L’impresa del 1929 di Emilio Comici e Giordano Bruno Fabjan sulla Sorella di Mezzo era l’avviso che le cose stavano cambiando, che il sesto grado non era solo per gli uomini d’oltralpe. Infatti nello stesso tempo altri italiani stavano cercando, nel Gruppo della Civetta, di uguagliare le gesta di Emil Solleder. Si tratta di Renzo Videsott, della Val Badia, veterinario e futuro direttore del Parco del Gran Paradiso, e di Domenico Rudatis, di Venezia ma originario di Alleghe. L’unione di questa cordata con Leo Rittler, di Monaco, fu l’occasione del primo confronto oggettivo.
Per molti versi l’ascensione dello spigolo sud-ovest della Cima Busazza è quella che più ha influenzato l’alpinismo dolomitico tramite la relazione di Rudatis, che ancora oggi dimostra un’attualità sconcertante. Inoltre Rudatis nel suo libro Liberazione raccontò di nuovo a distanza di tanti decenni quell’avventura, che ci appare così ancora più ricca di nuove luci. Ecco in breve i fatti: nel 1928 Renzo Videsott e Domenico Rudatis compirono un tentativo fuori programma, superando l’immane camino alla base dello spigolo, dove si accentrano le maggiori difficoltà tecniche. La prima lunghezza (VI–) fu superata con un chiodo di assicurazione, mentre il grande tetto (VI+) fu salito da Videsott senza aiuti artificiali, con la sola assicurazione di due chiodi di sosta. L’anno dopo i due tornarono con il giovanissimo Leo Rittler, un grande esperto di sesto grado: ma fu sempre Videsott a fare il capocordata, a parte il camino salito da lui l’anno precedente. È importante notare che, secondo il racconto di Rudatis, Videsott superò il tetto fasciandosi la mano con un fazzoletto: fu il primo incastro di mani e piedi antesignano dei più moderni incastri a mani bendate! Rudatis lo assicurava con la corda a forbice, un chiodo alla radice della fessura e un altro chiodo alla radice dell’altra fessura delimitante il tetto. Se Videsott fosse volato, la corda del chiodo laterale avrebbe tenuto distaccato il corpo dalla parete. Rittler invece passò nei due chiodi la stessa corda: poi mise un piede sulla corda nell’intervallo tra i due chiodi e con quell’aiuto artificiale riuscì a sporgersi in fuori e proseguire alla Dülfer. Rudatis nel riferire questo particolare (Liberazione) evidenzia che i mezzi artificiali usati sono gli stessi, accenna al fatto che Videsott è salito in stile più puro, ma non sottolinea quanta differenza ci sia nei due gesti. Videsott fu un sostenitore della necessità della ginnastica: e i frutti di quel suo allenamento preventivo ci furono eccome, specie considerando che in tutta l’ascensione (1100 metri) furono da lui usati solo cinque chiodi (escluse le soste). Ma, al di là di tutti questi particolari, guardiamo la dirittura della via. Sembra quasi che quello spigolo sia stato scelto apposta per soddisfare una maniacale esigenza di dirittura: sono queste le radici dell’esigenza sportiva, dove l’estetica non ha più base nella logica della minor difficoltà ma si fonda sulla pretesa perfezione geometrica. Qui è anche insito l’azzeramento del concetto di “mauvais pas” per prediligere un oggettivo valore dell’itinerario nel suo complesso. In questo senso Rudatis collocò la salita alla Busazza, entro la stessa categoria, un poco meno difficile della Solleder alla Civetta.
La direttissima alla Cima della Busazza dalla Val dei Cantoni
(Prima ascensione: Renzo Videsott, Leo Rittler e Domenico Rudatis, 30 e 31 agosto 1929)
di Domenico Rudatis
(pubblicato su Rivista del CAI, 9-1930, pag. 519)
Il massiccio principale della Civetta prospetta maestosamente verso l’alta Val di Zoldo la faccia orientale della sua Cresta Nord e del nodo centrale, mentre il lato d’occidente dello stesso nodo centrale costituisce la famosa parete nord-ovest della Civetta che domina sovrana tutta l’alta Val Cordevole.
Interessantissimo il primo di questi versanti, per la varietà delle sue architetture possenti, per il numero e la bellezza delle diverse arrampicate che presenta; celebre, il secondo, per il suo assieme di verticalità e di altezza che ha un reale primato tra le pareti delle Alpi – tra tutte le strutture alpine cui più esattamente corrisponde la qualificazione di parete –, e la cui recente arrampicata diretta dei monachesi Lettenbauer e Solleder si può considerare come l’espressione più completa di arrampicata “estremamente difficile”, nel preciso significato tecnico-sportivo, moderno e definitivo di questa designazione.
Tali due versanti tuttavia non esauriscono affatto, né per sviluppo e grandiosità di strutture, né per interesse alpinistico, non solamente il Gruppo, ma neppure il massiccio principale della Civetta.
La “regina delle pareti”, la “parete di tutte le pareti”, come molto appropriatamente la chiamarono i moderni arrampicatori tedeschi, si lascia ammirare dalle alture di Pieve di Livinallongo giù fino ad Alleghe. Dopo scompare completamente alla vista. Scendendo ancora lungo la Val Cordevole, ci si abbassa profondamente contornando a mezzogiorno la Civetta per chilometri e chilometri. Erti pendii selvosi, aspri dirupi, selvagge pareti incombono sempre sulla valle; è tutta una lunga catena di cime secondarie che forma come un immenso regolare basamento al massiccio principale, occultando però tutta la veduta di questo dal fondo della vallata.
