di Paolo Crosa Lenz
(pubblicato su Lepontica 31, maggio 2023)
La storia di Ágaro, sui monti della Val d’Ossola, è quella di un luogo che non esiste più. Dove un tempo c’erano case e prati, oggi c’è una distesa d’acqua che produce energia elettrica per industrie e città. Della vita intensa che per sette secoli ha animato una piccola comunità alpina non rimane nulla, se non una tenue traccia nella memoria e qualche scritto poco conosciuto. Certamente altri luoghi delle Alpi hanno subito la stessa sorte, ma quella dei montanari di Ágaro è per molti versi una storia straordinaria. L’ambiente è quello severo dell’alta montagna (Ágaro era il più piccolo e più alto comune dell’Ossola), le case erano adagiate sul fondovalle e distribuite nei due piccoli nuclei di Ágaro e Margone, stretti dagli scoscesi versanti di montagne rocciose e senza respiro, mentre i boschi sacri aggrappati ai versanti proteggevano l’abitato dalle valanghe.
In alto, gli alpeggi erano il perno di un’economia basata quasi esclusivamente sull’allevamento e sull’accumulo di foraggio. Ágaro (Agher in lingua walser), come il vicino villaggio di Ausone, fu fondato da coloni walser provenienti dalla valle di Binn in Vallese alla fine del XIII secolo. Uomini venuti da lontano, armati di ascia e di falce, colonizzarono fazzoletti di terra fra le rocce e costruirono case di legno protette dai boschi. Un documento del XVI secolo racconta: “Piccole terre poste sopra altissimi monti nei confini verso Svizzeri e Vallesani, abitate da gente rozza e di costumi todeschi che vive dietro al bestiame, ma non vi nasce vino e pochissima segale, e le case sono tutte di bosco…”.
Le strade non c’erano. Solo sentieri tagliati nella roccia o esili sotto le creste. La strada per Baceno fu sempre il collegamento con il mondo: tre ore di cammino per andare a sposarsi, a battezzare i figli, a seppellire i morti, a comprare il sale e a pagare le tasse. Quella strada non era percorribile da muli o asini: tutte le merci dovevano essere portate a spalla. In inverno il percorso era anche battuto dalle valanghe e numerose sono le croci che ricordano gli agaresi travolti o scivolati sul ghiaccio. Nonostante le difficoltà ambientali e il grande isolamento che condannava quei montanari “al sacrificio di una vita segregata e sempre uguale”, il tempo scorreva cadenzato dalle gioie e dai dolori di ogni comunità umana in cui è vivo un rapporto quasi magico con l’ambiente naturale. Poi, dopo settecento anni di vita dura e indipendente, in palazzi lontani fu deciso che Ágaro doveva morire.
Scrive Renzo Mortarotti: “… Quello che era stato il più alto centro abitato dell’Ossola e una delle più segregate e inaccessibili colonie della diaspora walser conobbe d’un tratto la civiltà del progresso e della tecnica, che lo aveva fino allora ignorato, solo per udirne la condanna a morte. Ágaro infatti nel 1938, dopo sette secoli di esistenza, venne sommerso, col suo splendido altopiano alluvionale, dalle acque dell’omonimo rio, sbarrate da una diga alta 57 metri, costruita in tre anni di lavoro, per creare un bacino idroelettrico della capacità di 20 milioni di metri cubi”. Requiescat in pace. Amen.