L’incredibile storia di Sir Ernest Shackleton

Una storia stimolante di sopravvivenza che ha come protagonista un gruppo di uomini che, bloccati in Antartide per due anni, nelle peggiori condizioni possibili, sono riusciti a sopravvivere grazie all’abilità del loro eccellente leader, dimostrando così il valore del lavoro di squadra.

L’incredibile storia di Sir Ernest Shackleton
di Maurizio Bernardo Bianchi
(pubblicato su culturademontania.org.ar)

Cercansi uomini per un viaggio rischioso, con paga bassa, freddo estremo, lunghi mesi di buio totale, pericolo costante e nessuna garanzia di ritorno. Onore e riconoscimento in caso di successo“.

Questo era il testo dell’avviso che annunciava l’ultima grande avventura antartica. Che, a dispetto dello scarso appeal, ricevette non meno di 5.000 candidature. Ma solo 56 avrebbero poi costituito i due equipaggi che avrebbero dovuto portare a termine la missione: metà a bordo dell’Endurance, che sarebbe arrivata in Antartide attraverso il Mare di Weddell, e l’altra metà a bordo dell’Aurora, che sarebbe entrata attraverso il Mare di Ross.

Fotografia in studio di Ernest Shackleton.
Cercansi uomini per un viaggio rischioso, con paga bassa, freddo estremo, lunghi mesi di buio totale, pericolo costante e nessuna garanzia di ritorno. Onore e riconoscimento in caso di successo“.

Chi era Shackleton? La sua passione per l’Antartide 
Ernest Shackleton nacque a Kilkee, in Irlanda, il 15 febbraio 1874 e si arruolò nella Marina britannica a soli 16 anni. Ancora giovanissimo, nel 1901 partecipò alla spedizione “Discovery” in Antartide comandata dal capitano Robert Falcon Scott, che aveva come obiettivo quello di raggiungere il Polo Sud. In quell’occasione raggiunsero la latitudine 82° 17´ sud.
Tornato in Gran Bretagna, nel 1904 sposò Emily Mary Dorman, dalla quale ebbe tre figli. Tuttavia, la sua nuova situazione di vita non gli fece abbandonare le sue aspirazioni esplorative e così nell’agosto del 1907 partì nuovamente per l’Antartide, questa volta per una spedizione personale al comando della piccola baleniera “Nimrod”.

L’importanza scientifica di questa spedizione fu data dal fatto che riuscì a scoprire (il 16 gennaio 1909) il Polo magnetico australe: ma il tentativo di raggiungere il Polo Sud fu ancora una volta frustrato, a 88° 23´ di latitudine sud, a soli circa 170 chilometri dall’obiettivo. Comunque era il record del punto più a sud raggiunto dall’uomo, perciò gli valse il riconoscimento pubblico e la nomina a cavaliere del regno.

Sir Ernest Shackleton fu senza dubbio uno di coloro che parteciparono alla “corsa per la conquista del Polo Sud” e di questo gli furono riconosciuti i meriti.
Tuttavia, le sue speranze di essere il primo a raggiungere questo obiettivo furono infrante quando, il 14 dicembre 1911, il norvegese Roald Amundsen raggiunse finalmente il Polo Sud e, poche settimane dopo, lo stesso fece il capitano Robert Falcon Scott, la cui spedizione passò alla storia non tanto per il risultato (fu il secondo a riuscirci), quanto piuttosto per il suo doloroso esito, con la morte dei membri della spedizione per congelamento e fame a pochi chilometri da una base con rifornimenti.

Raggiunto l’obiettivo desiderato, conquistato il Polo Sud, Ernest Shackleton, lungi dallo scoraggiarsi, si pose subito un nuovo e più ambizioso obiettivo: “… l’attraversamento del continente del Polo Sud da un mare all’altro… ” Lui stesso descrisse questa avventura come “… l’ultimo e principale grande obiettivo dei viaggi in Antartide…”.

Shackleton negli uffici della Trans-Antarctic Expedition.
Negli uffici della Trans-Antarctic Expedition in Burlington Street, Londra, si ricevettero più di 5.000 richieste di partecipazione.

The imperial trans-antarctic expedition 
Questa spedizione, per le sue caratteristiche organizzative, per il suo obiettivo dichiarato, per il contesto in cui fu lanciata e perfino per come era il mondo in quel momento – che sarebbe stato trasformato proprio da un evento iniziato contemporaneamente alla spedizione: la prima guerra mondiale – potrebbe essere considerata l’ultima grande spedizione dell’«era della conquista polare». Anche il suo nome indicherebbe un’epoca in declino. Subito dopo la Grande Guerra, le spedizioni si sarebbero concentrate maggiormente sulle grandi montagne dell’Himalaya piuttosto che sui poli stessi, già conquistati. Tanto che l’Everest (la vetta più alta del mondo) cominciò a essere definito “il terzo Polo”.

La spedizione organizzata da Ernest Shackleton aveva nel nome non solo il termine descrittivo Spedizione e Transantartica (che ne indicava l’obiettivo), ma anche un altro termine specifico della nazione da cui proveniva: Imperiale. Non bisogna dimenticare che l’obiettivo britannico nell’incoraggiare queste spedizioni non era meramente scientifico, ma strategico, di conquista, di espansione di un impero che stava chiaramente iniziando a perdere lo splendore dei secoli precedenti.
La spedizione imperiale transantartica avrebbe dovuto essere la prima ad attraversare il continente antartico via terra e avrebbe dovuto coprire una distanza di circa 2.900 chilometri, partendo dal Mare di Weddell fino al Polo Sud e da lì dirigendosi verso il Mare di Ross. Uno dei fatti importanti di questa spedizione fu che, oltretutto, l’intera tratta dal Mare di Weddell al Polo Sud non era mai stata percorsa: terra del tutto inesplorata.
 

Ernest Shackleton nella sua uniforme della Marina Mercantile.
Shackleton presenta la moglie all’equipaggio prima che l’Endurance salpi.

Questa spedizione era composta da due equipaggi, uno che avrebbe attraversato il Mare di Weddell per sbarcare alcuni uomini sulla costa antartica e da lì iniziare il viaggio, e un altro che avrebbe attraversato il Mare di Ross per sbarcare gli uomini che avrebbero rifornito i depositi di rifornimenti lungo la piattaforma di ghiaccio di Ross, ai piedi del ghiacciaio Beardmore. Questo gruppo si accampò a McMurdo Sound. Questi depositi sarebbero stati essenziali per consentire l’attraversamento completo, poiché senza di essi il gruppo che avrebbe attraversato il continente non avrebbe avuto provviste sufficienti per completarlo.
Ernest Shackleton organizzò la spedizione con due navi: l’Endurance, che avrebbe portato il gruppo nel Mare di Weddell sotto il suo comando, e l’Aurora, che avrebbe portato il gruppo nel Mare di Ross al comando del capitano Aeneas Mackintosh.

La squadra che avrebbe attraversato l’Antartide sarebbe stata composta da sei uomini e avrebbe dovuto percorrere 2.900 chilometri a piedi, con l’ausilio di cani e due slitte motorizzate. Di questa distanza, 1.300 chilometri erano di territorio sconosciuto.

Organizzazione e partenza 

Al di là della fama raggiunta qualche anno prima, il fatto che il Polo Sud fosse già stato conquistato aveva fatto perdere interesse per l’Antartide e non fu facile per Ernest Shackleton ottenere i finanziamenti per la sua spedizione. Chiese supporto finanziario a coloro che lo avevano sostenuto in precedenza e che avevano finanziato Robert Scott, ma senza risultati positivi. Tuttavia, riuscì a ottenere supporto da William Speirs Bruce, che aveva guidato una spedizione scozzese nel 1902/04 e aveva già pianificato di attraversare l’Antartide nel 1908, ma non era riuscito a tentarlo precisamente a causa della mancanza di fondi.
Iniziò a preparare la spedizione a metà del 1913, ma non la rese pubblica finché non furono assicurati i fondi, cosa che avvenne nel gennaio 1914. Il famoso annuncio pubblicitario che invitava gli avventurieri fu pubblicato sul quotidiano The Times, che ebbe così tanto successo da non essere dimenticato nel tempo.
 

L’equipaggio dell’Endurance fotografato a Buenos Aires, Argentina.

Con sua grande delusione, nel marzo del 1914 parte degli aiuti finanziari promessi non si erano ancora concretizzati: Shackleton dovette disperatamente intraprendere una nuova ricerca. I suoi sforzi però ebbero successo e ci furono contributi dal governo, dalla Royal Geographical Society e da luoghi lontani come l’entroterra della Cina, il Giappone, la Nuova Zelanda e l’Australia, oltre che da ricchi donatori, in particolare lo scozzese James Caird, il cui nome fu poi immortalato sulla nave che avrebbe salvato i membri della spedizione.

A fini pubblicitari Ernest Schackleton diffuse il piano della sua spedizione, dove si affermava che il gruppo che avrebbe solcato il Mare di Weddell a bordo dell’Endurance avrebbe sbarcato 14 uomini nella baia di Vahsel e che 6 di loro avrebbero attraversato l’Antartide sotto il suo comando. Il gruppetto avrebbe portato con sé dei cani e due slitte motorizzate. Gli altri 8 uomini del gruppo sarebbero rimasti a svolgere attività scientifica nelle regioni di Graham Land e Enderby Land.
Riguardo alla squadra che avrebbe solcato il Mare di Ross a bordo dell’Aurora, spiegò che dopo lo sbarco nello stretto di McMurdo avrebbe rifornito gli ultimi 640 chilometri in modo da far trovare cibo e materiale agli uomini della traversata. Erano state stabilite le coordinate dei punti in cui sarebbero state depositate le scorte, partendo dai piedi del ghiacciaio Beardmore.