A Listolade, pittoresca borgata a ventitré chilometri da Alleghe, prima di sboccare nella bella conca agordina, si schiude improvvisamente a sinistra una valle laterale, e al di là da essa si profila un impressionante altissimo appicco al cui fianco s’addossa una gigantesca torre. È una visione inattesa fantastica fuggitiva, che, percorrendo la strada, sparisce già prima di aver potuto osservarla adeguatamente. Né, in seguito, si scorge niente altro. Dopo sei chilometri ancora si raggiunge Agordo uscendo del tutto dal regno della Civetta.
Chi pure conosce questo regno tanto da oriente che da occidente, cioè dai due noti versanti dell’alta Val di Zoldo e dell’alta Val Cordevole, non può riconoscere la Civetta in tale visione.
Quale particolare sviluppo del massiccio è questo? Quali vertiginosi segreti di altezze e di abissi nasconde dunque nel mezzogiorno della Civetta, quella trentina di chilometri di cime minori?
È ciò appunto che si vuoi svelare, almeno in parte, e non è semplice poiché la Civetta dal sud è una delle montagne più complesse che si possano trovare.
Il massiccio principale della Civetta figura in pianta come un immenso artiglio approssimativamente orientato con le tre dita anteriori verso mezzodì e il dito posteriore a settentrione. Quest’ultimo costituisce la Cresta Nord.
Le tre dita meridionali sono:
1) quella compatta e grandiosa diramazione rivolta a sud-est, detta lo Zuiton, che culmina nella cima omonima e si congiunge a sud colla poderosa catena del Sottogruppo delle Moiazze;
2) quell’imponente e lunghissima cresta rivolta a sud-ovest, che nella sua parte terminale sbranca a mezzodì un prodigioso groviglio di pilastri, di pinnacoli, di guglie, di torri, di campanili noti appunto come i “Cantoni di Pelsa”;
3) la diramazione mediana tra le due suddette, rivolta esattamente verso sud, che è una delle più colossali strutture delle Alpi e che viene indicata come i “Cantoni della Busazza”, riferendosi in special modo alla parte che più si stacca dal nodo centrale.
A queste tre dita dell’artiglio corrispondono, quali due relativi spazi interdigitali: la Busazza e la Val dei Cantoni.
La prima, compresa tra lo Zuiton – con parte delle Moiazze –, e i Cantoni della Busazza, è una strana e vasta conca dal fondo pianeggiante pavimentato di enormi lastroni nudi e regolari, lievemente inclinati verso oriente, talvolta sovrapposti a larghi gradoni, e con poche piccole spianate erbose verdeggianti qua e là nella bianca e splendente uniformità dei banchi di dolomia. Le montagne circostanti si levano tutte con magnifiche pareti a corona dello straordinario anfiteatro, lasciandone aperto il solo lato meridionale al cui limitare, come ad una soglia, sale una ciclopica scala di grandi caratteristici salti di roccia (detti “le Sasse”) e ripiani rivestiti di mughi, che ha inizio mille metri al disotto presso la testata della Val Corpassa. Per i tipici gradoni di questa scala, la Busazza è detta anche Van delle Sasse1.
La Val dei Cantoni resta compresa tra i Cantoni di Pelsa e i Cantoni della Busazza, e il suo ingresso si apre appena sopra la testata della Val Corpassa, ad un livello quindi molto più basso della soglia del Van delle Sasse. E si apre in tal maniera da dover subito convenire, con l’illustre alpinista e pittore triestino N. Cozzi, esser questo davvero «il più imponente, il più maestoso, il più terribile ingresso di valle che ci sia».
Con un solo impeto due torri irrompono improvvise e formidabili, simmetricamente disposte, una da una parte e una dall’altra della quasi pianeggiante imboccatura della valle.
La Torre Venezia con un balzo di circa cinquecento metri, inizia l’ascendente bizzarro profilo delle infinite frastagliature dei Cantoni di Pelsa; la Torre Trieste, col suo stupefacente appicco frontale di ottocento metri, sta come pilastro angolare della compattissima struttura dei Cantoni della Busazza.
La Cima della Busazza – così chiamata perché domina appunto la stessa Busazza2 – sovrasta la Torre Trieste di ben ancora cinquecento metri ed afferma il proprio altissimo imperio su tutto il prodigioso mondo di rupi dei Cantoni e delle Moiazze.
La Val dei Cantoni è detta anche Vallon del Giazzèr perché in alto, al di là da dove la valle sale e si strozza, mentre i profili dei Cantoni di Pelsa e dei Cantoni della Busazza sembrano congiungersi, si nasconde un circo molto elevato nel quale resta racchiuso il bel ghiacciaio dei Cantoni, noto agli alpigiani come il Giazzèr. La cima principale della Civetta non si vede, essa resta ancor più lontana e nascosta dal ghiacciaio.
L’accesso turistico più rapido e più comodo al reame meridionale della Civetta è la Val Corpassa. Interessantissima ed ugualmente agevole è la mulattiera che da Alleghe o da Zoldo Alto, passando per il rifugio Coldai e per le regioni più settentrionali del Gruppo, percorrendo tutta la Val Civetta lungo la base dell’immane parete nord-ovest e aggirando i Cantoni di Pelsa, entra nella Val dei Cantoni.
