“Speranza contro ogni speranza” è il tema scelto per i Colloqui di Dobbiaco 2024 dal Comitato Scientifico nella sua riunione di inizio anno – dopo un’ampia discussione, come si legge comunemente nei verbali delle riunioni. La base per la decisione è stata un sondaggio fra i partecipanti al nostro evento; tra le novanta preferenze espresse, c’è stata una chiara maggioranza a favore di un tema socio-ecologico. Per quanto le condizioni tecniche della conversione ecologica siano importanti, sembra tuttavia esserci un grande bisogno di discutere insieme ai nostri relatori sul nostro ruolo e responsabilità in questo complesso processo che puntualmente provoca anche delle resistenze estese. È forte la tentazione di rifugiarsi dalle ambivalenze e dalle contraddizioni in un pessimismo fatalista e sfiduciato, secondo il quale tutto è comunque perduto, o – più raramente – in un ottimismo ingenuo che crede nel progresso e nel fatto che i miracoli della tecnologia cambieranno presto le cose in meglio. La speranza è un’altra cosa; è una ferma fede nell’obiettivo di una buona società di fronte all’intollerabilità delle condizioni dominanti, sulla base delle proprie convinzioni e azioni. La questione delle prospettive di successo è quella sbagliata. È presuntuosa nella sua pretesa di poter vedere e giudicare autorevolmente l’insieme e allontana dall’aspirazione di dare spazio e forza a una società desiderabile nella propria vita e nella propria comunità. La sofferenza per l’intollerabilità delle condizioni è un motore, la gioia del successo, o anche solo del tentativo, è l’altro. Paola Imperatore, scienziata sociale dell’Università di Siena e attivista per la conversione ecologica dal basso, apre la discussione dei Colloqui di Dobbiaco di quest’anno nell’intervista che segue. Non mancate di iscrivervi ora ai Colloqui 2024! Saremo inoltre lieti di ricevere i vostri commenti sul nostro blog.
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Nella stessa tempesta, ma non nella stessa barca
(intervista a Paola Imperatore)
di Karl-Ludwig Schibel
KLS: Vedi una nuova qualità nei movimenti per la giustizia climatica nati negli ultimi anni?
PI: Intanto vi ringrazio, sia per l’invito ai Colloqui di Dobbiaco che per questa intervista, e per l’interesse al nostro lavoro. Il libro al quale ti riferisci, Era di giustizia climatica, lo abbiamo scritto Emanuele Leonardi ed io. Abbiamo assistito tra il 2018 e il 2019 a una nuova ondata di mobilitazioni, che da un lato si pone in continuità con altre nella storia, ma d’altra parte presenta anche degli elementi di rottura e dei tratti caratteristici che è interessante discutere più approfonditamente, sia sul piano della composizione che dei contenuti.
Per la prima volta vediamo una generazione di giovanissimi scendere in strada. L’epicentro di questo ciclo di “ondate climatiche” è nelle scuole in una fascia d’età prevalentemente tra i 15 e 20 anni, a cui si uniscono poi moltissime altre persone: studenti universitari, gruppi di insegnanti for future, scientists for future, madri for future. Quindi molti gruppi anche di altre generazioni si uniscono e portano il proprio contributo a questo ciclo di mobilitazione. L’epicentro resta però nei giovanissimi e nelle giovanissime. E poi c’è una dimensione di genere che è molto particolare perché per la prima volta sono giovanissime ragazze, giovani donne, a entrare in massa al centro delle mobilitazioni. Proprio Greta Thunberg, in uno dei suoi scritti del 2020, definisce il movimento climatico il più grande movimento femminista del mondo. Non perché esclude gli uomini, ma perché critica proprio il sistema e i codici patriarcali che sono parte del problema ambientale.