Come spesso accade in questi casi, Shackleton dovette faticare molto al suo ritorno per recuperare il denaro speso e per farlo fu costretto a vendere i diritti sulla storia della sua spedizione. Il primo problema per quell’uomo d’avventura fu sempre quello finanziario.
L’Endurance salpò da Londra venerdì 1° agosto 1914. L’imminente scoppio della prima guerra mondiale costrinse però Ernest Shackleton a mettere la sua nave e il suo equipaggio al servizio dell’Ammiragliato britannico per il conflitto: ma le autorità gli ordinarono di proseguire con la spedizione pianificata. Questo fatto ritardò la partenza, che ebbe luogo finalmente venerdì 8 agosto 1914 dal porto di Plymouth.
 

Mappa del percorso seguito dalla spedizione Endurance.
L’attraversamento della Georgia del Sud da parte di Shackleton.

Durante il suo viaggio verso sud, l’Endurance attraccò a Buenos Aires il 9 ottobre 1914 e lì accadde la stranezza: a bordo non salirono solo i 69 cani da slitta acquistati per la traversata (attività di cui era responsabile Hurley William Bakewell), ma anche un clandestino, Perce Blackborow, che non avrebbe mai immaginato il destino che la sua audace decisione gli avrebbe riservato.

Da lì partirono il 26 ottobre 1914 verso le Isole della Georgia del Sud, dove arrivarono il 5 novembre.
Lì trascorsero del tempo facendo i preparativi e aspettando l’arrivo di ulteriori rifornimenti dalla Gran Bretagna. In questo periodo sfruttarono l’opportunità di scambiare informazioni ed esperienze con i balenieri e lo stesso Ernest Shackleton si recò al porto di Stromness sull’isola, a 22 chilometri da Grytviken, il porto principale della Georgia del Sud. Conoscere Stromness avrebbe avuto un’importanza inimmaginabile nel destino finale di Shackleton e dei suoi uomini.
Infine, da Grytviken, il 5 dicembre 1914, l’Endurance salpò per l’Antartide.

Il capo, così chiamavano Shackleton, lavorava sulla nave in compagnia dei cani.

Intrappolati nel ghiaccio
Poco dopo l’inizio del viaggio, e senza dubbio molto prima del previsto – nonostante i balenieri della Georgia del Sud li avessero avvertiti – la spedizione ebbe la sorpresa di trovare la banchisa molto a nord, a 57° 26′ di latitudine sud, e fu lì che l’Endurance dovette iniziare a manovrare per evitare gli ostacoli ghiacciati. Era solo il 7 dicembre e il ghiaccio impediva già loro di procedere liberamente.

Nei giorni successivi incontrarono nuovamente la banchisa, finché il 14 dicembre il ghiaccio divenne piuttosto spesso e fermò la nave per 24 ore. Tre giorni dopo la nave si fermò di nuovo. Shackleton scrisse: “… mi ero preparato per condizioni difficili nel Mare di Weddell, ma mi aspettavo che il pack fosse molto più permissivo. Quello che stavamo incontrando era ghiaccio di natura molto densa e ostinata…“.

La descrizione che Ernest Shackleton fa del suo viaggio nel suo libro (Sud) è un susseguirsi di storie sugli inconvenienti che il ghiaccio causava loro giorno dopo giorno, costringendoli a cambiare continuamente rotta, a schivare ostacoli e a prestare particolare attenzione sia per riuscire ad avanzare sia per evitare danni, poiché la nave entrava occasionalmente in contatto con il ghiaccio e riceveva forti colpi. La preoccupazione principale era proteggere l’elica e il timone.
Riguardo al movimento del ghiaccio, lo stesso Shackleton lo spiega nel modo seguente: “… la banchisa può essere descritta come un gigantesco e infinito puzzle progettato dalla natura. Le parti… sono fluttuate e si sono separate disordinatamente; in molti luoghi si sono riunite e di mano in mano che il pack si avvicina, le aree congestionate diventano più grandi e i pezzi vengono saldati assieme così strettamente da formare una superficie compatta, così compatta da poter essere attraversata in tutte le direzioni a piedi, sia pure con grande fatica e molta attenzione…”. Naturalmente, sono proprio queste grandi distese “percorribili a piedi” a ostacolare il passaggio delle imbarcazioni.

Avendo già superato i 62° di latitudine sud, paradossalmente l’arrivo dell’estate, il 21 dicembre 1914, portò temperature sotto lo zero che aggravarono la situazione dei ghiacci. Tuttavia, grazie a grandi sforzi e a un lavoro qualificato, l’ultimo giorno di quell’anno la nave aveva percorso circa 480 miglia (circa 770 km) di un viaggio stimato di 700 miglia (circa 1125 km) attraverso la banchisa, da quando vi era entrata l’11 dicembre.
 

Frank Arthur Worsley, eccellente navigatore, prende la posizione con il sestante. Foto: Frank Hurley.
Il nostromo John Vincent ripara una rete, 1915. Foto: Frank Hurley.

Il 10 gennaio 1915, alle cinque del pomeriggio, avvistarono terra e Shackleton la chiamò “Caird Land” in memoria e onore del principale benefattore scozzese della sua spedizione. Poi continuarono verso ovest fino a poche centinaia di metri da grandi muraglie di ghiaccio che chiamarono “la barriera”.
Entro il 15 gennaio 1915 avevano raggiunto la latitudine sud 76° 27´ e la longitudine ovest 28° 51´ ed erano circondati da iceberg molto grandi, alcuni dei quali alti più di 200 piedi (circa 60 m). Il progresso nei giorni successivi fu molto complicato e lento fino al 19 gennaio; dopo aver raggiunto la latitudine sud 76° 34´ e la longitudine ovest 31° 30´, l’Endurance rimase intrappolata nel ghiaccio durante la notte e dal ponte non si vedeva acqua in nessuna direzione. Lì effettuano una misurazione della profondità e scoprono che il fondale marino si trova a 312 braccia (circa 570 metri).

La burrasca da nord-est che imperversava dal 16 gennaio aveva compresso e sovraccaricato l’intera banchisa del Mare di Weddell contro la superficie terrestre e, a meno che un’altra tempesta non arrivasse nella direzione opposta, non c’era modo o forza al mondo che potesse liberare la nave.
Da quel giorno in poi, l’Endurance non verrà mai più liberata dalla sua “prigione bianca” e i membri della spedizione rimarranno “intrappolati nel ghiaccio”.
La deriva della calotta glaciale stessa portò la nave ancora più a sud e il 22 febbraio 1915 l’Endurance raggiunse il suo punto più a sud quando raggiunse il parallelo 77° di latitudine sud con 35° di longitudine ovest e ogni speranza di liberare la nave era esaurita poiché non solo si trovavano in questa situazione di “prigionieri del ghiaccio” da più di un mese, ma il termometro quel giorno “estivo” segnava -23,3°. Per la spedizione praticamente l’estate australe non esisteva.
Fu così che il 24 febbraio Ernest Shackleton ordinò che la routine quotidiana della nave Endurance venisse interrotta e che essa diventasse una “stazione invernale”, il che cambiò le abitudini delle occupazioni e degli obiettivi quotidiani.

Iceberg che galleggiano nel mare Antartico, come quelli che deve aver incontrato l’Endurance. Foto: Mauricio Bernardo Bianchi.

Membri della spedizione 
Come abbiamo già spiegato, i candidati per partecipare alla Spedizione Imperiale Transantartica erano numerosi, ma ne furono selezionati solo 56, 28 per ciascuna delle due navi.
I criteri utilizzati da Shackleton per la selezione dipendevano dalle esigenze del lavoro che sarebbe stato svolto lì. Per farlo, dovette chiamare sia marinai che scienziati, esploratori con esperienza polare, così come carpentieri e fotografi. Con questo obiettivo in mente, fu fatta la selezione finale. Tuttavia, anche al di là delle loro specializzazioni, la maggior parte dei prescelti fu scelta in base al puro intuito di Ernest Shackleton, le cui interviste duravano poco più di cinque minuti, se mai duravano così tanto.

A coloro che venivano selezionati veniva offerto uno stipendio che andava dai 240 dollari all’anno per i marinai fino ai 750 dollari all’anno per gli scienziati.
Fu allora che Ernest Shackleton scelse Frank Wild come secondo comandante. Era una sua vecchia conoscenza, poiché erano già stati compagni di viaggio nella spedizione Discovery di Scott e anche a bordo del Nimrod, da lui comandato. Aveva anche partecipato alla marcia verso il Polo Sud, quando raggiunsero il punto più a sud nel 1909. Era senza dubbio il suo più grande confidente. 

Assegni Lloyds Bank Limited di Shackleton: uno di questi riporta il pagamento a Frank Wild. Documenti dalla collezione di Shackleton.


Il capitano dell’Endurance nominato da Shackleton era Frank Worsley. La sua scelta è stata davvero singolare. Worsley stesso raccontò che una notte, mentre si trovava in un albergo di Londra, sognò che Burlington Street era piena di blocchi di ghiaccio attraverso i quali doveva guidare una nave. Secondo il suo racconto, la mattina dopo si recò in quella strada e mentre la percorreva vide una targa su una porta che annunciava la Spedizione Imperiale Transantartica ed entrò. Giunto in ufficio incontrò Shackleton che lo assunse quasi subito, nientemeno che come capitano dell’Endurance.
La nave sarebbe stata governata anche da Tom Crean, che sarebbe stato il secondo ufficiale, e da Alfred Cheetham, che sarebbe stato il terzo ufficiale. Il navigatore della nave sarebbe stato Huberth Taylor Hudson, più noto come Hubert Hudson.

