Intervista a Salvo Ardizzone, autore del libro Ecologismo v/s Natura, Edizioni Passaggio al Bosco 2023, pagine 102, € 10,00, a cura di Luigi Tedeschi.
Ecologismo v/s Natura
(un percorso per il ritorno all’Umano)
di Salvo Ardizzone
(pubblicato su centroitalicum.com il 1 ottobre 2023)
1) Ambiente e Natura. Mentre l’ambiente è l’insieme degli elementi naturali che ci circonda, la Natura è il principio della vita, del sacro, della totalità olistica dei processi naturali che coinvolgono l’uomo, la sua storia, la sua cultura. L’ecologismo odierno tuttavia non rappresenta il capovolgimento di tale prospettiva? L’ecologismo infatti, con la transizione green, attraverso la tecnologia non mira a ricondurre l’uomo alle sue origini naturali, ma semmai a creare un ambiente artificiale in cui la manipolazione della Natura generi anche la trasformazione antropologica della stessa natura umana?
Il nocciolo della questione è che l’Ecologismo ignora il concetto stesso di Natura; esso concepisce solo l’ambiente, area definibile, misurabile, quantizzabile, tutt’altra cosa. É antitetico a essa perché antitetici ne sono presupposti e fini dichiarati: sua mission è rendere “sostenibile” l’attuale processo di sviluppo liberista grazie a interventi tecnologici. Anche nelle sue manifestazioni più radicali, esso appunta le critiche sulle conseguenze dell’attuale modello economico, non sulle cause, non sul paradigma che lo ha determinato e lo guida. Con ciò prospettando un ossimoro: teorizzare il mantenimento della “crescita”, dello sviluppo perpetuo conseguito con risorse per definizione date: magia impossibile cui è chiamata la scienza.
L’Ecologismo intende spostare in là il collasso del sistema vigente modificandone la traiettoria, i mezzi di produzione, le fonti di energia, non si propone affatto di sostituirlo con altro, meno che mai rinnegandone anima e prassi che non coglie e si rifiuta di cogliere, volutamente auto-limitandosi a una visione settoriale (inquinamento, clima, etc.) incapace di comprendere l’insieme, ovvero la deriva della Natura e dell’uomo separato da essa. E ciò perché, nella sostanza, attinge alla medesima base culturale e filosofica che, dall’Illuminismo, giunge fino a noi attraverso Positivismo e Liberalismo.
Nella sostanza, l’Ecologismo è perfettamente compatibile al quadro culturale, politico ed economico oggi dominante. Di più: la pretesa “sostenibilità”, così ammantata dalla “nobile” finalità del bene comune, ha creato nuove occasioni di guadagno, entusiasticamente accettate a prescindere dai contenuti reali; colossale operazione di marketing, puro greenwashing. Nei fatti, è un sistema che diversifica il business, al massimo – e con la massima ipocrisia – provando a spostare appena più in là l’asticella dell’inevitabile collasso. E la cosiddetta transizione green che hai citato è esempio paradigmatico.
Per questo l’Ecologismo altro non è che l’ennesimo portato della deriva odierna, partorito dalla paura per il benessere, l’inquinamento, il clima, ma incardinato nell’orizzonte liberale (preferibilmente declinato in liberal) e liberista; mondo che, seppur rimodellato dal punto di vista produttivo, intende perpetuare non certo sostituire con altro. In definitiva, l’Ecologismo non ha nulla a che spartire con la Natura, meno che mai con un percorso di ritorno all’umano; stante le radici, è ulteriore strumento della deriva attuale.
2) L’ideologia liberale dominante afferma il primato dell’individuo sulla comunità. Nessun senso, nessuna finalità trascendente può essere preordinata all’individuo. Pertanto, il mondo, la natura, l’ambiente, divengono entità suscettibili di appropriazione individuale. Poiché i rapporti umani sono definiti in termini di diritto di proprietà, l’individuo è libero in quanto proprietario di se stesso. La natura quindi, non è considerata unicamente come un bene economico oggetto di scambio di cui l’individuo può liberamente disporre, quale titolare di un diritto inalienabile, in quanto proprietario?
Il passaggio dal concetto di comunità, che vede l’essere umano parte di un insieme in cui trova posto e senso, a quello di individuo, che lo intende ricompreso in un’asettica somma d’altri soggetti scissi dal mondo, è forse la cesura più importante della storia della civiltà.