Lasciando a Listolade la grande strada della Val Cordevole, ci si inoltra subito su per la stretta e solitaria Val Corpassa fiancheggiando l’omonimo rumoroso torrente, seguendo la strada – prima carreggiabile ma ora in parte rovinata – che si snoda dapprincipio tra piccoli prati e boschi e poi tra mughi e le ghiaie bianche e pulite del letto della stessa Corpassa. I fianchi della valle si mantengono vicini e selvaggiamente dirupati, la valle sale sempre in linea diritta con pendio moderato, sullo sfondo la Torre Trieste si erge frontalmente con una regolarità di linee e una simmetria di contorni eccezionalmente perfette ma che non risaltano ancora nella loro intera bellezza, figurando la Torre tutta aderente alle pareti titaniche della Cima della Busazza che sfuggono di scorcio in alto a sinistra. Lontana, molto a sinistra, quasi isolata domina la Torre Venezia; a destra, in su, spicca la soglia del Van delle Sasse, e più a destra ancora si delinea la grandiosa prospettiva occidentale delle Moiazze.
Poi la valle si allarga sempre più e presto si perviene alla sua testata. È una posizione d’incanto! Tutte le leggiadrie del paesaggio alpestre sono qui riunite e incoronate dalle più plastiche magnificenze della roccia.
La valle scompare aprendosi in un gran ventaglio di erte vallette minori. Tutt’intorno le montagne stanno liberando l’eccelso slancio dei loro appicchi. La Torre Trieste sembra quasi troppo ingrandita e troppo alta per sopportare di venire osservata, le Moiazze si impongono di sorpresa con un muraglione colossale, i Cantoni di Pelsa si moltiplicano, la Cima della Busazza appare sempre di scorcio, paurosa e incomprensibile.
L’ottima mulattiera sale a risvolte un lungo e ripido pendio di mughi (la Mussaia), verso la base della Torre Trieste, quindi passa a sinistra e raggiunge un verde ripiano erboso – il Pian delle Taie -, proprio all’entrata della Val dei Cantoni.
Il versante occidentale della Cima della Busazza ora comincia a rivelare veramente la sua formidabile potenza.
Nel rado bosco, la strada continua a salire dolcemente tagliando di traverso tutta la Val dei Cantoni, lungo l’imboccatura, senza penetrarvi, per passare subito sotto la Torre Venezia e proseguire oltre verso la Val Civetta.
Poco prima di arrivare nelle immediate vicinanze della Torre Venezia, a sinistra e in prossimità della strada, su una spianata del boscoso Col Negro di Pelsa, prospiciente la valle, s’incontra il rifugio Vazzoler (sorto nel 1929), che apre finalmente al movimento alpinistico tutti gli incanti ed i segreti meridionali della Civetta3.
Ed è un rifugio proprio ideale, perché abbastanza comodo da soddisfare tutti i bisogni che l’indolenza moderna può trascinare in montagna, abbastanza semplice da non ricordare le complicazioni della vita cittadina, e costruito e arredato in modo da accordarsi felicemente con l’ambiente naturale.
La vista della Cima della Busazza dal rifugio, sebbene ancora incompleta, è di una grandiosità e di una severità inesprimibili.
Dal fondo appena inclinato della Val dei Cantoni s’innalza una sterminata muraglia che si prospetta come la facciata di un immenso castello. L’appicco frontale della Torre Trieste, innestata alla parete quasi come un pilastro, profila l’angolo destro di questa facciata e s’abbassa ulteriormente all’infuori della valle; la Torre, che si può considerare come la più alta delle Alpi, non è più che un elemento di tale costruzione, e la sua cima una piccola vedetta distaccata. Il fastigio della parete balza subito alto sopra la Torre e dalla destra sale verso sinistra, su, con una trionfale ascesa a merlature e rampe titaniche, sempre su fino allo spigolo sinistro in cui questa facciata, rivolta a sud-ovest, s’incontra con l’altra, rivolta a ovest, che dal rifugio s’intravvede tutta di scorcio. La riunione delle due pareti forma uno spigolo un po’ più aperto di un angolo retto.
Nella sommità dello spigolo culmina la Cima della Busazza e questo piomba interminabilmente giù dritto nella valle.
Per poter veder bene ambedue le pareti e la dirittura dello spigolo, bisogna però avanzare alquanto su per la Val dei Cantoni, sotto il muro strapiombante del Bancon o meglio salire sulla sovrastante terrazza (detta appunto il Bancon), oppure sul piccolo Gnomo di Babele che fiancheggia umilmente a sud l’omonima Torre. Chi poi volesse godere i migliori punti di vista possibili, dovrebbe raggiungere la stessa Torre di Babele o la Cima del Bancon che, fronteggiando lo spigolo a metà altezza, prospettano nel mondo più evidente la fantastica fuga verso l’alto e verso il basso delle pareti.
Oltre lo spigolo, la valle sale ripidamente e quindi anche la base della facciata ovest, il cui fastigio invece, presso la vetta rimane per un tratto orizzontale, e poi s’incurva alquanto discendendo «infine ad un intaglio in corrispondenza del quale resta delimitata questa parete. Essa risulta molto più stretta dell’altra, ma quasi la supera nella violenza della verticalità; la sua parte superiore è pressoché tutta uno spaventevole strapiombo, per un’altezza di più centinaia di metri. Ambedue le pareti, come lo spigolo, superano il chilometro d’altezza»4.
Dopo, a settentrione, la muraglia rientra, sporge e si rompe variamente, allontanandosi, mentre la sua cresta risale verso la Piccola Civetta, come un ciclopico bastione il quale congiunga il prodigioso castello ad una altra lontana costruzione.
Niente di più sgominante, di più fantastico, di più affascinante di questo complesso di verticalità immani che quasi non trova confronti; di questo castello che ha la severità di una fortezza e la sovranità di una reggia, e attorno al quale le superbe torri dei Cantoni di Pelsa diventano appena le merlature di una sua muraglia di cinta, mentre i più celebri pinnacoli delle Alpi potrebbero allinearsi ai suoi piedi come una balaustrata; di questa struttura, in cui la simmetria delle linee e l’euritmia dei contrasti trovano l’accordo più armonico e più possente della sublime architettura delle altezze.
