Albino Rossi

di Giampaolo Visetti
(pubblicato nel Catalogo L’Anima della Natura, Arca Edizioni, luglio 2016)

Albino Rossi è nato in un paese di montagna e ha scelto di restare. «Se non vivessi qui – dice – morirei». Da ragazzo ha cominciato a diventare pittore per la voglia di andare via. Poi ha capito che «via» sarebbe stato un altro e che non avrebbe avuto qualcosa da dire. Adesso ha 63 anni e dipinge ancora in Val di Sole. Non sa dire, così senza pensarci troppo, se stare nell’unico luogo dove si può, significa essere liberi, oppure scoprirsi prigionieri. «Lasciarsi sequestrare dalla propria libertà – dice – è un’ossessione. La stessa che ti impone di portare un certo mondo su una tela, rinunciando a tutto il resto».

Presenze, 2016, olio su tela, 40 x 50 cm

Non è figlio di contadini, né di pastori. Suo papà Luigi manteneva le strade, come suo nonno: operai dell’Arias. Sua mamma Caterina, nata a Rabbi, pensava alla casa. Appena uscita dall’adolescenza era andata a servire a Milano. Poca terra buona, nelle valli alte, fame insaziabile: dai «signori» aveva acquisito la finezza. Il papà era sopravvissuto alla guerra, in Grecia, salvato per miracolo dalla malaria. Anche loro, quando in Europa era scoppiata la pace, hanno ubbidito alla nostalgia: Mastellina, il paese di Francesco Guardi. «Da bambino guardavo la sua casa – dice – e volavo con la fantasia. Non capivo come era stato possibile, nel Settecento, partire da qui e finire a Venezia, tra i geni della pittura nella Serenissima. Successo e avventura, nel cuore volevo essere come lui». A casa Rossi la televisione non c’era. La star del paese, due secoli dopo, restava Guardi. Gli occhi, nell’ozio, non potevano che fissarsi sulle fotografie dei suoi quadri. Quel segreto, un giorno, deve essergli scappato a tavola. La risposta del papà è il manifesto della concretezza dell’Italia anni Cinquanta e Sessanta, decisa a congedare innanzitutto la miseria: «Prima impari un mestiere e ti guadagni il pane, poi fai quello che vuoi». In montagna, chi non aveva terra, voleva che i figli studiassero. I libri erano il simbolo del riscatto. Chi poteva finiva lontano, all’università: per gli altri l’orgoglio era il diploma. «Capire questa atmosfera – dice Albino Rossi – è decisivo. I miei non avevano mai avuto nulla, erano stati costretti ad andare via da giovani e avevano dovuto tornare presto. Al di là della valle però avevano compreso che il mondo stava cambiando, alle mani e al fare succedevano la testa e il sapere. Dovevo arrangiarmi, la repubblica era accompagnata dalla democrazia: per questo, per assomigliare a un signore e tentare di essere come gli altri, sono stato il primo della famiglia a studiare». Racconta questo nel suo studio di Roncio, sopra Mezzana. Pochi masi in bilico sul pendio, qualche prato verticale sottratto al bosco. Dal fondovalle salgono nebbie, anche se è maggio fa un freddo invernale.

Mestriago (TN), 1994. Albino Rossi nel suo atelier, mentre incide una lastra di legno. Foto: Flavio Faganello.