Il team della spedizione comprendeva il meteorologo Leonard Hussey, il geologo James Wordie, il biologo Robert Clark, il fisico Reginald James e i chirurghi James Mcllroy e Alexander Macklin.
La spedizione è stata documentata dall’artista George Marston e dal fotografo e cameraman Frank Hurley.
Oltre a tutti quelli già citati, altri 13 uomini componevano l’equipaggio propriamente detto, dedicato alla conduzione della nave e alla soluzione di tutti gli inconvenienti che si presentavano a bordo: erano il carpentiere Henry McNish, l’ingegnere capo Lewis Rickinson, il secondo ingegnere Alexander Kerr, l’esperto di motori Thomas Ordee-Lees, il cuoco Charles Green, i fuochisti William Stevenson e Albert Holness e i marinai John Vincent, Timothy McCarthy, Walter How, William Bakewell e Thomas McLeod.

L’Endurance è rimasta bloccata nel ghiaccio. E’ l’aprile del 1915. Foto: Frank Hurley.
L’Endurance è circondata dal ghiaccio. Foto: Frank Hurley.

Un paragrafo a parte merita il caso del gallese Perce Blackborow, che si unì all’equipaggio come “clandestino”. Durante la permanenza dell’Endurance in Argentina ci fu il licenziamento del cuoco che, in partenza dalla Gran Bretagna, era salito a bordo della nave ubriaco e lavorava con riluttanza. Al suo posto venne assunto Charles Green, che “temporaneamente” portò con sé come assistente il diciottenne Perce Blackborow. Ma quando la nave stava per lasciare Buenos Aires con l’aiuto di Bakewell, How e McCarthy, egli vi salì a bordo e rimase nascosto in un armadio finché non fu scoperto e, data la ormai notevole distanza di navigazione, Ernest Shackleton decise che sarebbe dovuto restare a bordo. Questo personaggio aveva provato a unirsi rispondendo al bando, ma era stato respinto a causa della sua giovane età, della sua inesperienza e perché l’equipaggio era già abbastanza numeroso.

Si racconta che Shackleton, infuriato nel vedere il clandestino davanti a lui, gli disse: “… se finissimo il cibo e dovessimo mangiare qualcuno, tu saresti il ​​primo”. Hai capito?”. Il giovane accettò questa “condizione” e da quel momento divenne maggiordomo e aiuto cuoco. Certamente non sapeva di essersi unito ad una spedizione destinata a “fare la storia”, ma non proprio per il raggiungimento dell’obiettivo che si era prefissato.

Gli esseri viventi che si trovavano sulla nave non erano solo uomini: oltre ai cani sopra menzionati c’era un altro individuo: la “signora Chippy”. Che non era altri che un gatto, l’animale domestico del cuoco. Ci vollero molti mesi prima che capissero che la “Signora “Chippy” alla fine non era una gatta, bensì un gatto.
I 69 cani imbarcati a Buenos Aires non erano i soliti Husky di razza pura, bensì incroci di animali con pelo corto e lungo, muso corto e appuntito, in altre parole, una varietà inclassificabile. Erano cresciuti nelle foreste remote del Canada e quindi avevano un grande istinto e una grande resistenza al freddo, ma erano anche piuttosto selvaggi e quando litigavano tra loro solo la superiorità fisica degli uomini riusciva a separarli.

L’Endurance inizia a essere compressa dal ghiaccio oceanico. Foto: Frank Hurley.

Inverno in Antartide 
Il cambiamento di routine per far fronte al primo inverno australe (anche se erano ancora mesi estivi) comportò, tra le altre attività, il posizionamento delle cucce (che fino ad allora erano state sul ponte della nave) sulla banchisa e l’adattamento della nave agli spazi che gli uomini dovevano occupare quando la lunga notte australe e le tempeste avrebbero impedito loro di stare all’aperto.
Anche la caccia alle foche e ai pinguini per la carne e il grasso da usare come combustibile si intensificò e si cominciò a dedicare il tempo all’intrattenimento: gli sport principali praticati sulla banchisa erano l’hockey e il football. Quelli furono senza dubbio i primi eventi sportivi tenuti in Antartide.
Tentarono invano di utilizzare il radiotelegrafo per ascoltare le notizie dai segnali mensili trasmessi dalle Isole Falkland, ma non ci riuscirono: era evidente che le distanze erano troppo grandi.

Durante il mese di febbraio tutto era relativamente facile, gli animali erano molti e si potevano cacciare, ma all’inizio di marzo gli animali cominciarono a scomparire e la caccia dovette estendersi su grandi distanze, il che rese più difficoltoso il trasporto poiché alcune foche pesavano più di 150 chili.
I cani cominciarono ad ammalarsi e in quelle settimane ne morirono 15, finché i medici scoprirono che la causa erano alcuni vermi lunghi fino a 30 centimetri: sfortunatamente, la spedizione aveva dimenticato di portare con sé preparati in polvere anti-vermi. Durante questo periodo, nonostante la morte dei 15 cani, nacquero due cucciolate: di queste sopravvissero 8 cuccioli.

All’inizio di aprile l’equipaggio era riuscito ad accumulare più di due tonnellate di carne fresca e grasso, tanto che Shackleton stimò di avere provviste per tre mesi senza dover ricorrere a quelle che aveva portato con sé.
Non tutto era tranquillo in questa situazione già preoccupante e il 14 aprile Shackleton stesso scrisse nel suo diario di viaggio riguardo alla massa glaciale che “… si stava accumulando e muovendo contro altre masse di ghiaccio…” se la nave fosse stata coinvolta in questi movimenti “… si sarebbe frantumata come un guscio d’uovo…”.

I cani vengono fatti uscire per tenerli in esercizio. Foto: Frank Hurley.
L’Endurance è quasi completamente adagiata sul lato sinistro nel ghiaccio oceanico. Foto: Frank Hurley.

A maggio la nave si trovava a 75° 23′ di latitudine sud e 42° 14′ di longitudine ovest e stava ancora andando alla deriva, generalmente verso nord, allontanandosi sempre di più dal suo obiettivo originale di sbarcare nella baia di Vahsel, sebbene Shackleton nutrisse ancora la speranza che una volta liberata dai ghiacci, l’Endurance avrebbe potuto salpare verso quella destinazione in primavera.
L’altra alternativa che Ernest Shackleton stava considerando durante quei giorni di prigionia nel ghiaccio era che la deriva lo avrebbe finalmente liberato, dandogli la possibilità di tentare uno sbarco alternativo sulla costa occidentale del Mare di Weddell, se fosse stato possibile raggiungere quel luogo.

Nei mesi di maggio, giugno e luglio regnava una relativa calma e il compito principale di Ernest Shackleton era quello di mantenere l’equipaggio in forma, addestrarlo e tenere alto il morale. In questo compito, quello di mantenere l’ordine e gli obiettivi, dimostrava un’abilità senza pari. Oltre alle partite di calcio e di hockey sopra menzionate, si tenevano anche corse di cani, a dispetto del buio invernale australe, e spettacoli teatrali serali.

Forse la tempesta peggiore dell’inverno polare fu quella che sopportarono verso metà luglio. Il 14, verso la fine del pomeriggio, cominciò a nevicare e la mattina seguente il vento da sud-ovest raggiunse velocità di oltre 110 chilometri orari, scuotendo e facendo vibrare la nave. In quella tempesta la temperatura ha raggiunto i 37° sotto zero. Nel giro di poche ore si erano accumulati quattro metri di neve sul lato sopravvento della nave: si stimava che il suo peso superasse le 100 tonnellate e che il peso di così tanta neve avrebbe addirittura fatto sprofondare gli iceberg. L’Endurance fu sommersa trenta centimetri. La furiosa tempesta durò due giorni.
Prima di questa tempesta la piattaforma di ghiaccio era una massa solida, ma con il peso della neve aveva iniziato a creparsi e a nord si era creata una zona di mare aperto. Così accadde che i primi segnali di rottura del ghiaccio si verificarono il 22 luglio e soprattutto il 1° agosto 1915, durante una burrasca da sud-ovest con forti nevicate. A quella data l’Endurance si trovava a 72° 26′ di latitudine sud e 48° 10′ di longitudine ovest. La banchisa iniziò a rompersi attorno alla nave, ma la pressione spinse le masse di ghiaccio sotto la chiglia e causò un notevole sbandamento a sinistra.

La situazione divenne estremamente pericolosa e ciò fu registrato dallo stesso Ernest Shackleton nel suo diario, dove scrisse: “… l’effetto della pressione attorno a noi era impressionante. Enormi blocchi di ghiaccio… si sollevavano lentamente fino a scoppiare come noccioli di ciliegia schiacciati tra le dita… se la nave fosse mai rimasta saldamente intrappolata, il suo destino sarebbe stato segnato…”. Tuttavia, questi attacchi dalla “prigione bianca” cessarono e il pericolo passò. Le settimane successive furono relativamente tranquille.

Inclinazione a babordo, 19 ottobre 1915. Foto: Frank Hurley.

Ma l’inverno stava passando e la primavera cominciava ad avvicinarsi. All’inizio di settembre ricomparvero ondate significative che avrebbero continuato a ripetersi regolarmente e in modo intermittente. Così, il 30 settembre, la nave sopportò quella che fu definita come “… la pressione peggiore che abbiamo mai sperimentato…”. Tuttavia, ancora una volta l’Endurance resistette a quella che il suo capitano, Frank Worsley, definì come “… una pressione terribile che ci scaraventò da una parte all’altra come una trottola una dozzina di volte…”. Per tre volte la nave aveva subito un’enorme pressione da parte del ghiaccio e per tre volte aveva resistito, il che accrebbe la fiducia degli uomini nell’Endurance.