Nell’ambito della comunità i rapporti di proprietà erano labili; oggetti, animali, case, terre, erano visti in funzione dell’uso che se ne faceva, dell’utilità per il tutto di cui si faceva parte, in cui si era inscritti. Anche il lavoro e le varie attività umane non erano finalizzati all’arricchimento del singolo ma al sostentamento e al benessere della comunità (ricordiamolo: ben diversa cosa da una collettività), contavano per l’apporto che potevano arrecare a essa. Esatto opposto delle “verità” dispensate da Adam Smith & C. e dall’“American Dream”.
Il percorso della cultura oggi dominante ha profondamente alterato questi concetti fino ad azzerarli, esaltando l’individuo e mercificando il mondo, – come detto – derubricandolo a mera dimensione economica, misurabile, quantizzabile, scambiabile. Un processo che ha separato l’uomo – scaduto a singolo soggetto, meglio, oggetto sradicato – dalla Natura, lo ha posto come sovraordinato a un pianeta spogliato dalla sua sacralità, ridotto ad ammasso di risorse a sua disposizione. Res extensa, semplice materia sottoposta a desideri e bramosie di una supposta res cogitans. Un delirio che ha reciso le radici dell’uomo, della civiltà che esprimeva, i suoi legami coi territori e fra i simili, che ha inquinato la cultura e inaridito la religiosità, giungendo a fare di essa legittimazione di egoismo, costruendo l’homo oeconomicus moderno (leggasi per questo Max Weber e il suo “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”).
3) Le religioni monoteistiche concepiscono il Divino come un principio creatore esterno al mondo, alterando profondamente le prospettive olistiche del paganesimo. Col monoteismo si determina dunque la scissione tra anima e corpo, spirito e materia, uomo e natura. La trascendenza nega l’immanenza del Divino. Ma nell’attuale Occidente neoliberista, le religioni monoteistiche sono in via di estinzione. L’ideologia scientifico – tecnocratica dominante infatti, con la manipolazione tecnologica della natura, lo sviluppo illimitato, l’ingegneria genetica, non è degenerata in un delirio superomistico di onnipotenza? L’avvento della volontà di potenza trans umanistica non è l’esito finale nichilistico dell’individualismo illuministico e del meccanicismo razionalista?
La deriva attuale è figlia di un lungo percorso che non ha conosciuto cesura nella progressiva maturazione; essa sarebbe stata assai difficile, comunque inimmaginabile nei connotati odierni, senza tre spinte determinanti quanto interconnesse. Della prima hai già detto: la rappresentazione del Divino esterno al mondo, che ha per conseguenza la de-sacralizzazione della Natura, effetto d’incalcolabile portata. La seconda è la raffigurazione dell’uomo come sovraordinato alla Natura, separato da essa che è messa a sua disposizione.
Il combinato disposto di questi due concetti produce non solo la scissione cartesiana fra mente e materia, ma genera un senso di supposta superiorità dell’essere umano che, da Kant in poi, in un crescendo sostituisce la convinzione della superiorità di Dio sul creato con quella della mente – res cogitans di cui l’uomo è dotato a somiglianza del Creatore – sulla materia, dunque sul mondo. Con ciò introducendo a una crescente fede nella scienza – da tale deriva partorita – e nell’illimitata fiducia di comprendere con essa i processi della Natura, scaduta a mero ambiente, e poterli governare a piacimento. Ma c’è altro.
Il terzo concetto introdotto dalle religioni abramitiche, determinante nella formazione del pensiero della Modernità, è la visione storicistica del tempo che per esse procede linearmente dalla Creazione – scandita per giorni –, continua con la nascita, la morte, concludendosi con il Giudizio e ciò che ne consegue. Visione opposta dalle religiosità pagane e orientali – che si scandiscono per cicli, circolari, fluidi – caratterizzate da miti e valori a-temporali che non si presentano in un dato momento della Storia, prestabilito, ma considerati sempre presenti. Questa visione storicistica è stata indispensabile all’introduzione dei concetti lineari – prima inesistenti – della Storia, del progresso, dello sviluppo, della crescita perenne, costituendo brodo culturale della Modernità e del modello di scienza attuale.
Per cui ha ormai assai poca rilevanza che nell’Occidente le religioni monoteiste siano in via d’estinzione; a esse si è sostituita la scienza cartesiana, connotata come religione capace di dispensare certezze, dogmi che rifiutano qualsiasi giudizio critico. Essa, sviluppatasi nel e dal sistema egemone per i suoi scopi, non è affatto “neutra” come pretende né – tantomeno – super partes, ma ne costituisce punta di lancia per la sua perpetuazione grazie alle sue applicazioni tecnologiche, funzionali agli interessi dominanti, e alla struttura tecnocratica da essa generata, attraverso cui il sistema impone scelte a sé confacenti.