Non si veste da artista: scarpe Mephisto marroni, calzini e jeans neri, un pile marrone scuro sopra un girocollo chiaro. Lascia i capelli grigi. Un qualsiasi uomo non illustre di un paese ignoto. La stufa è spenta e sarebbe meglio di no, ma l’essenzialità, se la conosci da bambino, è un’amante esigente che non ti lascia più. «È stato così – dice – per un senso di giustizia necessaria, che si è presentato uno di quei momenti». «Quei momenti» significa l’attimo cruciale, quello difficile da riconoscere, il destino che porta dove deve. Anche Albino Rossi, come tre generazioni di bambini non contadini venuti al mondo in un paese, a undici anni è stato messo in collegio in città. Arcivescovile, convitto e medie a Trento, a casa solo per i Santi, Natale, Pasqua e per l’estate infinita. «Si dimentica in fretta – dice – ma i «Polentoni» per il Trentino sono stati una fucina straordinaria di giustizia, di uguaglianza e di riscatto sociale. I figli dei ricchi e quelli dei poveri, insieme e alla pari, con le medesime opportunità e amici per sempre. Una scuola di responsabilità collettiva, la conoscenza per la prima volta come alternativa all’ignoranza: io sono stato lì, sono diventato quel certo tipo di uomo». Il resto era cominciato ad accadere già alle elementari. Concorso nazionale di disegno. Un foglio bianco con due cerchi al centro, da usare come spunto. I compagni tracciavano facce, soli e lune, la ruota di una bicicletta, «lo – dice –ho colorato due brise(funghi porcini, NdR) e ho vinto il primo premio, un’enciclopedia».

Bosco, 2019, penna biro su carta, 45 x 35 cm

Dire che dopo, nella vita, gli è successo qualcosa di più, potrebbe sembrare eccessivo. Ha capito presto che poteva essere uno che dipinge, che l’essenziale si trova vicino e che scoprirlo può provvedere a ciò che serve, per mangiare e per pensare. Così, nel paese di Guardi, dopo oltre due secoli ha cominciato a crescere un altro pittore. Al mare minore fermato nella laguna è seguita la montagna minore ritratta dalle malghe. La natura però è rimasta una necessità. «I porcini disegnati a scuola – dice Rossi – erano la forma fisica che conoscevo meglio. Già alle medie come molti compagni delle valli, pagavo tre quarti della retta scolastica lavorando in estate. Non salivo in malga: con mia madre cercavo funghi sul monte Lavatec, brise dure e bianche per gli alberghi di Madonna di Campiglio. In più pescavo trote, nel Noce e nelle lec che portavano l’acqua nei campi. Nelle stagioni generose guadagnavo più di mio papà. Tavolate di brise stese a seccare sulle reti e secchi di pesce: nel bosco e lungo il torrente ho trascorso le estati della mia giovinezza. Mia mamma ha venduto porcini fino a oltre ottant’anni. Senza la montagna non avrei studiato, ma studiare mi ha riportato in montagna».

Tronco, 2008, tecnica mista su tela, 200 x 120 cm.

Non è facile, quando la giovinezza pesa sul cuore e dentro lo stomaco, usare i primi soldi non per bere e per fumare, per sentirsi grandi, ma per imparare sommessamente qualcosa. Il titolo di studio e un mestiere erano la condizione per muoversi e per andare via, dal paese e dall’abbandono, ma tagliare le radici avrebbe impedito sia di muoversi che di andare via. Così ha scelto i geometri. La domenica pomeriggio il tram per Trento partiva da Malè alle 16.35. A insegnare disegno al «Pozzo» c’era Sergio Bernardi. Prima passione: il legno. Primo lavoro: «Enaip» di Ossana, la scuola dei muratori e dei carpentieri che avrebbero costruito Marilleva, Folgarida e il Tonale dello sci uscito dalle trincee del Novecento. L’idea, alla fine degli anni Settanta, era quella di recuperare i vecchi mobili solandri, nelle rare dimore nobiliari e nei masi contadini. Il turismo apriva un mercato, l’arte rivelava la bellezza, la storia acquisiva un valore. «Ne parlai – dice Rossi – con Quirino Bezzi, fondatore del Centro Studi per la Val di Sole – che mi consigliò di andare a trovare Paolo Vallorz».