Se si dà un preciso sguardo a tutta la regione dolomitica, si constata infatti che la verticalità e l’altezza sono riunite in più elevata misura: nella cima principale della Civetta dalla Val Civetta, nella Cima della Busazza dalla Val dei Cantoni, nel Croz dell’Altissimo dalla Val delle Seghe. Queste tre strutture, nelle quali sono maggiormente esaltate le caratteristiche essenziali dell’architettura delle Dolomiti, costituiscono quindi le più complete e poderose espressioni dell’intero mondo dolomitico.
Facendo qualche confronto specifico tra queste e le altre più notevoli strutture delle Dolomiti, si può osservare che tanto le pareti nord del Pelmo, della Cima Una e della Furchetta, che quella nord-est del Crozzon di Brenta sono tutte inferiori d’altezza. La classica parete sud della Marmolada presenta doppiamente al paragone una fortissima inferiorità. L’appicco settentrionale della Cima Grande di Lavaredo, e così anche altri, è di proporzioni troppo limitate per sostenere, nonostante la sua stupenda verticalità, un raffronto. Il Sass Maor dall’est e il Sass Long dal nord sono certo grandiosi, ma questo non ha la verticalità e quello non ha uno sviluppo costruttivo che raggiunga la triade predetta.
Estendendosi alle Alpi Orientali in generale, si può ancora riconoscere che la parete nord, del Tricorno, come parete, non è né altrettanto alta, né altrettanto verticale. Il Watzman e l’Hochstadl presentano versanti altissimi ai quali però manca la verticalità, e non aventi, a rigore, nemmeno una vera e propria conformazione di parete. L’Hochwanner dal nord, come effettiva parete, non è così alta. E, pure le magnifiche pareti Laliderer sono alquanto meno alte.
Se, pertanto, le più colossali strutture delle Alpi Orientali, pur equivalendo in grandiosità, non assommano parimenti l’altezza e la verticalità, la triade dei titani delle Dolomiti possiede una superiorità che va assai oltre le Dolomiti stesse, e verosimilmente – poiché è facile allargare i riscontri nei precisi riguardi della verticalità e della altezza – anche oltre tutte le Alpi Orientali.
***
Il progredire dell’esperienza e l’esatta conoscenza dell’evoluzione storica e tecnica dell’arrampicamento moderno internazionale, mi portarono gradualmente a stabilire, con determinatezza, il problema della Cima della Busazza dalla Val dei Cantoni. Ma quale problema!
Scrive il distinto alpinista bresciano Mario Marcazzan: «Avevo fatto la prima conoscenza col Gruppo della Civetta, destinato ormai a divenire (dopo la fantastica direttissima aperta nel 1925 sulla parete nord-ovest da Emil Solleder e Gustav Lettenbauer) il più classico tra i gruppi dolomitici, nella primavera del 1928. Colle Sezioni del CAI di Belluno e di Conegliano eravamo saliti a posare la prima pietra del rifugio Vazzoler, nei Cantoni di Pelsa. Ero rimasto letteralmente soggiogato dalla apocalittica chiostra di crode, per tanta parte ancora vergini, che fra due giganteschi pilastri (la Torre Venezia e la Torre Trieste) precipitano ad anfiteatro con pareti immani, culminanti nei mille e più metri a picco della Busazza, che da quel versante offre un problema… da togliere il fiato»5.
Studiando l’appicco dai diversi punti di vista offerti dai Cantoni di Pelsa, mi convinsi che il lato sud-ovest offriva con molta probabilità una via di scalata, che raggiungeva però la cresta a notevole distanza dalla vetta.
L’anno scorso – 1928 – dopo la conquiste del Pan di Zucchero, presentai alla sorpresa del mio compagno di corda, Renzo Videsott, l’imponente problema, ed assieme lo riesaminammo in occasione della nostra bellissima arrampicata sulla Torre di Babele.
Io avevo fatto all’amico capocordata questa proposta col sentimento di dargli quanto di meglio la mia conoscenza e la mia preferenza alpina possedevano, ed egli colse nell’offerta mirabile tutta la purità del proprio valore, e la grandezza dell’impresa affascinò intensamente l’avvenire che ci si apriva innanzi.
Su quell’immane pietra di paragone si doveva lasciare la più vivida traccia del più aureo metallo del nostro volere, e non l’incerta rigatura di metalli volgari. Così la ragionevole soluzione del problema venne abbandonata e trascesa, e la dirittura ideale di salita si pose al centro della nostra volontà.
Poiché la facciata sud-ovest – prospiciente il rifugio Vazzoler – culmina, al suo estremo sinistro, esattamente sulla verticale dello spigolo, la via di scalata più diretta da questo lato deve necessariamente seguire la stessa verticale dello spigolo; d’altra parte, poiché il fastigio della facciata ovest, in vetta, cioè presso la sommità dello spigolo, si profila quasi orizzontalmente, mentre la base di tale facciata, dallo spigolo, si alza ripida, ne consegue che, pure rispetto a questo lato, quanto più la linea di salita si approssima allo spigolo e tanto più completamente attraversa la parete stessa. Quindi la linea dello spigolo rappresenta, sia relativamente alla parte sud-ovest, che a quella ovest, la dirittura ideale di ascesa. Tutto ciò si impone con perfetta evidenza.
Al ritorno della conquista della Torre di Babele, che chiudeva la nostra breve vita alpina dell’anno scorso, con chiara coscienza di tale evidenza, di tale idealità risolutiva, lasciammo la montagna uniti nella volontà e nel desiderio che il tempo e la lontananza intimamente alimentarono.