È un unico processo dominato da un’unica ispirazione, che procede da secoli verso l’annullamento dell’uomo come persona e come genere, l’obliterazione del sacro, lo sfruttamento più abietto. Verso la cancellazione dell’essere umano, prima come portatore di quei valori che ne hanno fatto la Storia e la Cultura, poi come specie.
4) Nel tuo libro affermi la necessità di un mutamento di paradigma culturale, onde pervenire al superamento del sistema neoliberista globale, che comporti la fine dell’antropocentrismo. Ma la deriva tecnocratica, che renderà superfluo in larga parte il genere umano, non rappresenta già un superamento in chiave nichilistica dell’antropocentrismo? L’ideologia ecologista sancisce la fine dell’antropocentrismo. L’uomo, nella prospettiva della ideologia ecologista del Green Reset, della cultura woke e della Big History, non è più protagonista della storia e l’umanità intera è stata criminalizzata. L’uomo, con la fine dell’antropocentrismo, da soggetto non viene degradato ad oggetto del progresso scientifico?
Faccio una premessa: a mio avviso, per comprendere dinamiche e sviluppi della deriva odierna occorre interpretarla decodificandola; se la si fissa spogliata dagli orpelli spacciati come “novità” – esigenza irrinunciabile dell’oggi – non v’è alcuna cesura, alcun cambiamento di rotta. I concetti alle spalle dell’antropocentrismo non sono affatto mutati, mutati sono ambiti e modalità d’applicazione in un processo coerente a presupposti e fini. Per cui non parlerei di superamento, tanto meno di fine dell’antropocentrismo, ma di evoluzione, ovvio adattamento alle convenienze del sistema egemone. Che, attraverso il tempo, permangono immutate perché immutati sono i fondamenti di cultura e scienza dominanti. E il modello economico che ne deriva.
Abbiamo già detto che la scienza odierna ha medesimo orizzonte culturale del sistema dominante, da cui riceve indicazioni sugli ambiti d’indagine e risorse, tanto maggiori quanto a lui funzionali e convenienti. Abbiamo pure accennato all’ancor più rigido condizionamento cui è sottoposta la tecnologia: se alla scienza è lasciato un minimo di autonomia, per indagare eventuali nuove vie utili al sistema economico, la tecnologia indirizza le sue applicazioni esclusivamente in funzione del “mercato” che possano avere, ovvero del profitto che arrecano. E, trattandosi di un sistema mosso dal neoliberismo più sfrenato, è solo a sé che guarda non certo alla comunità che, semplicemente, ignora. È in questo senso che vanno lette le “rivoluzioni industriali”, vanto del pensiero liberale: esse non sono avvenute sulla spinta di “pensiero illuminato”, ma perché i sistemi dominanti avevano bisogno di nuovi strumenti per avviare processi a essi vantaggiosi. Ma c’è di più e peggio.
Per molto tempo i gruppi dominanti hanno “governato” sul popolo, in suo nome ma nei propri interessi, controllandolo con vari strumenti (economici, politici, sociali, culturali, etc.). Tuttavia, ciò necessitava d’un certo grado di mediazione per garantire il consenso, processo giudicato limitativo – dunque disfunzionale – per chi rifiuta confini al proprio potere discrezionale. Per cui si è ritenuto assai più conveniente passare a un governo senza il popolo, privandolo d’ogni ruolo. Come?
È entrata in gioco la scienza cui è stata assegnata la patente d’infallibilità – in quanto ritenuta superiore alla politica, oggi spogliata dalla capacità di scegliere perché considerata soggetta a errori quando non guidata da fini riprovevoli -, in tal modo essa è l’unica a poter condurre alla scelta “giusta”, la tecnologia è la via per giungervi e il tecnico è il miglior conducente perché è dalla scienza che si fa guidare. In un regime – è la parola – tecnocratico non sono ritenuti necessari politica, mediazione, consenso, perché le sue scelte oppongono il tabù scientifico a qualsiasi critica, sono narrate come le uniche o le migliori possibili. Se il popolo non è d’accordo poco importa: è da “educare” all’accettazione acritica delle decisioni prese “per il suo bene”.