Era estate e Vallorz era già «il Vallorz», il pittore che ha restituito la terra e il cielo delle alte quote a chi era stato costretto ad abbandonarle, fino a dimenticarle e nemmeno a riconoscerle. Figlio del fabbro di Caldes, viveva a Parigi, come Guardi a Venezia, come Segantini in Engadina. Albino Rossi ne aveva solo sentito parlare: non sapeva che suonare alla sua porta stava per diventare il secondo «quel momento» della vita. «Mi ha aperto lui – dice – mi ha detto che stava lavorando e che potevo tornare due giorni dopo. Ho sentito che c’era semplicità, ma pure il drammatico dovere di non interrompere mai, fino alla fine, la pittura di un quadro, come fosse un ultimo respiro». L’idea di restaurare i vecchi mobili risultò bocciata. Vallorz voleva che la valle ricominciasse a costruirli, a generare grandi artigiani, a imporre uno stile. Intuiva che solo la forza piena dei luoghi, un’identità sociale e un codice storico di valori condivisi, una solida cultura contadina, avrebbero salvato la gente dal vuoto di una globalizzazione delegata alla finzione della vanità finanziaria, all’egemonia sterile del turismo per consumatori di massa. Con la cultura, e grazie all’arte, l’identità avrebbe invece potuto dare un significato concreto alla contemporaneità, una speranza stabile nel futuro. «Alla fine – dice Rossi – gli ho detto la verità: volevo andare a Parigi, vedere i musei, capire se potevo anch’io essere un pittore. Paolo Vallorz ha smesso di sorridere, ha preso un foglio e si è messo a scrivere. Poi è sparito in un’altra camera». Quando è tornato gli ha consegnato il foglio piegato e un sacchetto. Sul primo aveva scritto l’indirizzo dei musei di Parigi da visitare, i nomi degli autori e i titoli delle opere che un aspirante pittore non può ignorare. Nel secondo c’erano le chiavi della sua casa parigina. «Ha sussurrato “buon viaggio” – dice – ed è sceso nel broglio delle vecchie «Belle di Boskoop» per stare al sole, senza altre parole. Due giorni dopo ero sulla mia Renault 4, Mastellina-Parigi, le tre settimane in cui, come artista, sono nato».

Lo dice ed è estraneo all’ipocrisia dell’opportunismo: senza la generosità del Vallorz, Rossi non sarebbe «il Rossi». È grazie a lui che conosce Testori, Cavallari, De Grada, Giacometti, Jean Clair, artisti, designer, galleristi, Aldo Gorfer, Flavio Raganelle, Adriano Morelli, Gianluigi Rocca, Luciano Zanoni, un metodo di lavoro e un gusto, i luoghi per dipingere e i soggetti da riprodurre. «Il primo quadro consapevole – dice – è il ritratto di un contadino copiato dal libro Gli eredi della solitudine, l’ultimo sono i profili delle genziane del ciclo I fiori perduti. Mi accorgo che dopo quarant’anni, tanti viaggi e quotidiani desideri di essere altrove, non mi sono mai spostato da ciò che la montagna è per la mente di ognuno». Assieme a lei: la potenza della necessità, la leva formidabile del bisogno.

Fatto il servizio militare, si era sposato con Giuliana ed erano arrivati i figli, Filippo e Chiara. La prima mostra, 1978, non era bastata per convincerlo a lasciare il posto all’Enaip, distaccato a Trento ai primi programmi formativi per l’inserimento al lavoro dei portatori di handicap. Dilettante fino al 1985. Poi non rientra da un’aspettativa, sale fino ai pascoli sopra Menas e comincia i cicli sulla montagna «dal vivo e in diretta». Puntuale più di un operaio, dalle sei di mattina alle sette di sera, sempre fuori, finalmente di nuovo tra gli alberi e sull’erba. Condannato a dipingere a tempo pieno da una tripla necessità, pure condizione per la pittura: sopravvivere come uomo, provvedere alla famiglia, stare in montagna. «Senza l’energia della vita nella natura – dice – penso che sarei morto. Ma fissare con il colore i suoi istanti irripetibili per l’eternità è un’ossessione che consegna a lunghi isolamenti, ad una spiritualità che già porta nella vita che c’è al di là della vita».