Per quanto riguarda il comportamento dell’Endurance tra i ghiacci, occorre ricordare che questa nave era stata costruita in Norvegia appositamente per poter far fronte a queste situazioni e qui vale la pena riflettere sul fatto che in questo senso era diversa dalla famosa Fram, la nave di Nansen e Amundsen, che era stata progettata per restare circondata dai ghiacci e andare alla deriva in quel modo per mesi (in realtà era stata espressamente progettata per quello scopo). Lo scafo del Fram aveva una sezione arrotondata che lo rendeva più resistente all’intrappolamento, poiché quando la pressione del ghiaccio agiva orizzontalmente su di esso, questo saliva verso la superficie. Al contrario, l’Endurance era una nave di costruzione più classica, con pareti verticali che la rendevano più vulnerabile alla spinta delle placche. Tuttavia, la sezione rotonda del Fram lo rendeva lento e difficile da governare, e questo problema era stato evitato sull’Endurance, che doveva attraversare l’emisfero settentrionale per raggiungere i suoi obiettivi. Questa differenza costruttiva si rivelò letale per l’Endurance.

Ernest Shackleton, nonostante i suoi desideri, aveva già maturato l’idea che il momento cruciale per l’Endurance non sarebbe stato il rigido inverno, bensì l’arrivo della primavera, quando l’inizio dello scioglimento dei ghiacci si sarebbe unito alle forze del mare e delle condizioni meteorologiche, producendo movimenti estremi. Paradossalmente, il momento in cui la nave poteva liberarsi dal ghiaccio sarebbe stato il più pericoloso.
Il 16 e 17 ottobre 1915, la speranza tornò a farsi sentire quando si aprì una crepa nel ghiaccio davanti alla nave. Si cercò di muovere la barca con i motori per tre ore e poi anche con le vele, ma l’Endurance non si mosse. Il giorno dopo le crepe si erano richiuse e la pressione era tornata con tale intensità che nel pomeriggio la nave si era inclinata di 20° nel giro di pochi minuti, fino a raggiungere un’inclinazione di 30°. La situazione rimase in questo modo per diverse ore, finché il ghiaccio non cedette e la nave tornò alla sua posizione quasi normale.

Sebbene l’Endurance avesse dimostrato di essere in grado di sopportare pressioni enormi e costanti, la situazione divenne disperata; tuttavia, i giorni successivi trascorsero tranquilli finché, il 24 ottobre 1915, il lato di dritta entrò in collisione con un grande iceberg. La pressione del ghiaccio su quel lato della nave aumentò fino a quando lo scafo cominciò a ruotare e a scheggiarsi, dopodiché l’acqua cominciò a entrare nella nave.
La descrizione di uno dei membri dell’equipaggio era eloquente: Macklin scrisse che la sensazione che produceva era che “… stava accadendo qualcosa di colossale, qualcosa di una natura troppo grande per essere compresa…” Si riferiva al fenomeno che avevano visto sul ghiaccio, che avanzava come un’ondata distruttiva.
Il ghiaccio spaccò prima la poppa: si tentò di liberarla dall’acqua, ma senza successo nonostante il duro e costante lavoro. All’alba Ernest Shackleton ordinò di calare i cani e di liberare le scialuppe di salvataggio. Quello stesso giorno, quando ormai era notte, venne finalmente dato l’ordine di abbandonare la nave, che si era inclinata perché un iceberg ne aveva sollevato la poppa di sei metri, facendo sì che l’acqua lì accumulata si riversasse verso prua e gelasse. Non c’era alternativa: la nave sarebbe affondata.
L’Endurance venne abbandonata a 69° 05′ di latitudine sud e 51° 30′ di longitudine ovest.

Il relitto dell’Endurance, schiacciata dal ghiaccio, era stata la casa di tutti per dodici mesi. Foto: Frank Hurley.

L’accampamento sul ghiaccio
Con la perdita dell’Endurance, gli uomini erano senza dubbio esposti non solo alle condizioni meteorologiche, ma stavano anche “accampandosi sul ghiaccio”, il che significava l’instabilità totale di quel “pavimento” temporaneo fino a quando l’arrivo dell’estate non lo avesse definitivamente distrutto assieme a tutto il resto della banchisa. Ernest Shackleton lo sapeva benissimo e per questo, abbandonato il progetto di attraversare l’Antartide, dovette concentrarsi sulla sopravvivenza dei membri della spedizione.

Con questo obiettivo, Ernest Shackleton voleva spostare l’equipaggio sull’isola di Snow Hill perché era lì che la spedizione svedese di Otto Nordenskjold aveva fatto base tra il 1902 e il 1904 e sapeva che lì erano rimaste provviste per le emergenze. Un’altra alternativa a cui stava pensando era Paulet Island, dove sapeva che c’era un importante magazzino alimentare, oppure Robertson Island.

Shackleton stimò che avrebbero potuto attraversare la Terra di Graham da una qualsiasi di queste isole e raggiungere le stazioni baleniere situate nella baia di Wilhelmina. Stimarono che la distanza dalla loro posizione a Snow Hill Island fosse di circa 500 chilometri e che la distanza fino a Wilhelmina Bay fosse di altri 190 chilometri. Per compiere queste traversate era essenziale procurarsi cibo, carburante, equipaggiamento di sopravvivenza e le tre scialuppe di salvataggio di cui era dotata l’Endurance.

Il viaggio iniziò il 30 ottobre 1915, ma ben presto sorsero problemi dovuti alle condizioni del ghiaccio circostante, rendendo il viaggio quasi impossibile. Con l’aumentare della pressione orizzontale, il ghiaccio si piegava e si sollevava, formando creste di pressione che creavano barriere alte fino a tre metri. Tuttavia, l’equipaggio lottò duramente contro il terreno difficile, riuscendo però ad avanzare solo di poco più di tre chilometri in due giorni.
Il 1° novembre Ernest Shackleton decise che quella era una perdita di tempo che avrebbe esaurito i suoi uomini e le sue risorse, quindi decise di continuare a navigare sul ghiaccio, sperando che ciò li avrebbe avvicinati alla terraferma mentre aspettavano che il ghiaccio si rompesse. Chiamarono il luogo dove soggiornavano “Ocean Camp”. Era il blocco di ghiaccio piatto e stabile sul quale avevano interrotto la loro marcia abortita.

Poiché si trovavano solo a breve distanza dall’accampamento, i membri della spedizione continuarono a visitare l’Endurance – o ciò che ne restava – che stava ancora sprofondando nel ghiaccio. Molti dei materiali inizialmente abbandonati poterono essere recuperati.
Tra gli oggetti più importanti da non abbandonare c’erano le fotografie su lastra di vetro di Frank Hurley. Per riuscirci, dovette selezionare solo 150 delle 550 fotografie che aveva scattato. Shackleton lo costrinse a rompere il resto per evitare la tentazione di sovraccaricarsi portandole con sé.
Il recupero dei materiali continuò fino al 21 novembre 1915. Fu quel giorno che la nave affondò definitivamente sotto il ghiaccio.

L’affondamento dell’Endurance dopo una lunga agonia diventa realtà. Foto: Frank Hurley.

Dal 1° novembre la velocità della deriva del ghiaccio – e di conseguenza dell’accampamento – cominciò ad aumentare e il 7 novembre era già di circa cinque chilometri al giorno. Il 5 dicembre avevano superato i 68° di latitudine sud, ma la direzione stava cambiando da est a nord. Ciò li portò in una posizione dalla quale sarebbe stato difficile o impossibile procedere nel modo previsto per raggiungere Snow Hill Island. Con questo nuovo orientamento, l’isola Paulet divenne la destinazione più probabile. L’isola distava circa 400 chilometri ed Ernest Shackleton era preoccupato, per raggiungerla, di ridurre la lunghezza del viaggio in scialuppa di salvataggio necessario. Per questo il 21 dicembre annunciò una seconda marcia che sarebbe iniziata due giorni dopo.

Ma nonostante l’intenzione annunciata, il ghiaccio continuava a presentare gli stessi problemi di percorribilità del tentativo precedente e, a peggiorare le cose, la temperatura era aumentata ed era sgradevolmente calda. Ogni tentativo di muoversi sul ghiaccio, soprattutto con un peso, li faceva sprofondare fino alle ginocchia nella neve soffice. Era difficilissimo il trascinamento delle scialuppe.

In mezzo a tutto questo, sorse un altro inconveniente: il 27 dicembre 1915, il carpentiere della nave Harry McNish si ribellò e si rifiutò di continuare a lavorare. Sosteneva che, con l’affondamento dell’Endurance, le leggi dell’Ammiragliato non erano più applicabili e che quindi non era subordinato agli ordini di Ernest Shackleton. La ferma risposta del falegname lo indusse a riconsiderare il suo atteggiamento, ma l’incidente non fu mai dimenticato. In seguito Harry McNish avrebbe dato un importante contributo al salvataggio dei membri della spedizione, ma fu comunque uno dei quattro membri dell’equipaggio a cui fu rifiutata la medaglia polare al ritorno in Gran Bretagna.

Due giorni dopo, e avendo percorso solo dodici chilometri in sette giorni, Ernest Shackleton ordinò una sosta, osservando logicamente che “… ci sarebbero voluti trecento giorni per raggiungere la terraferma…”.

Shackleton e il Wild Ocean Camp in primo piano. Foto: Frank Hurley.

Campo pazienza
Dopo aver escluso ogni tentativo di avanzare sul ghiaccio, il gruppo montò nuovamente le tende e si stabilì in quello che Ernest Shackleton chiamò “Camp Patience”, che sarebbe stata la loro casa per più di tre mesi. Le scorte stavano scarseggiando e Hurley e Macklin furono incaricati di tornare al “Camp Ocean” per recuperare parte del cibo che avevano lasciato indietro per alleggerire il carico.
Un fatto che sarà fondamentale anche in futuro è che il 2 febbraio 1916 Ernest Shackleton impegnò parte del gruppo per recuperare la terza scialuppa, anch’essa abbandonata.