Soffrimmo l’attesa con fervore durante tutto un anno di permanenza in città, finché giunse la nuova estate esasperando la nostalgia di libertà e di altezza.
E finalmente riponemmo mano alla roccia! L’allenamento di alcune belle arrampicate, i bagni nel laghetto di Coldai, chiuso in grembo ai contrafforti settentrionali della Civetta, il sole radioso delle Dolomiti, e le immersioni nei torrenti gelidi che sapevano il ricordo della freschezza incontaminata dei nevai, ci riportarono presto a quel grado di armonia con la natura alpestre che ritrova in se stesso la sorgente prima e inesauribile della gioia. Dalla salute perfetta che dà il senso profondo ed esultante della vita fisica, alla sensibilità e comprensione cosmica delle forze della terra e del cielo.
Allora ritornammo verso la Val dei Cantoni dove il nuovo rifugio ci attendeva, invitante, nella sua meravigliosa cerchia di montagne regali, come una sorpresa augurale.
In una splendente mattinata ci recammo a studiare l’attacco dello spigolo.
Decidemmo di scegliere l’attacco stesso nella più perfetta corrispondenza della verticale calata dalla cima, nel grande camino che incide esattamente lo spigolo alla base. Alquanto a destra dello spigolo si vede un altro camino che in alto vi si approssima, più stretto e dall’apparenza meno paurosa; ma questo costituirebbe un attacco indiretto, quantunque, visto dal rifugio Vazzoler, un ingannevole effetto prospettico lo faccia sembrare quasi diretto. Assai lontano dallo spigolo, sia verso destra che verso sinistra, le pareti si mostrano con attacchi meno repulsivi ma naturalmente sempre più indiretti.
Noi sentivamo ormai la precisa dirittura dello spigolo nella sua più imperativa idealità, cosicché nel nostro spirito ogni deviamento era una contraddizione, una pena, un’interiore grave privazione.
Eppure molte parti dello spigolo e l’attacco stesso, potevano essere impossibili, poiché nulla si poteva giudicare a tanta distanza di rocce dall’aspetto così impressionante.
In molte piccole salite delle Dolomiti prive di notevoli difficoltà, l’occhio può spesso prevedere prima il percorso con una certa sicurezza, e forse talvolta può rivelarlo anche la fotografia, ma con l’aumentare dell’altezza e della difficoltà ciò finisce col diventare un gioco puerile. Tratti di arrampicata estremamente difficile, esaminati a notevole distanza riescono del tutto indecifrabili.
Già il nostro attacco era enigmatico ed un chilometro sopra di noi strapiombi e soffitti seguitavano ancora a moltiplicare le incognite.
Durante le ore del mattino, sostando qua e là, il nostro sguardo risalì l’appicco con l’attenzione avida che vorrebbe illudersi di trovarsi realmente a contatto con la roccia. Ma non si ricercava un percorso, la nostra via era ormai decisa e l’aspetto di impossibilità con cui si presentavano certe parti, non poteva più menomare la nostra volontà.
La linea d’ascesa più degna sulla rupe eccelsa era lo spigolo, e con tecnica, energia di muscoli e supremazia di nervi, noi dovevamo lungo di esso guadagnare l’altezza. La vetta era semplicemente la sommità dello spigolo, lo spigolo era tutto. E ogni volta che il nostro sguardo lo percorreva, ritraeva dalla sua contemplazione una più intensa volontà di salire, e sempre più la sua grandiosità ci affascinava e suscitava in noi quell’intima esaltazione che provoca il bisogno di osare.
Poco prima di mezzogiorno, finimmo col portarci proprio al piede dello spigolo, là dove un breve canale staccandosi dal torrente che scende lungo la Val dei Cantoni e fiancheggiando a sinistra quel caratteristico grande zoccolo con mughi che sporge quasi alla base dello spigolo, conduce sotto il camino di attacco prestabilito.
Questo camino è così gigantesco che relativamente alla tecnica che richiede, non si potrebbe neppure chiamarlo camino. Si tratta, in realtà, di una vera voragine compresa tra due pareti distanti da tre a sei metri, dapprima perfettamente verticali e parallele, poi verso l’alto lisce e nere per l’acqua che vi cola e notevolmente strapiombanti. Non offrendo tali pareti la minima risorsa, si deve arrampicare sempre sul fondo della voragine. Ma già all’inizio, superata una viscida e gocciolante caverna, s’incontra un giallo strapiombo che pone uno sbarramento dei più formidabili.
Si tratta di una parete di oltre una trentina di metri di altezza; il mio compagno si impegnò su per essa decisamente.
Eravamo ancor digiuni, ma pensando che la ricognizione sarebbe stata breve, avevamo fatto così poco caso a questa circostanza, da lasciare il nostro sacco giù al disotto della caverna.
Quando ci trovammo riuniti sopra lo strapiombo, eravamo come sferzati dalla nostra stessa audacia, e seguitammo con ardore. Fummo presto sotto un soffitto che chiudeva il camino. Proseguire pareva impossibile anche facendo uso di chiodi e dal camino non si poteva uscire.
Dopo un paio d’ore eravamo ancora sotto lo stesso soffitto, che l’amico era come esaltato dalla difficoltà e voleva vincere ad ogni costo.
Sormontammo finalmente anche questo soffitto, l’ancor più faticosa fessura che segue sopra di esso ed altre rocce bagnate e verticali. Fu una lotta senza tregua che ci trascinò come un destino.