Abbiamo quindi una prima rottura, una discontinuità rispetto alla composizione che poi ritroviamo anche sui contenuti, perché rispetto ad altre ondate di mobilitazione ecologista, il focus è sul cambiamento climatico, però il tema viene affrontato da una prospettiva ben specifica. Per la prima volta, infatti, si mette al centro il tema delle diseguaglianze socioeconomiche. Per trent’anni abbiamo affrontato la questione del riscaldamento globale focalizzandoci sulla asimmetria di emissioni tra nord e sud globale, tra le economie già industrializzate e quelle emergenti. Questo movimento invece porta l’attenzione anche su una dimensione se vogliamo di classe, una dimensione sociale che attraversa in modo trasversale il tema ambientale e climatico.
KLS: Possiamo dire che il caos climatico ha creato una maggiore focalizzazione e urgenza nel confrontare le distorsioni e le ingiustizie che si manifestano in vari settori della società sia nel lavoro, che nell’abitare, nell’educazione, nella salute e molti altri?
PI: Assolutamente sì. Questo è un punto di svolta dal 2018/2019 verso la giustizia climatica. La crisi climatica è il volano di tutte le ingiustizie sociali. Le moltiplica perché da un lato accende i riflettori sul legame tra ambiente-abitare-salute e dall’altro evidenzia come non solo questi temi siano intrecciati, ma a loro volta si intersechino con le ingiustizie legate al genere, alla provenienza, all’età e alla classe. Queste dimensioni sono quindi venute a galla; ad esempio, quando davanti all’uragano Katrina nel 2005, l’80% delle vittime è risultato essere composto da persone nere. Non perché l’80% degli abitanti lo fossero, ma perché le persone nere sono sistematicamente più esposte al rischio ambientale idrogeologico. Lo stesso trend lo ritroviamo con le ondate di calore. Sicuramente le prime vittime sono le persone fragili, per motivi di salute, ma subito dopo ci sono le persone che per motivi di classe non hanno un tetto sulla testa o vivono in case sovraffollate senza aria condizionata per superare i momenti peggiori della giornata. C’è quindi una dimensione di classe, genere e razza che attraversa il tema ambientale e climatico contro ogni aspettativa dato che noi ci attendevamo con la crisi climatica che in qualche modo sarebbe stata per la prima volta una sfida che ci avrebbe messo tutti e tutte sulla stessa barca. Invece ci troviamo ancora una volta in una situazione in cui nemmeno questo fenomeno può essere letto come una democratizzazione del rischio, perché invece che essere tutti sulla stessa barca, ci troviamo nella stessa tempesta, ma con mezzi e strumenti molto diversi.
KLS: Nella seconda parte di questa intervista vorrei parlare un po’ di alleanze. Con chi si dovrebbe cercare di fare le alleanze per una lotta che ovviamente non si può limitare solo ai giovani nelle scuole? Tu non lasci dubbi al fatto che non siamo nella stessa barca, ma invece nella stessa tempesta. Visto che i cambiamenti climatici colpiscono di più le persone comuni l’alleanza indicata sarebbe quella tra il movimento climatico e i movimenti sociali? In Germania hanno avuto molta attenzione le manifestazioni, a favore di un trasporto pubblico sostenibile, del sindacato dei servizi Ver.Di, insegnanti, conduttori di autobus, personale negli ospedali, etc. insieme a Fridays for Future. Dalla tua analisi il mondo del lavoro e i movimenti climatici dovrebbero mettersi insieme perché oggettivamente i cambiamenti climatici colpiscono di più le fasce deboli?
PI: Per capire la relazione che si sta costruendo tra il movimento climatico, anche nelle sue tante anime – perché poi anche questo ovviamente è un ambiente variegato – e il tema del lavoro e i lavoratori, bisogna partire da un presupposto. Il movimento climatico entra in questo nuovo spazio di azione con una chiave di lettura che è diversa rispetto a quella del passato. C’è una dimensione sociale che è centrale per capire il riscaldamento globale, motivo per cui i lavoratori e le lavoratrici, soprattutto quelli ai più bassi livelli, spesso sono le prime vittime degli stessi cambiamenti climatici. Di conseguenza dobbiamo trovare in loro degli alleati.