Con il passare delle settimane la carenza di cibo divenne critica. La carne di foca, che fino ad allora aveva aggiunto varietà alla loro dieta, divenne un alimento base quando Ernest Shackleton cercò di conservare le restanti razioni confezionate.

A causa della mancanza di cibo, nel mese di gennaio venne ordinato l’abbattimento di buona parte dei i cani, poiché consumavano troppa carne di foca e questa doveva essere conservata per gli uomini. Sebbene fosse vero che il numero dei cani si era già notevolmente ridotto a causa di incidenti o malattie, fu comunque un momento di grande tristezza per questi uomini duri perdere i loro fedeli amici di tanti mesi e disgrazie. Ernest Shackleton ordinò che fossero risparmiati solo due gruppi di cani, che avrebbero potuto essere utilizzati in seguito. Anche il gatto Mrs. Chippy fu soppresso.
Il destino di questi due gruppi di cani però fu quello di costituire ulteriori razioni di carne per gli uomini: perché vennero macellati il ​​2 aprile 1916, a causa della pressante mancanza di cibo. 

Ocean Camp. Questa è una delle ultime foto scattate da Hurley con la sua macchina fotografica professionale. Dietro si può vedere la torretta di osservazione. Foto: Frank Hurley.

Mentre tutto ciò accadeva, la tendenza alla deriva divenne sempre più irregolare. Per alcune settimane si era tenuta intorno ai 67°, ma verso la fine di gennaio si verificò una serie di rapidi spostamenti verso nord-est che, entro il 17 marzo, portarono “Camp Patience” alla latitudine dell’isola Paulet, ma a circa 100 chilometri a est.

Paradossalmente, la terra era costantemente visibile. Mentre il gruppo avanzava lentamente, si vedeva la cima del monte Haddington sull’isola James Ross. Con Snow Hill Island e Paulet Island ormai inaccessibili, Ernest Shackleton scrisse il 25 marzo che tutte le speranze erano riposte su due piccole isole a nord di Graham Land: Clarence Island ed Elephant Island, circa 160 chilometri a nord della sua posizione. Tuttavia, ci pensò su e decise che Deception Island avrebbe potuto essere una destinazione migliore.

In realtà quest’isola era molto lontana e si trovava a ovest, verso l’estremità della catena che formava le Isole Shetland Meridionali, ma l’idea di Ernest Shackleton era di arrivarci “saltando da un’isola all’altra”. Il grande vantaggio di questa opzione era che Deception Island era spesso visitata dai balenieri ed era molto probabile che contenesse provviste.

Niente era facile, ognuna di queste destinazioni avrebbe richiesto un pericoloso viaggio sulle scialuppe di salvataggio allorché il blocco di ghiaccio su cui erano si fosse finalmente rotto. Prima di intraprendere questo viaggio, le scialuppe di salvataggio furono chiamate con i nomi dei principali finanziatori della spedizione: James Caird, Dudley Docker e Stancomb Wills.

Lees e Green cucinano sul ghiaccio, con i volti anneriti dal fumo della stufa. Foto: Frank Hurley.

Tre barche che navigano nel Mare del Sud 
La fine della permanenza al Patience Camp giunse bruscamente la notte dell’8 aprile, quando il blocco di ghiaccio si ruppe all’improvviso e, per fortuna, nessuno degli uomini cadde nelle gelide acque del mare.

L’accampamento si trovava ora su una piccola zattera triangolare di ghiaccio: un’ulteriore rottura avrebbe significato un disastro. Shackleton aveva pronte le scialuppe di salvataggio nel caso in cui il gruppo avesse dovuto abbandonare l’isolotto all’improvviso. Aveva deciso in precedenza che, se possibile, avrebbero cercato di raggiungere la lontana isola di Deception, perché si diceva che lì, oltre a possibili provviste, ci fosse una piccola chiesa di legno costruita dai balenieri. Ciò poteva fornire una fonte di legname con cui costruire una barca.

All’una del pomeriggio del 9 aprile venne varato il Dudley Docker e un’ora dopo le tre scialuppe erano in mare. Ernest Shackleton comandava la James Caird, Frank Worsley la Dudley Docker e l’ufficiale Huberht Hudson era nominalmente responsabile della Stancomb Willls, anche se a causa del suo cattivo stato mentale, il comando effettivo era affidato a Tom Crean.

La traversata in mare sulle precarie scialuppe di salvataggio rese i giorni successivi difficili ed estremamente rischiosi. Le navi si muovevano tra i ghiacci seguendo le vie d’acqua che si aprivano, con un avanzamento pericoloso e irregolare. Spesso le navi si arenavano sul pack o andavano alla deriva su di esso, mentre gli uomini si accampavano e aspettavano che le condizioni migliorassero.

Ernest Shackleton era di nuovo indeciso tra diverse possibili destinazioni e il 12 aprile scartò le varie opzioni insulari e scelse Hope Bay, all’estremità della Terra di Graham. Tuttavia, le condizioni sulle scialuppe, con temperature che spesso scendevano sotto i -30°, poco cibo e acqua gelida, stavano esaurendo gli uomini, fisicamente e mentalmente, e così Ernest Shackleton decise che Elephant Island, il rifugio più vicino possibile, era ormai l’unica opzione praticabile.

Il 14 aprile le navi si trovavano sulla costa sud-orientale dell’isola, ma non c’era possibilità di sbarcare, poiché la costa era una scogliera perpendicolare di roccia e ghiacciai. Il giorno dopo la James Caird doppiò l’estremità orientale dell’isola per raggiungere la costa settentrionale, dove finalmente scoprirono una stretta spiaggia di ciottoli sulla quale fu deciso di sbarcare.

Le tre imbarcazioni, che si erano separate la notte precedente, si incontrarono nuovamente nel punto di sbarco. Dai segni dell’alta marea, si resero subito conto che quella spiaggia non sarebbe stata adatta per campeggiare a lungo termine. Il giorno dopo, Frank Wild e l’equipaggio della Stancomb Wills esplorarono la costa alla ricerca di un posto migliore. Tornarono con la notizia di un lungo tratto di terra a sette miglia a ovest, che sembrava adatto per accamparsi. Senza perdere tempo, gli uomini tornarono alle navi e si trasferirono in questa nuova località, che in seguito avrebbero chiamato Point Wild.

Come per l’Endurance durante l’inverno, l’Ocean Camp e il Patience Camp, questa sarebbe stata la loro nuova sistemazione per diversi mesi.
Era la prima volta in non meno di 15 mesi (da quando avevano lasciato la Georgia del Sud) che i membri della spedizione mettevano piede su terraferma.

La lunga tenda-cucina dell’Ocean Camp era realizzata con vele e alberi di nave. Foto: Frank Hurley.

Il viaggio della barca James Caird 
Elephant Island era (ed è ancora oggi, un secolo dopo) un luogo remoto e disabitato, raramente visitato da balenieri o altre navi. Se la spedizione avesse voluto tornare alla civiltà, avrebbe dovuto cercare aiuto.
Nacque un’idea audace, ma forse l’unica realistica per realizzarla: si pianificò di adattare una delle navi per percorrere 1.300 chilometri attraverso l’Oceano Atlantico meridionale, fino alle Isole della Georgia del Sud.

Ernest Shackleton aveva abbandonato l’idea di spostare l’equipaggio a Deception Island, presumibilmente perché le condizioni fisiche dell’equipaggio non consentivano un’ulteriore esposizione al mare agitato invernale.
Sebbene sia la Terra del Fuoco che le Isole Falkland fossero più vicine della Georgia del Sud, era necessario navigare contro venti forti e la rotta per raggiungere queste ultime poteva essere favorita dalla direzione dei venti e delle correnti marine.
In questo contesto Ernest Shackleton selezionò il suo equipaggio composto da lui stesso, Frank Worsley come navigatore, Tom Crean, Harry McNish, John Vincent e Timothy McCarthy.

Ernest Shackleton incaricò il falegname Harry McNish di adattare la James Caird: questi abilmente vi appose un ponte utilizzando legno e tela e rinforzò la chiglia con l’albero di una delle imbarcazioni. Lasciò Frank Wild al comando del gruppo che rimaneva su Elephant Island, con l’ordine di partire per Deception Island la primavera successiva se lui stesso non fosse tornato. Shackleton portò con sé solo provviste per quattro settimane, sapendo che se non avesse raggiunto terra entro quel lasso di tempo la nave sarebbe andata perduta comunque.

Il James Caird era un’imbarcazione di soli 6,85 metri e iniziò il suo viaggio il 24 aprile 1916. Questo viaggio è stato considerato uno dei più straordinari nei Mari del Sud, poiché tutto dipendeva dalla precisione della navigazione di Frank Worsley, basata su osservazioni che dovevano essere fatte nelle condizioni più avverse con un sestante.

Il vento prevalente era quello previsto, vale a dire da nord-ovest, ma le condizioni agitate del mare inzupparono l’intera barca di acqua ghiacciata. Ben presto il ghiaccio formò uno spesso strato sulla barca, rallentandone il viaggio. Il 5 maggio una burrasca da nord-ovest rischiò di distruggerla. Ernest Shackleton la descrisse come “… l’onda più grande che avesse visto in ventisei anni in mare…”. L’8 maggio, grazie alla navigazione precisa di Frank Worsley, riuscirono ad avvistare le Isole della Georgia del Sud, dopo quattordici giorni di lotta contro gli elementi che avevano spinto l’imbarcazione e i suoi occupanti al limite della sopportazione.

Due giorni dopo, in una lunga lotta contro il mare agitato e i venti violenti come un uragano nel sud dell’isola, l’equipaggio esausto raggiunse la terraferma nella baia di Re Haakon. Ma quella non sarebbe stata la loro ultima tappa. Dovettero cambiare ancora una volta il loro punto di attracco per trovare un posto più sicuro in cui il gruppo potesse rimanere, poiché, sebbene avessero raggiunto l’obiettivo di raggiungere la Georgia del Sud, dovevano ancora diventare alpinisti.