Quando sbucammo dalla cupa voragine, era ormai sera e la nebbia calava tutt’attorno. Ci restava forse ancora un’ora di luce. Ridiscendere per la voragine non potevamo, non avendo i necessari chiodi per assicurare le corde doppie, tanto più che la nostra corda, essendo di poco superiore ad una trentina di metri, ci avrebbe obbligati a ripetere troppe volte la manovra.
Sapendo che nella sua parte centrale prospiciente il rifugio Vazzoler la parete si presenta meno ostile, attraversammo affrettatamente verso sud per circa trecento metri, ma intanto la nebbia ci avvolse completamente e l’oscurità cominciò a insinuarsi torpida e pesante.
Mancanza di ogni mezzo, nebbia, tenebre e ignoto ci stavano contro. La discesa notturna si prospettava ancor più paurosa di quella che effettuammo l’anno scorso dalla cima del Pan di Zucchero, il ricordo della quale domina ancora fantasticamente nella mia mente. Bivaccammo.
Il giorno appresso discendemmo, proprio nel mezzo della parete, stanchi, digiuni ed assetati; e dopo quaranta ore riuscivamo finalmente a rifare la nostra colazione.
Lo sforzo sostenuto in questa ricognizione ci diede la sicurezza di vincere. Il tempo però si mantenne sfavorevole all’attacco definitivo e mise alla prova la nostra pazienza, tanto che una mattina prestissimo partimmo ugualmente, ma un temporale si affacciò mentre toccavamo le prime rocce e ci rimandò al rifugio.
Il tempo finì col precipitare del tutto. La neve rivestì le cime e noi scendemmo a valle. Videsott partì per il Nord ed io restai a Coi d’Alleghe in vista degli appicchi della Civetta ad aspettare il ristabilimento delle condizioni normali del tempo.
Qualche giorno dopo mi capitò una visita inaspettata: l’amico Leo Rittler di Monaco di Baviera, specialista del Kaisergebirge, uno dei migliori arrampicatori dell’epoca attuale6.
Veniva dalle montagne della Svizzera per trascorrere alcuni giorni sulle Dolomiti. Egli era impaziente di attaccare qualche solido problema, ma io attesi ancora un paio di giorni finché, col bel tempo, ritornò anche Videsott.
Effettuammo dapprincipio una nuova via di scalata sulla Torre di Babele, facendo così anche la prima traversata della Torre stessa.
Il 30 agosto, alle ore 6, eravamo ai piedi della Cima della Busazza, all’attacco della voragine a noi ben nota.
Convenimmo che Rittler avrebbe tenuto il comando della cordata per tutto il tratto da noi superato nella ricognizione, e poi l’avrebbe ceduto a Videsott che ci teneva a conoscere tutto il percorso come capocordata. E così facemmo infatti, salvo in alcuni tratti della parte centrale, nei quali procedemmo assieme per guadagnare tempo.
Dopo quattordici ore di arrampicata, con una sola tregua di mezzora per mangiare qualcosa ed una interruzione di un quarto d’ora per sciogliere un aggrovigliamento accidentale delle corde, stavamo ancora salendo per un gigantesco camino, il quale, anziché portarci in breve sulla cima come avevamo creduto, pareva continuare interminabilmente. Arrampicavamo con la maggior fretta possibile, quasi con frenesia. Videsott superò, lungo un’asperrima fessura, ancora uno strapiombo, uno degli innumerevoli strapiombi, e noi lo raggiungemmo presso una nicchia nella quale non potevamo sostare che in due.
Sopra di noi il camino era sbarrato. Cominciava a far buio. Non c’era un punto di sosta per il bivacco, per trovarlo saremmo stati costretti a ridiscendere lungamente, che l’ultimo terrazzino l’avevamo lasciato da diverse ore.
Rittler si avventò da un lato, per la parete friabile, dove lo seguii tra uno sgominante e pericolosissimo precipitar di sassi; ma le tenebre lo arrestarono presto e dovemmo ritornare nella nicchia con un avventuroso percorso aereo lungo le corde. La situazione doveva venir risolta. Videsott si spostò allora dalla parte opposta lungo una cornice friabile, appeso alle sole mani, nell’oscurità ormai completa. Pervenne così ad una bella terrazza. Ciò era la vittoria!
Lo raggiungemmo e là passammo la notte. Il mattino scoprimmo che la vetta stava poco lontana, sopra di noi, e vi arrivammo prestissimo.
Io non credo che le sensazioni di due notti e di quattro giorni trascorsi in una parete come questa, possano tradursi in una semplice relazione, ragione per cui non vi accenno neppure.
Certo è che quando lasciai il rifugio Vazzoler per recarmi nel Gruppo di Brenta, avevo l’anima traboccante delle emozioni più vive e più profonde. Sentivo come d’aver vissuto intensamente e degnamente un’intera esistenza, e mi pareva che nessuna sventura avrebbe più potuto sovrastare la gioia accumulata. E tanto mi sentivo pago di essa e così intima e completa era la mia soddisfazione, che non provavo il minimo desiderio di parlarne con altri all’infuori dei miei compagni.
Per potenza, quantità e diversità di sensazioni provate, potevo ben pensare di aver grandemente accresciuto la mia vita!
Il valore di una impresa estremamente difficile, e non tale per sopportamento disperato di circostanze avverse, ma bensì esclusivamente tale per difficoltà creata soltanto dal nostro procedere e col nostro procedere superata, trascende immensamente ogni forma di alpinismo che abbia un fondamento utilitario come l’esplorazione, la ricerca scientifica, estetica od altro. Questa trascendenza non ha nessun bisogno di essere spiegata né giustificata, perché appunto per la stessa essenza della sua natura, che va oltre il sentire e l’agire pratico e normale della vita, deve venir realizzata e vissuta in sé. Così come uno stato lirico ed eroico, un “nirvana”, non sono oggetto di conoscenza, ma possibilità che si provano e che si realizzano.