Dai movimenti in Francia al collettivo di fabbrica GKN in Italia, si è aperto uno spazio di dialogo, di relazione, che ha invertito una tendenza storica che guardava questi due mondi agli antipodi e che in alcuni casi è riuscita a tradurre questo dialogo in una vera e propria convergenza. Credo che sia questo uno degli spazi più interessanti su cui lavorare, perché il tema del lavoro e dei lavoratori, da un lato viene usato dall’alto, dalle politiche di transizione, per penalizzare le classi più disagiate e dall’altro lato dalle destre italiane ed europee come grimaldello, come dispositivo, per frenare ogni politica ambientale, enfatizzando il ruolo dei lavoratori come vittime oppure come freno al cambiamento ambientale. Credo che questa relazione sia importante e che possa dare frutti importanti. In più il movimento climatico ha in qualche modo accolto anche una riflessione che riguarda il lavoro riproduttivo e di cura, quel lavoro che è spesso scaricato sulle donne e non viene riconosciuto e valorizzato, ma che in realtà quando parliamo di crisi ecologica, si rivela davvero fondamentale.
KLS: Sempre parlando di alleati, saresti dell’opinione che il processo internazionale andrebbe semplicemente ignorato?
PI: Un consesso internazionale che si occupi del cambiamento climatico è fondamentale e imprescindibile. Una sfida che è intrinsecamente globale richiede il coordinamento tra Stati. Allo stesso tempo però siamo di fronte al fallimento di questa governance climatica, ovvero il fatto che le emissioni di CO2, da quando esiste il sistema delle COP ad oggi, non solo non sono state contenute, ma sono cresciute esponenzialmente. Questo ha portato la comunità di studiosi e il movimento climatico a evidenziare che se le emissioni sono cresciute non è perché, nonostante le buone intenzioni, qualcosa è andato storto, ma perché in realtà le intenzioni stesse erano il problema. Le intenzioni infatti, non erano quelle di intervenire in modo serio e profondo sul problema ambientale, ma di riprodurre l’idea che solo il mercato avrebbe potuto fornire una soluzione al problema ecologico, tanto che viene costruito un mercato di scambio delle emissioni.
Il 2018 segna una fase storica perché con la COP 24 di Katowice, il movimento climatico passa da una posizione di vicinanza per quanto critica, e quindi di legittimazione delle COP, a una fase di rottura e contestazione aperta perché ci si rende conto che – riprendo proprio le parole di Greta Thunberg – è inutile implorare i leader mondiali perché ci hanno ignorato in passato e ci ignoreranno ancora. Il movimento climatico deve rimanere vigile sul sistema della governance climatica, interfacciarsi e riconoscere questo sistema di governance come il consesso adeguato in cui affrontare globalmente il tema. Però si sposta l’ago della bilancia: non implorare più i leader mondiali di fare qualcosa, ma costruire nelle piazze ampie e larghe alleanze in modo che la nostra voce inizi a farsi sentire e non sia più trascurabile, ignorabile.
KLS: Parliamo invece dell’Unione Europea. Promette di non lasciare nessuna e nessuno indietro e di essere garante di una transizione giusta. È pura ideologia o ci sono terreni comuni, piccoli o meno piccoli che siano, per una qualche forma di collaborazione tra la transizione ecologica dall’alto e quella dal basso, di cui parlate nel vostro libro? O si escludono a vicenda?
PI: La transizione dall’alto non vede un ruolo importante delle istituzioni, che può essere il Governo italiano o l’Unione europea, ma vede al centro le esigenze di un vertice tutto sommato piccolo di attori che agiscono per i propri interessi e scaricano le contraddizioni verso il basso. Questa transizione assume un approccio tecnocratico, escludente e incentrato sul mercato, guidata completamente dall’alto verso il basso. Con questa transizione ecologica dall’alto non esiste spazio di collaborazione. Al contrario, credo che la presenza di istituzioni e aziende entro alcuni confini e prospettive condivise possa essere utile, se non addirittura indispensabile. Penso ad esempio, al caso di GKN di Campi Bisenzio dove proprio in queste ultime settimane un movimento dal basso chiede una legge regionale che stabilisca un intervento pubblico per la ripartenza della fabbrica.