Bosco con gufi, 2013, mosaico su pannello, 50 x 70 cm

Ora il suo studio è pieno di libri, come fosse uno scrittore. Le tele e i colori ci sono, come i quadri e i disegni non ancora usciti alla luce, ma si capisce che a comandare sono i testi e le finestre che guardano il bosco e l’orizzonte. La missione, quassù, adesso è riempire il vuoto, riallacciare i fili del distacco. Il vuoto è quello culturale, aperto da bambino e da ragazzo. Il distacco sono la morte improvvisa di una sorellina, la paura che anche sua mamma lo lasciasse per una malattia, le partenze per il convitto trentino dei preti. «Mi è mancato sempre molto – dice – e la montagna che pensavo colpevole ha rivelato infine la grazia della sua misericordia. Rispetto a Guardi, a Segantini e a Vallorz, io ho potuto restarci per vivere, senza per questo rinunciare a conoscere quello che per convenzione chiamiamo mondo. La montagna però ha infine rivelato di essere la vita e questa la pittura. Altro non saprei fare, altro non potrei essere. Per me, come per i miei genitori, ha deciso la necessità». Occorre tutta la vita, anche senza muoversi mai, per tornare ad essere il massimo, ciò che si è stati da bambini. Albino Rossi dai profili alpestri è passato alla frutta raccolta, dagli alberi ai fiori, da questi a profili puri. Meno, è di più. Per riempire non smette di togliere, nascondere è più che mostrare, intuire più di sapere. Anche rinunciare ad andare dove oggi si deve, con i piedi e con il pennello, è più che stare dove non si può esistere. A un certo punto le parole e le vernici, come i vecchi maestri svizzeri e i nuovi pittori romeni, non servono più. Perfino ai masi di Roncio e al cavalletto piantato su un prato si può rinunciare. La più forte, in montagna, è sempre la vita originaria. «Ho sacrificato molto per la bellezza – dice – ma credo che essenziale sia solo il coraggio. Restare qui e dipingere, più che un tributo alla bellezza, è stato e rimane un atto di coraggio. Impiegherei troppo tempo per spiegarne le molte ragioni. Mi limito a dire che vale va la pena, anche se le mie opere fossero già scomparse. Solo in montagna, diventando vecchio, io potevo tornare bambino». Il cammino è già cominciato. Un nuovo studio, la vecchia casa, sono quasi pronti a Mastellina.

Le nuvole oltre cima Lavatec sono di nuovo sopra la testa, il maso di Guardi è lì, assieme ai posti delle brise e ai fossi delle trote. Dalla porta può muovere i passi che furono di sua mamma e di suo papà, indicarli ai figli. Ha ritrovato l’enciclopedia che ha deciso tutto, il cerchio cominciato al concorso nazionale di disegno si è chiuso. Prima ha imparato un mestiere e si è guadagnato il pane, poi ha fatto ciò che ha voluto. Albino Rossi, scegliendo di restare, può continuare a vivere: quando occorre anche a dipingere, un modo più generoso di respirare.

Il bosco vecchio, legno e legno combusto – Mezzano di Primiero (TN), 2014

Albino Rossi
Albino Rossi (Cles, Val di Sole, TN, 1953) inizia la sua attività pittorica nel 1974. Nel 1984 stringe rapporti con il mondo artistico milanese ed entra a far parte del gruppo “Città e Campagna”, sostenuto e coordinato dal critico Raffaele De Grada. In questi anni compie numerosi viaggi e soggiorni all’estero, soprattutto in Francia e Svizzera, frequentando con assiduità gallerie e musei. A metà degli anni ’90 espone in numerosi musei, tra cui il Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, e in varie istituzioni culturali a Trento, Mezzolombardo, Bolzano, Bergamo, Torino, Innsbruck e San Gallo-Svizzera. Nel 1995 è presente alla rassegna Correnti e Arcipelaghi. Attualità dell’arte in Trentino a Castel Ivano, Ivano Fracena (TN). Lo stesso anno realizza anche un grande affresco, La Sala dei Monti, per il Municipio di Mezzana (TN). Nel 1997 viene selezionato per rappresentare il Trentino nelle mostre al Ministerium für Wiessenschaft und Kunst a Wiesbaden e al Kunstlerforum di Bonn.