Potrei tuttavia tentare, e forse lo farò, di tradurre l’unità di questi valori spirituali attraverso il fluire nudo e immediato delle sensazioni, ma per una sola arrampicata così ne uscirebbe, non una relazione, ma un volume.
Ciò però che di una arrampicata resta interamente e perfettamente percepibile, quando appunto la difficoltà è solo risultato del nostro procedere, e la sua attuazione materiale, che come tale è opera sportiva. E sportiva in modo così organico e compiuto, da potersi ritenere in senso tecnico, ormai del tutto individuato, uno “sport dell’arrampicamento”7.
Da questo specifico punto di vista dirò che la scalata della Cima della Busazza dalla Val dei Cantoni, lungo la direttissima da noi aperta, è “estremamente difficile”. Rappresentando questa espressione la difficoltà di quelle arrampicate che esigono le massime prestazioni e la completezza della tecnica dei migliori arrampicatori; categoria estrema in quanto che, coi mezzi naturali e secondo i principi di valutazione propri allo sport dell’arrampicamento, l’ulteriore sviluppo non può portare ad un’altra categoria superiore8.
Naturalmente il criterio di difficoltà è comprensivo ed integrale, dovendosi tener conto della lunghezza, della friabilità, della continuità dello sforzo ed altro. Ed è sottinteso che ogni giudizio è riferito alla ripetizione esatta di una via e senza alterazioni con mezzi estranei.
Accenno ancora di sfuggita che se dalla genericità di significati relativa all’alpinismo, emerge determinatamente, sempre in senso tecnico, uno sport dell’arrampicamento, ciò avviene proprio perché questo possiede criteri specifici di valori e di difficoltà. Il concetto classico di “mauvais pas”, di difficoltà di un singolo punto, è assolutamente sorpassato. II superamento di un singolo punto rappresenta dei valori che si limitano ad un estremo sforzo ginnastico come massimo, ma che sono lontanissimi dal raggiungere il criterio di difficoltà integrale di una arrampicata che esprime un ben superiore valore. Per realizzare l’estrema difficoltà di un singolo punto, non è neppure necessario trovarsi in montagna, ed in ogni caso si resta nell’ambito dei valori ginnastici, così come spesso avviene in tante scalate di spuntoni, attuale epidemia, il cui valore non può assurgere oltre l’aspetto di esercitazioni. Lo sport dell’arrampicamento afferma i suoi valori nelle grandi scalate, nelle quali un punto di estrema difficoltà non è più un rischio che decide la salita, ma appena un elemento di una serie9.
La direttissima alla Cima della Busazza dalla Val dei Cantoni è più lunga e assai più difficile della parete sud-ovest del Croz dell’Altissimo che noi, Videsott ed io, ripetemmo pochi giorni dopo10.
Il tratto che l’amico Rittler effettuò come capocordata ci permise interessanti confronti con le più difficili arrampicate finora compiute. «Lo strapiombo giallo dell’attacco della nostra via alla Cima della Busazza – dice Rittler – appartiene ai miei più difficili punti ed è più difficile della famosa traversata di fessura dell’attacco della via Lettenbauer-Solleder sulla parete nord-ovest della Civetta», che ad eccezione dello strapiombo con caduta d’acqua la cui difficoltà varia secondo la massa d’acqua, è il punto più difficile di detta scalata.
Videsott, che tra la ricognizione e la scalata superò tutti i punti come capocordata, ritenne avere ancora [in] altri punti quasi la stessa difficoltà dello strapiombo giallo iniziale.
La via Lettenbauer-Solleder, per la maggior continuità dello sforzo, può tuttavia essere considerata, entro la stessa categoria, un poco più difficile della nostra impresa. Dice Rittler: «Io ritengo la parete nord-ovest della Civetta una delle più difficili e più faticose arrampicate delle Alpi Orientali, credo anzi che essa debba essere, in generale, la più difficile arrampicata. La parete sud-est della Fleischbank e la via Fiechtl-Weinberger al Predigtstuhl hanno già punti più difficili della Civetta, ma non sono così lunghe».
Queste due famose scalate del Kaisergebirge arrivano appena a 300 metri, mentre la Civetta e la Cima della Busazza sono ambedue 1100 metri!11
Nella nostra impresa noi usammo i chiodi in misura minima: solo in tre punti. Adoperammo circa 110 metri di corda, e secondo il sistema che lo stesso Rittler ed altri suoi compagni del Kaisergebirge hanno ora introdotto nelle arrampicate estremamente difficili, applicammo tra il primo ed il secondo l’assicurazione con due corde, sistema che, ben usato, presenta effettivamente diversi vantaggi12.
Note
1 “Van” nel dialetto agordino, è una specie di larga cesta il cui contorno da una parte è abbassato a livello del fondo, e da questa parte viene lasciato cadere lentamente il grano di modo che il vento, nel frattempo, ne allontana le impurità. Così spesso i circhi aperti da un lato si chiamano “van”.
2 La Cima della Busazza venne così denominata in occasione della prima ascensione compiuta dal noto alpinista e scrittore monachese Paul Hübel con August Oberhäuser, il 3 agosto 1907, dal Van delle Sasse.