In questo contesto, non solo l’umanità diviene oggetto, scaduta a gregge da indirizzare per interessi altrui, ma è la stessa società a essere manipolata nel suo insieme, sottoposta a pedagogia e a ortopedia che la scompone e ricompone fittiziamente. Dai tempi di Adam Smith, Jeremy Bentham e Stuart Mill l’orizzonte non è mutato affatto: invece che nell’interesse di una pluralità di soggetti, il processo si svolge a favore di un’oligarchia sempre più ristretta. Nel mondo liberale (e liberista) l’uomo è escluso, è mero oggetto. Non da ora, da sempre. Cambiano solo i modi, le apparenze.
5) Il Green Reset si fonda su dogmi scientifici non suscettibili di confutazione: nei fatti si rivela una ideologia totalizzante, che assume le sembianze di una nuova religione. L’ideologia ecologista (e con essa la ristrutturazione green del capitalismo neoliberista), non si tramuta in una religione immanente, senza speranza di redenzione e salvezza, perché fondata su di un senso di colpa irredimibile, con l’unico orizzonte di una sopravvivenza artificiale ed eterodiretta?
Abbiamo già detto che la deriva culturale moderna tende a fornire legittimazione al perpetuarsi del sistema egemone, della sua proiezione economica, l’unica che essa riconosce. L’Ecologismo è prodotto di questo processo: dichiara possibile il mantenimento dell’attuale modello di sviluppo, la sua – appunto – “sostenibilità”, derubricando la crisi che investe il pianeta – e con esso l’uomo – a fattore meramente ambientale, a problema specifico risolvibile con il ricorso a scienza e tecnologia. Insomma: apportando modifiche settoriali.
Schermandosi con la scienza e i suoi tabù, l’Ecologismo si fa ideologia totalizzante che non ammette critiche, che distribuisce nuove certezze, irreggimenta coscienze, omologa i pensieri in una pretesa “oggettività” scientifica nobilitata da un marchio “buono”: la “sostenibilità”, il “green”. Magiche espressioni che pretendono sottendere il benessere comune, per questo indiscusse e indiscutibili.
In tale contesto, più che di senso di colpa e irredimibilità per l’operato dell’umanità – concetti derivati dalle religioni abramitiche oggi riservati a minoranze, al più traslati sul disconoscimento di un passato che non si comprende e di un presente distorto – parlerei di condizionamento, d’ennesimo strumento di distrazione di massa capace di sviare l’attenzione e indirizzare su un percorso obbligato. Doppio vantaggio per il sistema dominante: perché ne legittima il mantenimento sotto altro abbigliamento – da classico a casual per rimanere in tema -; perché garantisce altri ambiti di business.
Tutto ciò è apparenza eterodiretta? Naturalmente! Nel saggio spendo diverse pagine per affermare che la deriva attuale ha condotto da un mondo naturale a una (pseudo) realtà innaturale, poi artificiale, infine del tutto virtuale. A detrimento dell’umanità, a beneficio di terzi sempre più lontani e pochi.
6) Con il tramonto dell’Occidente e l’emergere di un mondo multilaterale, non emerge anche la crisi la logica dello sviluppo (definito da Latouche “occidentalizzazione del mondo”), che è peraltro responsabile del degrado ambientale?
Ribadiamo per chiarezza concettuale: l’Occidente che sta tramontando non è quello di Spengler né il Grossraum di Schmitt, è quello usurpato dagli USA 80 anni fa, oggi Globale, ovvero omologato al sistema economico liberista e alla (pseudo) cultura liberale. Attraverso il portato della globalizzazione esso ha – come ben dice Latouche – “occidentalizzato il mondo”, esportando logiche e prassi del capitalismo e del pensiero liberale, sfregiando territori è impattato sulle società e sul modo stesso di stare nel mondo delle popolazioni, commettendo uno sterminio di culture.
Tuttavia, malgrado i devastanti effetti del “pensiero unico” globalizzato, nel pianeta persistono aree culturali differenziate, in particolar modo ove preesistevano civiltà più antiche e strutturate o si sono sviluppate dottrine radicate nei valori profondi dei popoli antitetiche alla deriva liberale. Quantomeno laddove i popoli non sono scaduti a plebi o a collettività indistinte e omologate. È vero che anche in tali contesti è stata adottata l’economia di mercato e gli strumenti del capitalismo ma, diremmo, in modo strumentale, per agganciare e sfruttare il trend globale senza farsi schiavi della deriva che lo muove, tenendo il processo subordinato alla direzione politica e non l’inverso.
