulla vi obbliga ad obbedire al terrorismo tecnico che vi dice che bisogna usare la tale super-piccozza, né al terrorismo «etico» – come esso stesso si nomina – che vi detta ciò che bisogna fare in tale via (non tagliare gradini, passare senza chiodi, senza corde fisse, senza bivacco). Questo non riguarda che voi, dal momento che non intralciate gli altri. Perché si legittima il rischio, talvolta immenso, per l’élite, e lo si vieta agli altri? Nulla vi impedisce di sognare o di immaginare che voi avete fatto questa ascensione, anzi di farlo credere agli altri. Questo ha importanza solo se si prende sul serio la propria carriera alpinistica, ed è questa possibilità che bisognerebbe poter distruggere. Vorrei che non si potesse più credere agli alpinisti.

Ciò che mi auguro è che si sviluppi una pratica «selvaggia» della montagna (che forse già esiste, ma che non può far parlare di sé perché è obbligatoriamente al di fuori del discorso alpinistico), nella quale il rapporto tra la realtà e la sua rappresentazione sia falsato, nella quale esistano, finalmente, delle possibilità di gioco e di scelta. La competizione non è che una possibilità fra i molti percorsi concepibili dell’alta montagna; ma essa ha il torto di uccidere tutti gli altri e di imporre la sua legge a coloro che non sanno che farsene. Bisognerebbe saper riscoprire i piaceri della dissimulazione e della menzogna. Viva i mitomani, viva anche coloro che, come Ryan o Winkler, disdegnano di lasciar traccia. Gettate la vostra lista di ascensioni nel cestino – o falsificatela.

Sylvain Jouty

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La menzogna
di Alessandro Gogna

Senza entrare nel merito della questione se Marco Confortola dica o non dica il vero, né perfino se lo dica solo parzialmente, e a prescindere dalle voci qui sopra trascritte, ritengo utile che in queste ultime righe del presente post si parli della menzogna in linea generale, anche se già in passato GognaBlog ha affrontato il tema (vedi https://gognablog.sherpa-gate.com/alpinismo-e-mistificazione/).
Già il geniale articolo di 46 anni fa di Sylvain Jouty (sopra riportato) provocava volontariamente il mondo alpinistico sostenendo che probabilmente l’uso della menzogna era l’unico modo per rigenerare quella luce di fantasia e di creatività che le imprese alpinistiche di quel tempo secondo lui avevano perduto. Una mistificazione della realtà, dunque, che poteva essere voluta e premeditata oppure semplicemente indotta, quasi in buona fede, da una serie di continui autoconvincimenti psicologici.

Il livello 1 della menzogna è l’omissione di informazioni relative al tema di cui si sta trattando. Spesso l’omissione può essere giustificata dal contesto particolare in cui la si pratica, per esempio per mancanza di spazio o di tempo, soprattutto per la necessità, a volte, di essere concisi.

Marco Confortola ( a sinistra) e Gianni Morgani.

L’omissione può essere volontaria o involontaria. Se volontaria è equiparabile a una menzogna di livello 2, perché è ovvio che l’esternazione delle informazioni che invece sono taciute potrebbe danneggiare o inficiare la tesi di chi sta parlando o scrivendo. E’ da notare però che l’omissione può essere praticata anche da chi indaga e non solo da chi è indagato…
Se involontaria si resta nel campo del livello 1, ma occorre comunque capirne il perché. Qui è in gioco la memoria, ma anche il non essere preparati ad affrontare il giudizio di chi all’inizio viene ritenuto per principio dalla propria parte, quando cioè venga meno la fiducia tra individui appassionati alla medesima questione e affratellati dalla comune capacità di soffrire per raggiungere un obiettivo. Una volta si diceva “perché la parola di un alpinista è sacra”. L’assenza di memoria può essere effettivamente un non aiuto, se non un danno, in taluni casi. Come pure l’assenza di fiducia reciproca. L’eventualità di non essere creduti perché smemorati o perché troppo naif, in questi ultimi decenni è diventata sempre meno remota. Si è affermato il principio che per la convalidazione di record occorrano le cosiddette prove e, soprattutto, che tutti debbano adeguarsi alla nuova esigenza.

L’omissione, quando verificata, può essere neutralizzata con la fornitura di ulteriori informazioni in un secondo o anche terzo tempo. Oggi, ove queste informazioni continuino a mancare, il sospetto di menzogna di livello 2 si fa largo con prepotenza e virale diffusione.
La conclusione è che, se si vuole vivere tranquilli, occorre non omettere nulla.

La menzogna sale a livello 2 quando, nello svolgimento della propria relazione, si cambiano i dati che a questo punto possono non coincidere più con la cosiddetta realtà oppure con la versione di eventuali testimoni (che per principio vengono ritenuti disinteressati ma in qualche caso non lo sono del tutto). Una delle affermazioni più comuni di un accusato è infatti proprio quella che getta sull’accusatore l’ombra dell’invidia e del discredito dovuto, in qualche caso, a interessi particolari, a volte inconfessabili. L’accusatore cioè diventa “persecutore”. In realtà, la menzogna di livello 2 affonda le sue radici anche nella psicologia dell’interessato: questi è talmente invasato del suo progetto da non distinguere più con precisione i fatti nell’ambito del proprio operato. I confini del reale e dell’irreale si confondono in una psiche indebolita da un ego mostruosamente inflazionato. In questi casi l’autoconvincimento è dietro l’angolo e abbiamo visto come, in alcuni episodi, si possa sostenere per una vita intera una propria verità, anche se questa è contestata dalla maggioranza (crudele o meno, e non silenziosa).

Marco Confortola. Foto: Matteo Zanga.

Dove le cose si aggravano è il livello 3 della menzogna, quando cioè si fabbricano volutamente delle prove a sostegno della propria visione. L’uso e la diffusione dei social moltiplica le possibilità di chiarezza come quelle di confusione. Il giudizio diventa globale e non più affidato alla sola opinione degli esperti e dell’interessato. Un giudizio tanto superficiale quanto lesivo. Si sa che Photoshop è stato usato più e più volte con questo scopo. Si aggiunge alla menzogna la premeditazione, con l’uso di una tecnologia che rischia di distorcere in modo significativo la verità, sia in un senso che nell’altro: una verità offuscata dalla mancanza dell’accettazione della propria umanità. In questi casi, chi crea confusione ha speranza di veder sopravvivere la propria tesi e, nel rimescolo delle carte, la questione della verità fine a se stessa viene confinata nell’ambito della “pancia”, cioè della compassione come pure dell’innata capacità umana di essere crudele in nome della pretesa “verità”.

Fabbricare una o più prove in un tribunale è un’aggravante significativa che può preludere facilmente a una condanna senza appello. Nei social questa eventualità è a furor di popolo.
In questa trappola mediatica è facile cadere, come pure è agevolmente scontato il non poter più tornare indietro, anche quando dentro di noi ci pentissimo.
E’ questa del livello 3 una vera e propria tragedia che è nostro dovere osservare con distacco e grande rispetto.

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