KLS: Invece gli enti locali, i Comuni, fanno parte del problema o possono contribuire alla soluzione?
PI: La posizione che un Comune può avere dentro una politica ambientale dipende dai valori, dai riferimenti culturali e dagli obiettivi che chi guida quel Comune assume. La dimensione del territorio è una dimensione nevralgica in cui ricostruire una comunità, soggetto indispensabile per una transizione dal basso perché, non dimentichiamoci che per fare una transizione dal basso bisogna prima costruirlo, questo basso. Ma ancora una volta, gli enti locali sono un soggetto col quale è fondamentale collaborare. Tanto più che i governi si muovono proprio nella direzione di un accentramento dei poteri, di togliere ai cittadini questo primo spazio di confronto e intervento.
KLS: Ultima domanda, ai Colloqui di Dobbiaco parleremo di “Speranza contro ogni speranza”. Per te il principio speranza sembra essere forte. Quali sono le immagini e i segnali che in questo periodo ti danno speranza?
PI: Parto da una premessa doverosa. Sono ovviamente più che consapevole e preoccupata di quello che sono i processi globali a cui stiamo assistendo: c’è un drammatico ritorno della guerra nel registro linguistico e nell’economia europea. Neppure ho la pretesa di pensare che fino a due anni fa vivessimo in un mondo di pace, solo perché la guerra non la sentivo vicina, ma di sicuro in questi due anni abbiamo visto la tendenza di tutti i paesi europei a investire energie, risorse e propaganda nella guerra. Siamo in una fase molto delicata e preoccupante; parlare di speranza è difficile e si rischia di essere presi per ingenui. Ciò nonostante, la storia ci ha riservato tanti periodi bui, che però sono sempre stati interrotti dall’irrompere nella scena di movimenti di comunità, di lotte, di resistenze che hanno proiettato una nuova luce e che sono riuscite a conquistare diritti e dignità per tutti e tutte. Quando guardo al passato, penso alle lotte che in fin dei conti hanno rappresentato il principale motore delle conquiste nel campo del lavoro, della sanità, dell’aborto, del divorzio. E se è successo una volta, anzi è successo mille volte, può succedere ancora. Queste battaglie non sono il frutto del caso, ma di rapporti sociali che hanno determinato che l’ago della bilancia pendesse più da un lato o dall’altro della storia. Certo c’è la paura, ma anche la consapevolezza che siamo ancora capaci di riempire le piazze, di costruire alleanze e che siamo noi come comunità a costruire poi questa speranza.
Finché abbiamo accanto persone con cui vogliamo e sentiamo il desiderio di costruire questa speranza, la speranza resta accesa per me. Se togliamo la speranza togliamo il sale della vita.
Paola Imperatore si occupa di transizione ecologica e politiche climatiche. La sua tesi di dottorato su protesta e territorio è stata premiata dall’Università degli Studi di Siena come migliore tesi dottorale del 2021. Lavora sui movimenti sociali, in particolare quelli legati alla difesa dell’ambiente contro la costruzione di grandi opere o attività industriali impattanti, e su temi connessi all’ecologia politica e operaia. È assegnista di ricerca all’università di Torino. |
L’Imperatore si rivolge ai maschi (“tutti”) e si rivolge alle femmine (“tutte”).
Però esclude volutamente tutt* coloro che non si sentono binari.
A questo punto un dubbio mi assale: non è che sia una veterofemminista? magari financo un po’ sessista?
Le solite puttanate.
Non se ne può più.
Anche perché se uno ha tempo per leggersi tutta ‘sta mappazza tutta e RI-trita non ne ha per vivere razionalmente.