Durante il viaggio a piedi, i cani trainavano queste grandi slitte. Foto: Frank Hurley.

Attraversando le montagne della Georgia del Sud 
L’arrivo dell’imbarcazione con i sei membri dell’equipaggio a King Haakon Bay fu seguito da un periodo di necessario riposo e recupero, mentre Ernest Shackleton rifletteva sulla sua mossa successiva, poiché la popolazione nei porti delle baleniere della Georgia del Sud si trovava sulla costa settentrionale, cioè sul lato opposto a quello su cui erano arrivati. Per arrivarci era necessario un altro giro in barca attorno all’isola o un viaggio via terra attraverso il suo interno inesplorato.
Entrambe le opzioni erano complicate, poiché le condizioni dell’imbarcazione James Caird e lo stato fisico dell’equipaggio, in particolare di Vincent e McNish, facevano sì che solo la seconda opzione fosse praticabile.
Dopo cinque giorni dall’arrivo sulla terraferma e dopo essersi un po’ ripresi dal viaggio, l’equipaggio spostò la nave un po’ più a est, fino all’estremità di una baia profonda che sarebbe stata il punto di partenza della traversata.
Ernest Shackleton, Frank Worsley e Tom Crean avrebbero intrapreso il viaggio via terra, mentre gli altri sarebbero rimasti accampati in quello che loro stessi chiamarono Peggotty Camp.
La partenza degli ormai “alpinisti” fu ritardata da un temporale il 18 maggio, ma alle due del mattino seguente il tempo era sereno e calmo e un’ora dopo il gruppo iniziò lo straordinario viaggio, l’ultimo tentativo di raggiungere un villaggio.
Attraversare montagne in una geografia sconosciuta e inesplorata, senza alcuna mappa e guidati solo da congetture, intuizione e senso dell’orientamento, è stato uno dei viaggi più straordinari mai intrapresi da marinai trasformati in alpinisti: un momento fulgido nella storia dell’esplorazione.
Già prima dell’alba erano saliti a 910 metri di quota e da lì si poteva scorgere la costa settentrionale. Si trovavano sopra Possession Bay, il che significava che erano troppo a ovest e avrebbero dovuto spostarsi verso est per raggiungere Stromness, la stazione baleniera di destinazione. Ciò significava dover fare la prima di numerose deviazioni che avrebbero allungato il viaggio e frustrato gli uomini. Al termine del primo giorno, avevano bisogno di scendere nella valle sottostante prima che facesse notte e colsero l’occasione per scivolare lungo un pendio su una slitta improvvisata fatta con una corda.
Non pensarono di riposarsi: viaggiarono al chiaro di luna, risalendo verso la catena montuosa successiva. La mattina presto del giorno dopo, quando videro il porto di Husvik sotto di loro, capirono di essere sulla strada giusta. Alle sette del mattino udirono il suono della sirena a vapore della stazione baleniera, che era proprio come lo definirono: “… il primo suono prodotto da un essere umano esterno che giungeva alle nostre orecchie da quando lasciammo Stromness Bay nel dicembre 1914…”. Dopo una discesa difficile, che contemplava il superamento di una seraccata, finalmente raggiunsero un luogo sicuro.
Ernest Shackleton, che non era un uomo religioso, scrisse in seguito: “… Non ho dubbi che la Provvidenza ci abbia guidati… So che durante quella lunga e terribile marcia di trentasei ore sulle montagne e sui ghiacciai senza nome, spesso mi è sembrato che fossimo in quattro e non in tre…“.

Patience Camp. Hurley e Shackleton seduti all’ingresso della loro tenda. Foto: Frank Hurley.

Le difficoltà del salvataggio
Nonostante il viaggio estenuante e incredibile non ci fu tregua e il primo compito di Ernest Shackleton una volta arrivato alla stazione di Stromness fu quello di chiedere che i suoi tre compagni di Peggoty Camp venissero prelevati. Una baleniera fu inviata attorno all’isola, con Frank Worsley a bordo per indicare la rotta, e prima della sera del 21 maggio tutti e sei i membri dell’equipaggio della James Caird erano insieme sani e salvi.
A quel punto Ernest Shackleton iniziò immediatamente a cercare di salvare i 22 uomini di Elephant Island, preoccupato soprattutto dall’imminente arrivo di un altro inverno australe.

Ma come per ogni cosa in questa spedizione, niente era facile. Nel contesto della prima guerra mondiale, che era in pieno svolgimento, non c’era alcuna possibilità di aiuto dalla Gran Bretagna. Ci vollero quattro tentativi prima che Ernest Shackleton riuscisse a tornare a Elephant Island per salvare il gruppo rimasto laggiù.
Tentò la prima volta appena tre giorni dopo aver raggiunto la Georgia del Sud, assicurandosi l’uso di una grande baleniera, la Southern Sky, attraccata nel porto di Husvik. Ernest Shackleton radunò un equipaggio di volontari pronto a salpare la mattina del 22 maggio. Mentre la nave si avvicinava a Elephant Island, incontrò un’impenetrabile barriera di ghiaccio a circa 110 chilometri di distanza. La Southern Sky non era una nave rompighiaccio e si ritirò a Port Stanley nelle Isole Falkland. Una volta giunto lì, Ernest Shackleton informò Londra tramite un telegramma della loro posizione e chiese che una nave adatta venisse inviata a sud per le operazioni di salvataggio. L’Ammiragliato lo informò che non era disponibile nulla prima di ottobre, il che, a suo avviso, era troppo tardi.

Fu allora, con l’aiuto del ministero britannico a Montevideo, che Ernest Shackleton ottenne dal governo uruguaiano il prestito di un robusto peschereccio, l’Instituto de Pesca No. 1, che salpò verso sud il 10 giugno 1916. Ma ancora una volta i suoi piani furono ostacolati dal ghiaccio.
Alla ricerca di un’altra nave, Ernest Shackleton, Frank Worsley e Tom Crean si recarono a Punta Arenas, in Cile, dove incontrarono Allan McDonald, proprietario britannico della goletta Emma. Allan McDonald equipaggiò questa nave per un altro tentativo di salvataggio che partì il 12 luglio, ma con lo stesso esito negativo, poiché ancora una volta la barriera di ghiaccio impedì l’accesso.

Era già metà agosto 1916 ed Ernest Shackleton pregò il governo cileno di lasciargli utilizzare lo Yelcho, un piccolo ma robusto battello a vapore che aveva aiutato l’Emma nel tentativo precedente. Il governo acconsentì e il 25 agosto lo Yelcho, con il suo capitano Luis Pardo Villalón, salpò verso Elephant Island. Questa volta, come scrisse Ernest Shackleton, la Provvidenza fu dalla loro parte. Il mare era aperto e la nave poté avvicinarsi alla costa dell’isola, avvolta in una fitta nebbia. Alle 11.40 del 30 agosto 1916 la nebbia si diradò, il paesaggio divenne limpido e nel giro di un’ora tutti gli uomini di Elephant Island erano a bordo, diretti a Punta Arenas, in Cile.
Due anni e ventidue giorni dopo aver lasciato la Gran Bretagna e tutti gli eventi e le situazioni drammatiche vissute, i membri della Spedizione Imperiale Transantartica erano di nuovo sani e salvi grazie alla guida di Ernest Shackleton.

L’aspra Elephant Island che ospitò i membri della spedizione. Foto: Mauricio Bernardo Bianchi.

I naufraghi di Elephant Island
Dopo che Ernest Shackleton e altri cinque membri dell’equipaggio se ne furono andati con la barca James Caird, toccò a Frank Wild assumere il comando del gruppo di uomini rimasti su Elephant Island, alcuni dei quali erano in pessime condizioni fisiche e mentali.
Il primo compito da affrontare fu quello di dotarsi di un riparo permanente contro l’imminente inverno australe. Fu su suggerimento di Marston e Lionel Greenstreet che si decise di improvvisare una capanna (soprannominata “Snuggery”) abbattendo le loro due barche e posizionandole su muri di pietra per ottenere uno spazio sufficientemente alto da poter stare in piedi all’interno.
In questo modo ingegnoso, utilizzando tela e altri materiali, è stato possibile renderlo in qualche modo impermeabile. Era un riparo rustico e duro, ma estremamente efficace.

Nessuno di loro poteva prevedere quanto tempo avrebbero dovuto aspettare per essere soccorsi. Frank Wild era molto ottimista e inizialmente prevedeva che ci sarebbe voluto circa un mese. Per questo motivo si rifiutò di conservare a lungo la carne di foca e di pinguino perché, a suo avviso, quello era disfattismo. Ma questa disposizione portò a grandi disaccordi con Thomas Orde-Lees. A peggiorare le cose, Thomas Orde-Lees non era uomo così popolare e la sua presenza apparentemente non contribuiva molto a risollevare il morale dei suoi colleghi ufficiali, a meno che non fosse il bersaglio dei loro scherzi.

Frank Wild fece il possibile per stabilire e mantenere routine e attività che potessero alleviare la noia, anche se la realtà era che sulla stretta spiaggia in cui si trovavano e con i pochi oggetti rimasti dopo il lungo viaggio, non c’era molto da fare. Quando erano sul ghiaccio, le partite di football, l’hockey e le corse dei cani avevano intrattenuto gli uomini, ma ora nessuna di quelle attività era più possibile, e ciò divenne sempre più evidente, soprattutto con l’arrivo dell’inverno australe e con esso della lunga notte polare. Nel frattempo, le settimane passavano e l’attesa si estendeva ben oltre le ottimistiche previsioni iniziali.