3 Se si considera che il rifugio Coldai, costruito nel 1905 dalla Sezione di Venezia del CAI, è situato all’estremità settentrionale del Gruppo della Civetta, data la grande estensione del Gruppo stesso, riesce evidente che non solo il rifugio Vazzoler, ora costruito con intelligente iniziativa dalla Sezione di Conegliano del CAI, permette finalmente una meravigliosa attività alpinistica nella regione meridionale del Gruppo, ma in congiunzione con lo stesso rifugio Coldai, rende relativamente agevoli grandiose traversate ed interessanti percorsi turistici.
4 Dice la Guida Gallhuber (Julius Gallhuber – Dolomiten, 1928, volume II, pagina 296): «la parete occidentale della Cima della Busazza cade perpendicolarmente nella Val dei Cantoni per 1200 metri».
Se però ci si riferisce alla verticale dalla cima, in corrispondenza della quale la base è un po’ rialzata, l’altezza risulta di 1100 metri.
Comunemente, e cosi anche il Gallhuber, si considera il versante della Cima della Busazza dalla Val dei Cantoni come un’unica parete Ovest; ciò non è però esatto.
5 Vedi Mario Marcazzan, La Torre Venezia, Rivista Mensile della Sezione di Brescia del CAI, 1930, pagina 15.
6 Lro Rittler effettuò quasi una trentina di arrampicate “estremamente difficili”, cioè appartenenti al grado 6 della scala di Monaco. Tra le quali: il secondo percorso della direttissima sulla parete nord-ovest della Civetta, la parete nord della Praxmarerkarspitze, la parete sud-est della Fleischbank, la via Fiechtl-Weinberger al Predigtstuhl, la Dülferriss della Fleischbank, la parete sud della Schüsselkarspitze. Per la sua perfezione stilistica fu scelto per l’esecuzione di film di tecnica di arrampicamento nel Kaisergebirge.
7 È del tutto evidente che l’individuazione pratica e tecnica della pura scalata di roccia in condizioni di valutabilità, nell’espressione “sport dell’arrampicamento”, giova alla chiarezza ed è tecnicamente necessaria. Vedere in ciò una negazione dei “valori spirituali” non può dipendere che da ignoranza dell’argomento o da malafede mascherante secondi fini. Vedi Domenico Rudatis, Lo sport dell’arrampicamento, Lo Sport Fascista, n. 3, 1930 e Domenico Rudatis, Dall’alpinismo tradizionale all’affermazione sportiva, Lo Sport Fascista, n. 4, 1930.
8 L’“estremamente difficile” cioè esattamente l’“aüsserst schwierig” tedesco, costituisce il Grado 6 della scala delle difficoltà stabilita dagli arrampicatori di Monaco di Baviera.
La scala presentata da Antonio Berti nella sua guida delle Dolomiti Orientali, è una alterazione errata ed arbitraria della scala di Monaco, e perciò ci riferiamo sempre alla scala originale di Monaco.
Vedi Domenico Rudatis, La moderna graduazione delle difficoltà, Annuario della Società Alpinisti Tridentini, 1930.
9 Questo punto di distinzione è fondamentale. Limitarsi a porre i valori della difficoltà in un singolo punto, è come uscire dall’arrampicamento alpinistico e restringersi all’ambito ginnastico.
10 La cordata Dibona-Mayer-Rizzi che effettuò nel 1910 questa superba prima ascensione, giudicò l’impresa come la più difficile delle Dolomiti. Né tale via, né la notevole variante che vi fecero recentemente Steger e Holzner, costituiscono una direttissima, anche perché la cima alla quale si perviene potrebbe anche non considerarsi come la vera cima, essendovi nelle carte un errore di quota, ripetuto pure nella Guida delle Dolomiti di Brenta del compianto amico Pino Prati.
Vedi Domenico Rudatis, Dall’alba del nostro secolo – di scalata in scalata – verso il limite del possibile, Lo Sport Fascista, n. 7, 1930.
11 La via Fiechtl-Weinberger al Predigtstuhl effettuata nel 1923 e la parete sud-est della Fleischbank scalata da Rossi e Wiessner nel 1925 costituiscono, unitamente alla parete ovest della Mittelgipfel del Predigtstuhl, le più difficili arrampicate del Kaisergebirge e la più perfetta espressione della tecnica d’arrampicamento in generale. Tutte e tre sono state ripetute da Rittler il quale inoltre è l’unico che abbia ripetuto due volte ambedue le prime suddette scalate.
12 Tenuto conto che anche con attenta assicurazione, si verificano spesso delle catastrofi per rottura della corda, il sistema con due corde è molto consigliabile ed offre indiscutibilmente una maggiore sicurezza, oltre a diversi altri vantaggi per manovre di tecnica moderna. Esige però un procedere intelligente e preciso.
Esporrò questi nuovi metodi in una prossima pubblicazione sulla tecnica moderna di roccia.
Domenico Rudatis
Sezione di Venezia – SAT (Sez. del CAI) – Oesterreichischer Alpenklub
Domenico Rudatis (Venezia, 11 gennaio 1898 – New York, 16 luglio 1994), accademico del CAI, svolge un’intensa attività alpinistica specialmente nel gruppo della Civetta, aprendo diverse nuove vie, tra le quali: nel 1928, lo spigolo nord-est del Pan di Zucchero (Civetta) con Renzo Videsott; nel 1929, lo spigolo ovest della Cima della Busazza, con Videsott e Leo Rittler). È il primo ad introdurre in Italia (non senza contrasti) e sviluppare razionalmente la classificazione delle difficoltà in montagna, con criteri internazionalmente riconosciuti. Collaboratore di molte riviste, detiene una dozzina di brevetti sulla cinematografia e televisione a colori (da lui inventata, ma non sfruttata). Autore di diversi libri in Italia e in Germania, tra i quali Das Letzte im Fels (München, 1936) e Liberazione (Nuovi Sentieri, 1985).