D’altronde, nel momento unipolare il sistema capitalista e i suoi strumenti sono stati accolti su scala nei fatti planetaria, infettando il mondo con la pura logica del profitto e i miti della “crescita” e dello “sviluppo” permanente. Nondimeno, con la fine dell’egemonia occidentale (leggi, degli USA) si affievolirà la spinta politico-culturale che vi è dietro (sta già avvenendo). In ogni caso si differenzierà: i paesi che pur hanno adottato l’economia di mercato ma non al servizio dei singoli capitalisti, e mantenuto capacità di visione politica (nel Sud Globale ve ne sono di rilevanti e nel nuovo clima verosimilmente aumenteranno), a mio avviso potranno riconsiderare le logiche di sviluppo ora vigenti in nome degli interessi complessivi delle società che in essi permangono primari o possono tornare tali. Con ciò tendendo a modifica del paradigma egemone. Concetto impossibile a inverarsi in un contesto culturale liberale, che solo all’interesse dei singoli capitalisti guarda.
Se mi permetti, a conclusione dell’intervista voglio aggiungere che tutto si tiene: a costo di ripetermi, ritengo che la de-sacralizzazione della Natura per l’affermazione della sua materialità, il tramonto delle comunità e l’introduzione di una coscienza prettamente individualistica, il trionfo di una visione utilitaristica, mercificata, quantitativa e non qualitativa della vita, l’interpretazione dell’esistenza secondo pretesa razionalità che esclude spiritualità costituiscono un percorso che, per dirla con Marcel Gauchet, conduce al “disincanto del mondo”. È la deriva che sta distruggendo il pianeta e l’uomo che ne è parte inscindibile. Questo processo è conseguenza diretta della cultura filosofica dominante, della scienza che ne è emanazione e del sistema economico che ha partorito: liberalismo, scienza cartesiana e neoliberismo.
Estraggo due punti cardine da questo interessantissimo articolo:
– Nel tuo libro affermi la necessità di un mutamento di paradigma culturale, onde pervenire al superamento del sistema neoliberista globale, che comporti la fine dell’antropocentrismo……
– È (questa) la deriva che sta distruggendo il pianeta e l’uomo che ne è parte inscindibile. Questo processo è conseguenza diretta della cultura filosofica dominante, della scienza che ne è emanazione e del sistema economico che ha partorito: liberalismo, scienza cartesiana e neoliberismo.
Due conclusioni:
A) Il cambiamento di paradigma è INEVITABILE: se non lo facciamo in tempi relativamente brevi e in modo aggregato, arriverà il crack che ci spazzerà via tutti; se lo si farà a maggioranza, chi resta indietro e non cambia la propria scala di valori sarà inevitabilmente esposto al rischio di esser spazzato via a titolo individuale.
B) Cambiar paradigma significa imboccare la strada dello sviluppo controllato. Si parla impropriamente di “decrescita” perché il PIL mondiale (e, per definizione, i singoli PIL nazionali, che, aggregati, compongono il PIL mondiale) DOVRANNO CALARE dai valori di oggi. Saremo tutti un po’ più poveri, soprattutto meno consumisti. Ma lo sviluppo controllato o – impropriamente – la “decrescita”, NON SIGNIFICANO tornare all’età della pietra e vivere coperti di pelli d’orso in caverne fra i monti. Significano abbandonare quella filosofia ESCLUSIVAMENTE business oriented, a scapito dell’ambiente, filosofia che ha dominato le azioni umane dalla II Guerra Mondiale in poi. Il tutto significa tornare a vivere in modo più “naturale”, consumando solo il giusto di cui abbiamo veramente bisogno, in uno stile di vita più spartano dell’attuale (a ciò, ripeto ancora una volta, si dovrà accompagnare la riduzione demografica, cioè la riduzione, nel medio termine, del numero di bocche da sfamare sul pianeta).
Sono d’accordo con il contenuto dell’articolo. Per usare la distinzione di Arne Naess, l’unica vera “ecologia” è l'”Ecologia Profonda” che riconosce la Terra, o l’Ecosfera, come un Complesso di esseri senzienti, e anche come un essere senziente “totale”; il tutto è dotato di una profonda spiritualità. La nostra specie ne fa parte come un tipo di cellule in un Organismo. Come conseguenza pratica, deve finire la civiltà industriale, che è incompatibile con la Vita del Complesso.
Ricordo cosa accade ai lemmings che “migrano” verso il mare: si salvano, e tornano indietro, gli ultimi della corsa, quelli che “non ci credono troppo”.