Fu istituito un sistema di sorveglianza per l’arrivo presumibilmente imminente della nave di soccorso, furono organizzati turni di cucina e pulizia e furono programmate uscite per cacciare foche e pinguini. Per intrattenere gli uomini si tenevano concerti il ​​sabato e si festeggiavano i compleanni, ma nulla riusciva a fermare il crescente senso di sconforto mentre i mesi passavano senza che si vedesse traccia della nave.

Sbarco su Elephant Island, sulla terraferma, dopo 497 giorni trascorsi sui ghiacci dell’oceano. Foto: Frank Hurley.

In questo campo profughi di Elephant Island accadde per la prima volta qualcosa che non era mai accaduto prima a nessun altro uomo dell’equipaggio: le dita del piede sinistro di Blackborow divennero cancrenose a causa del congelamento e il 15 giugno dovettero essere amputate dai chirurghi Macklin e James McIlroy nella capanna illuminata da candele. Per l’operazione utilizzarono i resti di cloroformio che erano stati conservati nelle scorte mediche. L’operazione durò quasi un’ora e fu un completo successo, soprattutto considerando la situazione in cui aveva dovuto essere eseguita.

Il 23 agosto, le decisioni di Frank Wild in materia di cibo si rivelarono assolutamente sbagliate, accrescendo il pessimismo già prevalente in molti uomini. Il mare circostante era denso, con una banchisa che avrebbe fermato qualsiasi nave di soccorso; le scorte di cibo stavano finendo e non si vedeva alcun pinguino. In quelle circostanze Tom Orde-Lees scrisse: “… dovremo mangiare chiunque muoia per primo…”.

Di fronte a questa situazione, lo stesso Frank Wild cominciò a valutare seriamente e a pianificare la possibilità di fare una gita in barca a Deception Island, l’isola che sapevano essere regolarmente visitata dalle baleniere. La sua idea andò avanti a tal punto che progettò espressamente di partire il 5 ottobre.
Ma prima di quella data, il 30 agosto 1916, gli uomini videro dalla spiaggia lo Yelcho arrivare in loro soccorso e, a bordo, il loro capo Ernest Shackleton che non li aveva abbandonati. Quando apparve la scialuppa di salvataggio, finalmente poterono capire che il loro calvario era finito e che, oltretutto, erano tutti vivi.

Su Elephant Island il primo pasto caldo dopo quasi quattro giorni. Foto: Frank Hurley.
Elephant Island: un rifugio ottenuto con una barca. Foto: Frank Hurley.

Il team Aurora nel Mare di Ross
Come previsto da Ernest Shackleton, l’altra squadra della Spedizione Imperiale Transantartica avrebbe dovuto effettuare, a bordo dell’Aurora e attraverso il Mare di Ross, l’approvvigionamento degli accampamenti, in modo che, una volta superato il Polo Sud, il gruppo che avrebbe attraversato l’Antartide potesse raggiungere l’obiettivo di attraversare l’intero continente bianco.
Al comando della squadra del Mare di Ross vennero assegnati altri due veterani del Nimrod e quindi vecchie conoscenze di Shackleton: il capitano Aeneas Mackintosh ed Ernest Joyce.

La composizione finale della squadra del Mare di Ross sarebbe stata cruciale. Alcuni di coloro che avevano lasciato la Gran Bretagna per imbarcarsi sull’Aurora in Australia rinunciarono prima di salpare per il Mare di Ross, e un folto gruppo dell’equipaggio esitò fino all’ultimo minuto. Soltanto Aeneas Mackintosh ed Ernest Joyce avevano precedenti esperienze antartiche, ma nel caso del primo erano estremamente limitate.
In seguito a queste battute d’arresto, l’Aurora lasciò Hobart, Nuova Zelanda, il 24 dicembre 1914. Erano stati trattenuti in Australia a causa di problemi finanziari e organizzativi. Il suo arrivo a McMurdo Sound avvenne il 15 gennaio 1915, più tardi del previsto.

Nonostante questo ritardo, il comandante della nave, Aeneas Mackintosh, pianificò immediatamente un viaggio per lasciare provviste sulla piattaforma di Ross, pensando che Ernest Shackleton avrebbe compiuto la traversata programmata dal Mare di Weddell.
Questo gruppo di spedizione ebbe problemi costanti: né gli uomini né i cani si acclimatarono e l’equipaggio era per lo più inesperto in condizioni glaciali. Tali inconvenienti portarono alla perdita di dieci dei diciotto cani durante il primo viaggio sul ghiaccio, una scorta incompleta, e lasciarono il gruppo di terra piuttosto demoralizzato.

Ma come quando le cose vanno male ma non sono davvero un disastro fino a che non peggiorano, il peggio accadde nel mese di maggio del 1915. L’Aurora era ancorata alla base di Capo Evans e durante una forte tempesta i suoi ormeggi si ruppero e fu spostata in mare con tale sfortuna che rimase intrappolata da un blocco di ghiaccio e non poté più tornare indietro. Anche l’Aurora, prima dell’Endurance e dall’altra parte del continente antartico, era alla deriva tra i ghiacci.

Il gruppo sopravvissuto su Elephant Island, 10 maggio 1916. Foto: Frank Hurley.

Tuttavia, l’Aurora fu più fortunata dell’altra nave della spedizione, perché il 12 febbraio 1916, a 2.600 chilometri da dove era partita, riuscì a liberarsi e a raggiungere la Nuova Zelanda in cattive condizioni. Tuttavia, aveva ancora la maggior parte del carburante, delle razioni alimentari, degli indumenti e dell’equipaggiamento dell’equipaggio di terra, anche se fortunatamente le razioni che venivano trasportate con le slitte ai depositi erano state scaricate a terra.

Il gruppo di uomini rimasto bloccato sulla costa del Mare di Ross dovette rifornirsi e attrezzarsi con gli avanzi delle spedizioni precedenti. Quella che in particolare fornì loro sostentamento fu la spedizione Terra Nova comandata da Robert Falcon Scott. La capacità di improvvisazione e l’ingegno dell’equipaggio fecero sì che, nonostante fossero stati abbandonati lì, riuscissero a preparare le riserve per la seconda stagione, che iniziò come previsto nel settembre 1915.

Nei mesi successivi, con uno sforzo immenso, vennero allestiti i rifornimenti previsti lungo la piattaforma di ghiaccio di Ross fino al ghiacciaio Beardmore, ma durante il viaggio di ritorno l’intero gruppo fu colpito da un attacco di scorbuto.

Le uniche vittime della Spedizione Imperiale Transantartica si verificarono in questo gruppo. Durante la lotta per tornare alla base, il cappellano e fotografo della spedizione Arnold Spenser-Smith morì cadendo sul ghiaccio. Il resto del gruppo raggiunse il rifugio temporaneo e si riprese.

Il Continente Bianco mieté altre due vittime l’8 maggio 1916, quando Mackintosh e Hayward decisero di attraversare a piedi il ghiaccio marino instabile verso Capo Evans e scomparvero durante una tempesta senza più lasciare traccia.
I sette sopravvissuti dovettero sopportare altri otto mesi di stenti prima che l’Aurora, riparata in Nuova Zelanda, arrivasse di nuovo il 10 gennaio 1917 e li riportasse alla civiltà.

Ernest Shackleton prese parte a questo salvataggio, come aveva fatto con la spedizione a Elephant Island, accompagnando l’Aurora come ufficiale, perché i governi di Nuova Zelanda, Australia e Gran Bretagna, che stavano organizzando il salvataggio, gli negarono il comando, ritenendolo responsabile del fallimento della Spedizione Imperiale Transantartica.

Nonostante gli inizi caotici, il disordine, la momentanea perdita dell’Aurora e tre morti, la squadra del Mare di Ross fu l’unica parte della spedizione a portare a termine completamente la sua missione originale, anche se il fallimento della squadra del Mare di Weddell significò l’inutilità del lavoro svolto.

Shackleton e l’intero equipaggio a Punta Arena (Cile) dopo il salvataggio di Elephant Island.

Sommario 
Ernest Shackleton pianificò quella che sarebbe stata la spedizione polare più importante della storia fino a quel momento, ma finì per essere protagonista di quella che sarebbe senza dubbio stata la più grande esperienza di sopravvivenza di sempre.
L’Endurance, intrappolato nel ghiaccio, si schiantò e affondò, lasciando l’equipaggio di 27 uomini sul ghiaccio. Da quel momento in poi furono sottoposti a una serie di dure prove: mesi di attesa in accampamenti improvvisati sul ghiaccio, un viaggio in scialuppe di salvataggio fino a Elephant Island, un secondo viaggio di 1.300 chilometri su una barca aperta, la James Caird e l’attraversamento delle montagne inesplorate della Georgia del Sud, per essere infine tutti tratti in salvo senza una sola vittima. Nel frattempo, la squadra del Mare di Ross dovette superare grandi difficoltà nel portare a termine la missione, dopo che l’Aurora fu strappata dagli ormeggi durante una burrasca e non fu in grado di tornare indietro.

I depositi vennero installati come previsto, ma l’operazione costò la vita a tre persone.
L’intera spedizione imperiale transantartica si svolse contemporaneamente alla prima guerra mondiale e fu quindi lasciata a se stessa.
Forse il miglior ricordo di Sir Enrest Shackleton e del suo carattere di esploratore, ma soprattutto di leader ed essere umano, è stato offerto da uno dei suoi compagni dell’Endurance quando, ricordando il viaggio, disse: “… Per la direzione scientifica, datemi Scott; per un viaggio rapido ed efficiente, Amundsen; ma quando vi trovate in una situazione disperata, quando sembra che non ci sia via d’uscita, inginocchiatevi e pregate che Shackleton venga…”.