Nel 1998 realizza un’installazione permanente denominata I Frutti della Montagna per il Ristorante da Pino di San Michele all’Adige (TN), e nel 2001 l’installazione permanente al Ristorante lo Scrigno del Duomo di Trento. Sempre nel 2001 partecipa alla rassegna Panorama al Tiroler Kunstpavillon di Innsbruck. L’anno seguente espone alla mostra Omaggio alla montagna con Paolo Vallorz e Agenore Fabbri a Castel Ivano, Ivano Fracena (TN). Nel 2003 partecipa alla mostra Arte Trentina del ‘900 a Palazzo Trentini a Trento e alla collettiva Situazioni Trentino Arte 2003 presso il Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto. Nello stesso anno lo Studio Buonanno Arte Contemporanea presenta alcune sue opere al Mart di Rovereto per la rassegna Auguri ad Arte.

Albino Rossi nel 2020. Foto: Nicola Eccher.

Negli ultimi anni, Albino Rossi si è dedicato alla progettazione e alla realizzazione di grandi opere pubbliche. Tra le sue opere più importanti: l’imponente scultura per il Museo Retico di Sanzeno, il gruppo scultoreo per la sede Provinciale degli Allevatori di Trento, la fontana per la casa di riposo di Pellizzano, il grande pannello per il Centro Polifunzionale di Fondo, il mosaico La leggenda del lago della Predaia per la Cassa Rurale d’Anaunia di Taio, il grande mosaico per l’Istituto Comprensivo di Coredo, il mosaico per il Centro polifunzionale di Peio e il nuovo Ospedale di Cles. Albino Rossi ha continuato a dipingere e partecipare a numerose mostre: un nuovo ciclo di lavori pittorici è stato presentato nel 2008 in una importante personale alla Galleria Civica di Arco (TN) in occasione del 150° anniversario della nascita di Segantini e a Forte Strino di Vermiglio (TN). Per celebrare i suoi 40 anni di attività, nel 2016, è stata organizzata la mostra L’anima della Natura alla Casa de Gentili di Sanzeno, curata da Buonanno Arte Contemporanea. L’anno seguente ha realizzato una grande scultura per Casa Sebastiano a Coredo. Nel 2019, dopo un lungo soggiorno a Londra, ha iniziato due nuovi cicli pittorici, uno dedicato ai fiori di montagna l’altro al paesaggio montano en plein air. Nel 2020 è stato invitato ad ideare il manifesto per la 68.ma edizione del Trento Film Festival. In occasione del Festival è stata organizzata anche una mostra personale, Dentro la Natura, nelle sale di Palazzo Roccabruna, che include i nuovi cicli pittorici realizzati negli ultimi anni. La mostra è stata curata dallo Studio Buonanno Arte Contemporanea di Trento, in collaborazione con l’architetto Roberto Festi.

Hanno scritto di lui tra gli altri: Gianni Faustini, Franco de Battaglia, Danilo Curti-Feininger, Giovanna Nicoletti, Paolo Vallorz, Raffaele De Grada, Alberico Sala, Fiorenzo Degasperi, Michele Bonuomo, Luigi Serravalli, Brunamaria Dal Lago Veneri, Alberto Faustini, Valerio Dehò, Gianpaolo Prandstraller, Domenico Montaldo, Leonardo Bizzaro. Le sue opere sono inserite in importanti collezioni e installazioni permanenti. Vive e lavora a Mastellina, Val di Sole.

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