In questa foto i tre esploratori antartici vestiti in abito da sera: da sinistra, Ernest Shackleton, Robert Edwin Peary e Roald Amundsen.

Cronologia del viaggio
Viaggio Endurance:
08/08/14: Partenza da Londra
05/12/14: Partenza da Grytviken, Georgia del Sud
07/12/14: Entra nel pack di ghiaccio (Mare di Weddell, latitudine 57° 26´ S)
19/01/15: L’Endurance rimane intrappolata nel ghiaccio (latitudine 76° 27´ S)
27/10/15: L’equipaggio lascia l’Endurance Camp (latitudine sud 69° 04´)
21/11/15: l’Endurance affonda (Patience Camp)
27/12/15: Il carpentiere Harry McNish si ribella
09/04/16: Le barche salpano (opzioni Clarence ed Elephant Islands)
14/04/16: Arrivo a Point Wild
24/04/16: La barca James Caird salpa per la Georgia del Sud
10/05/16: Arrivo in Georgia del Sud
20/05/16: Arrivo a Stomnes, Georgia (Shackleton, Worsley e Crean)
30/08/16: Lo Yelcho arriva a Elephant Island

Viaggio Aurora:
24/12/14: Partenza da Hobart, Nuova Zelanda
16/01/15: Attracco a Cape Evans
25/03/15: Arrivo a Hut Point per sosta
07/05/15: Aurora rompe gli ormeggi e va alla deriva
01/09/15: Nuova spinta di rifornimento
12/02/16: Aurora si libera dal ghiaccio
11/03/16: Ritorno provvisorio a Hut Point
02/04/16: Aurora arriva in Nuova Zelanda
15/07/16: Ritorno a Cape Evans e sosta
10/01/17: Arrivo a Cape Evans per soccorso

Mauricio Bernardo Bianchi è avvocato, giornalista e insegnante di professione, ma alpinista e fotografo per hobby, con all’attivo più di 50 scalate di montagne di diversa altitudine, tra cui le tre vette più alte d’America: l’Aconcagua (due volte) e i vulcani Ojos del Salado e Pissis. Ha compiuto anche lunghe traversate della catena montuosa e dei ghiacci continentali. È stato il fondatore, nel 2001, del gruppo alpinistico “Andinautas” ed è anche membro fondatore del San Luis Andean Club. È stato relatore in diversi convegni nazionali sulla montagna e ha tenuto numerose conferenze e mostre di fotografie e materiali audiovisivi di montagna.

La locandina di promozione del libro Sud (South) per le conferenze negli Stati Uniti.
Fotografia in studio in cui Shackleton promuove un modello di abbigliamento polare della ditta Burberry utilizzato nella spedizione all’Everest del 1920.
A Grytviken (Nuova Georgia del Sud), nella notte del 5 gennaio 1922 Shackleton ebbe un forte attacco cardiaco e morì poche ore dopo. Il corpo era già in viaggio verso l’Inghilterra quando la moglie Emily dette disposizioni affinché venisse sepolto nella Georgia del Sud nel cimitero dei pescatori di Grytviken.

Scoperta di una nave in Antartide
di Marcelo Lisnovsky

Centosette anni dopo il suo affondamento, tra il febbraio e il marzo 2022, l’Endurance, la nave che portò Shackleton e i suoi compagni in Antartide, fu ritrovata. La nave perduta è stata ritrovata sul fondale del Mare di Weddell, un ampio tratto dell’Oceano Atlantico meridionale in Antartide.

Nel 1915 la nave rimase intrappolata nei ghiacci dell’Antartide e, dopo essere stata abbandonata dall’equipaggio, affondò. Gli uomini di Shackleton intrapresero quindi una lotta epica per sopravvivere al rigido clima antartico.

L’Endurance è stata avvistata nel Mare di Weddell a una profondità di 3008 metri. Il progetto per ritrovare la nave scomparsa è stato intrapreso dal Falklands Maritime Heritage Trust (FMHT), utilizzando una nave rompighiaccio sudafricana, l’Agulhas II, dotata di sommergibili comandati a distanza.

Lo stato di conservazione della nave è ottimo, considerando il tempo trascorso dal naufragio.

Rompighiaccio utilizzato nella ricerca dell’Endurance. Foto: EFE FMHT e Nick Birtwistle.
L’Endurance si trovava a una profondità di 3008 metri nel Mare di Weddell.

Disalberata, con il sartiame è aggrovigliato, la nave ha lo scafo abbastanza coerente. Sono evidenti alcuni danni sulla prua, presumibilmente nel punto in cui la nave in discesa ha colpito il fondale marino. Le ancore sono presenti. I sottomarini avvistarono perfino degli stivali e delle stoviglie.

Si può perfino vedere il nome della barca ENDURANCEinscritto ad arco sulla poppa, sotto la cresta (un corrimano vicino alla poppa). E sotto, in grassetto, c’è la stella Polaris, a cinque punte, a cui la nave deve il suo nome originale.

Sembra che ci sia poca decomposizione del legno, il che suggerisce che gli animali masticatori di legno presenti in altre aree del nostro oceano siano, forse sorprendentemente, assenti nella regione antartica priva di foreste“, ha affermato la biologa polare delle profondità marine Michelle Taylor dell’Università dell’Essex.

La ricerca della nave scomparsa aveva due motivi fondamentali:

  • la storia epica che circonda la nave, quando l’equipaggio la abbandonò e cercò aiuto, a piedi e su piccole imbarcazioni, attraversando centinaia di chilometri di territorio ostile e clima rigido.
  • la difficoltà nel reperirla, poiché è stata trovata a una profondità di oltre tremila metri, in un mare che è ghiacciato per la maggior parte dell’anno.

Ciò è stato possibile perché quest’anno si è registrata la più bassa estensione di ghiaccio marino antartico mai registrata durante l’era satellitare, che risale agli anni ’70. Le condizioni sono state inaspettatamente favorevoli.

L’epopea di Shackleton e dei suoi compagni non poteva avere più degno epilogo di questo ritrovamento.

Il relitto della nave Endurance, sommersa nel Mare di Weddell. Foto: Telam.
I resti della nave Endurance sono stati ritrovati 107 anni dopo il naufragio, tramite la S.A. Agulhas II.
All’interno della S.A. Agulhas II. Foto: Esther Horvath.

Bibliografia
Per sviluppare queste note, oltre a conoscere la storia da anni e ad aver letto e visto molto a riguardo, sono stati consultati specificatamente:
Sud, la storia dell’ultima spedizione di Shackleton. Autore: Sir Ernest Shackleton. Casa Editrice Sudpol, giugno 2014, Ushuaia, Terra del Fuoco, Argentina.
La prigione bianca. Autore: Alfred Lansing. Casa editrice Mondadori, 1999, Barcellona, ​​Spagna.
Atrapados en el hielo: la legendaria expedición a la Antártida de Shackleton. Autore: Caroline Alexandre. Casa Editrice Planeta, 2006, Barcellona, ​​​​Spagna

More from Alessandro Gogna
Giro delle Cascate di Fanes e del Col Rosà
L’escursione alle suggestive Cascate di Fanes, vicino al centro di Cortina d’Ampezzo,...
Read More
Join the Conversation

6 Comments

  1. says: Jacopo

    Bello, avvincente e ben documentato…un’unica piccola peccca: nel testo sono chiamate “navi” le piccole scialuppe di 6 metri…forse era più correto barche

  2. says: antoniomereu

    Uomini di cui si è perso lo stampo!
    Bella e precisa pubblicazione,si legge d’un fiato!

  3. Senza nulla togliere al merito di Shakleton come leader, si deve riconoscergli il fatto di avere utilizzato una nave inadatta all’impresa. Nel racconto è un po’ confusa la situazione che vede l’Endurance costruita in Norvegia ma in maniera inadatta. Infatti l’esempio della Fram, che resistette a ben peggiori maltrattamenti nei ghiacci, evidenzia ancor più l’errore di avere scelto una nave inadatta come l’Endurance, nonostante l’esperienza fornita dalla Fram di Nansen vent’anni prima.
    Probabilmente i problemi economici che affliggevano la spedizione, assieme allo scoppio della Grande Guerra, costrinsero Shakleton ad “accontentarsi” di partire con una nave così debole. Che infatti affondò non appena la pressione dei ghiacci fece presa sulle sue murate verticali e per nulla rinforzate all’uopo.

  4. says: Andrea Parmeggiani

    Racconto avvincente, che avevo anche già letto nel libro scritto da Shackleton.

  5. says: Ezio Bonsignore

    @Marcello Cominetti:

    Da ex-ufficiale di Marina, non è così semplice. La Framm era stata progettata e costruita in Norvegia per essere utilizzata nell’ Artico, cioè su distanze di poche centinaia di miglia e in acque non particolarmente tempestose. L’ Endurance invece doveva attraversare tutto l’ Atlantico da nord a sud prima di arrivare in zona, e poi di nuovo in senso contrario se tutto fosse andato bene. Una simil- Framm si sarebbe certo trovata più a suo agio tra i ghiacci, ma aveva una pessima tenuta al mare, e in Atlantico avrebbe rischiato di andare persa in una tempesta.

  6. says: Marcello Cominetti

    Bonsignore,
    da ex ufficiale degli Alpini ma con un po’ di esperienza di navigazione oceanica, ti ricordo che il terzo viaggio della Fram si svolse in Antartide con Roald Admunsen.
    Leggi cosa ebbe a commentare l’allora capitano di questa nave:

    Come disse Thorvald Nilsen, capitano del “Fram”, durante la terza spedizione dopo aver superato una tempesta a Capo Horn: “Questa è la migliore nave da crociera del mondo!”.

    Questo articolo è apparso per la prima volta su YACHT 2/2019.

    Ribadisco che Shakleton ha scelto la nave sbagliata.

Leave a comment
Leave a comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *