Barre des Écrins

di Giorgio Giua

Ho scoperto tardi gli Écrins, oltre il giro di boa di metà vita. Sono vicini e magnifici, sebbene meno blasonati delle Alpi al confine con la Svizzera. Sono selvaggi, maestosi e remoti, con i rifugi spartani nonostante la vicinanza di Briancon e di due arterie stradali di grande comunicazione. Forse proprio per questo motivo non li ho presi in considerazione prima. Sono poco abbordabili, gli avvicinamenti lunghi, le vie normali alle vette mai facili. La Meije fa paura dalla strada che scende dal Col du Galibier al Col du Lautaret, incuneandosi poi verso La Grave. Scura, irta di picchi arditi, difficile da compenetrare guardandola dal basso.

Il primo approccio, quasi inconsapevole, curiosamente fu da sciatore: dall’impianto più alto di Les Deux Alps, seguendo le tracce di altri sul ghiacciaio de la Girose, riuscii ad imboccare il fuoripista infinito del vallone de la Meje. Duemila metri di dislivello di polvere, farina e neve primaverile; poi molle e infine marcia, fino alla valle e al ponte sulla Romanche. In quell’occasione vidi per la prima volta le cordate alla Brêche de la Meije, provenienti dal refuge du Promontoire. Mi venne voglia di andarci, ma poi studiai gli itinerari e mi resi conto che non ero all’altezza. Per la Meije la via normale è AD, troppo per me, così per molti anni non ci ho più pensato. In seguito, una vacanza francese con la famiglia fu galeotta. Durante un viaggio che ci portò dalla Provenza a Chamonix, non resistemmo alla reputazione del Delfinato e decidemmo di andare a dare un’occhiata, Flavio nel porta enfant e Sara con lo zainone pieno della roba di tutti. Ci accontentammo di arrivare al refuge du Glacier Blanche dove lo sguardo, posandosi sulle cime del Pelvoux e sulla fronte del Glacier Blanche, non ci lasciò alternativa: dovevamo tornare, studiare qualcosa di fattibile per noi due.

E così fu; l’anno successivo, dopo qualche giorno di acclimatamento tra Alpi Marittime e Monviso, a mezzogiorno siamo a Pré de Madame Carle. Abbiamo lasciato l’accogliente “paese dei balocchi” di Ailefroide e marciamo convinti verso il refuge des Écrins. In lontananza le tracce evidenti sul Glacier des Violettes al Pelvoux ci fanno ammirare e desiderare ancora una volta questa montagna, ma oggi siamo diretti a un Quattromila, forse due, ancora non lo sappiamo, e dopo tre ore buone di cammino mettiamo piede sul ghiacciaio. Il Glacier Blanche, una volta aggirato il tormentato fronte sulla morena laterale, si presenta come una piatta, enorme, bianca autostrada, lunga più di tre chilometri e larga uno. In fondo, quando il bacino gira a sud, si raddrizza di colpo e incombe, con seraccate imponenti, dalla pala nord della Barre des Écrins, traversata dalla lunga crepaccia terminale a quota 3900 circa. Assomiglia a una cattedrale di roccia e ghiaccio con la navata di destra che termina sul netto intaglio della Brêche de Lory.

La Barre des Écrins dal Glacier Blanche. Foto: Giorgio Giua.

Solo il Dôme de Neige ha un aspetto meno austero, F+ secondo alcune relazioni, PD- per altre. Dipende dalle condizioni della crepaccia terminale; negli ultimi anni lo scioglimento dei ghiacciai ha reso più ostico il passaggio: il labbro inferiore si è abbassato notevolmente rispetto a quello superiore e le descrizioni di salita nel periodo estivo ne rimarcano la difficoltà. Mentre cammino, mi interrogo anche sulla Barre des Écrins che, nonostante l’aspetto poco rassicurante, è classificata solo PD+, in teoria più facile del giro delle Tre Vette al Gran Sasso. Non ho ancora deciso per domani, ma una vocina dentro mi frena e comincio a pensare che già il Dôme de Neige non sarà per nulla facile. Il refuge des Écrins è stupendo, con la sua posizione straordinaria, in alto, sul ghiacciaio e l’affaccio magnifico sulla meta dell’indomani; ti fa dimenticare il patimento per salire gli ultimi 150 metri di dislivello sulla morena laterale, sdrucciolevole e martellata dal sole. Il giorno dopo alle 3 siamo già in piedi e alle 4 seguiamo cauti le prime cordate alla luce delle frontali. Il nostro passo è regolare, non siamo dei fulmini, ma riusciamo a non perdere di vista il gruppo con la guida francese diretto alla Barre des Écrins.

Alle 8 siamo in vetta, la salita è stata faticosa e mai banale, ma alla nostra portata; ci ha aiutato molto la fune fissa, probabilmente sistemata dal rifugista o dalle guide francesi, per superare la crepaccia terminale. Hanno fatto un ottimo lavoro, una bella fettuccia tesa di una decina di metri per salire in sicurezza con la longe e un solido ancoraggio per la doppia da fare in discesa. La fila di persone dietro di noi è lunga, ma la cima del Dôme de Neige è larga e tondeggiante, non ci sono problemi di spazio; inoltre, l’ancoraggio per la calata aiuta a gestire bene il flusso delle cordate in entrambi i sensi di marcia. Il sole brilla e la luce è fenomenale, cos’altro si può volere di più?

È il mio quarantesimo Quattromila, sono soddisfatto e Sara è felice come una Pasqua, ma io guardo avanti, verso la Brêche de Lory e il “molare”, il primo tratto di roccia da superare per raggiungere la cresta della Barre des Écrins. Sono una decina di metri, in parte attrezzati, però vedo quanto tribola la guida per far passare i suoi clienti. È un tratto in ombra, freddo e bisogna arrampicare con i ramponi. Gli scalatori appaiono goffi nei loro movimenti, mentre arrancano sugli spezzoni di corda fissa, visibilmente laschi.

In un attimo decido, non voglio che la mia giovane moglie, madre del nostro bambino che ha solo quattro anni, corra ulteriori pericoli. Ci siamo dati un codice di comportamento da tempo: dobbiamo minimizzare i rischi. Se ci tiene tanto ad una vetta che non riesco a padroneggiare da primo, preferisco che ci vada con la guida. Devo sempre essere in grado di assicurarla in maniera affidabile, altrimenti passo volentieri la mano. In teoria non dovremmo neanche andare legati insieme su ghiacciaio, un ponte può sempre crollare e la gravità trascinarci entrambi, ma la razionalità non è di questo mondo e probabilmente su neve ci sentiamo più confidenti. Torniamo a valle senza rimpianti, è stato bello.

La Barre des Écrins e il refuge des Ecrins. Foto: Giorgio Giua.

A metà settembre dello stesso anno una valanga travolge e uccide 7 alpinisti, cogliendoli sul traverso, sotto la terminale, di ritorno dal Dôme de Neige. Fu una grande tragedia, ma ciò nonostante il tarlo della Barre des Écrins mi rimane dentro, mi rosicchia l’anima da un angolino nascosto della mente e già l’estate successiva ci vorrei tornare. Non ci posso andare con un compagno di cordata qualsiasi, deve essere uno in gamba, motivato, con esperienza di alta montagna e bravo soprattutto ad arrampicare. La parte su ghiacciaio ormai la conosco, fa parte del mio vissuto e, considerando la corda fissa, di sicuro non rappresenterà un ostacolo. Ne parlo con Stefano; devo alla nostra cordata quasi una decina di Quattromila, è solido, affidabile e conduce agevolmente le vie di quarto in montagna.

La nostra ultima avventura fu alla Punta dei Due al Corno Piccolo: a fine ottobre, alle 3 del pomeriggio, dopo un’ora di sbattimento sulle relazioni senza trovare la via, a un certo punto, fidandosi di un friend, si ”inventò” un passaggio che ci condusse in vetta in pochi minuti, era il mio 261 esimo Duemila. Terminammo la gita a notte fonda, ma la sua intuizione mi permise di terminare la collezione un anno prima del previsto. Penso a questa e ad altre emozioni mentre cammino, ancora una volta, verso il refuge des Écrins, tre anni dopo, con lo zaino affardellato. Siamo alla prima settimana di settembre e Stefano forse voleva andare al mare. Ma è bastata una telefonata per distoglierlo da questo scialbo proposito.

Anche lui si fida di me.

Le previsioni sono buone, abbiamo preparato lo zaino e siamo partiti. Il rifugio è quasi vuoto, il telefono non ha campo e i severi gestori francesi non permettono di effettuare nemmeno la ricarica elettrica. Stefano arriva una ventina di minuti dopo di me. La risalita finale della morena l’ha stroncato, ma il tramonto sulla Barre des Écrins des è impagabile, dalle grandi finestre affacciate sul ghiacciaio ci godiamo il momento, davanti alla meritata zuppa fumante. Mentre ceniamo arriva un gruppo di militari francesi, sono di Grenoble, Cacciatori di Montagna, l’equivalente dei nostri Alpini. Hanno l’aria cazzuta e sono armati fino ai denti: due corde da 60 metri, viti da ghiaccio, chiodi, dadi e rinvii in abbondanza. Tre sono giovani, probabilmente militari di leva; il quarto invece, sulla quarantina, deve essere il capo, ha il classico cipiglio del sergente di ferro, addolcito però da un viso buono, incorniciato da una barba sale e pepe, e da modi gentili sebbene energici. Ha il fisico statuario di chi non sta dietro una scrivania e lo sguardo magnetico di chi è abituato a prendere decisioni e a farsi ubbidire.

Il mattino dopo, alle 5, è ancora buio pesto mentre ci incamminiamo dietro di loro, sulla esigua traccia di neve sporca. Settembre è un mese balordo per i ghiacciai, ma il gestore ci ha rassicurato sia sulle condizioni del ghiacciaio che sul meteo. Mi assalgono i soliti dubbi del mattino, “come sarà il molare?”, “il materiale sarà sufficiente?”, “la corda basterà?”. Intanto si fa chiaro e, mentre attacchiamo le prime rampe tra i seracchi, con la tragedia di tre anni prima vivida nella mente, gli alpini sono già parecchio più avanti e si preparano per qualcosa di impegnativo. Sono andati veloci nonostante gli zaini molto più pesanti dei nostri. Dietro si vedono 2 puntini lontano che puntano al Dôme de Neige come le altre poche cordate che stanno scendendo sulla morena. In pratica siamo soli, il senso di isolamento è forte, ma proseguiamo dritti verso il nostro destino, con “fede incrollabile”. Alla crepaccia terminale, sotto il Dôme de Neige, abbiamo il primo imprevisto. Non c’è la corda fissa e il piano del ghiacciaio è di diversi metri più basso del labbro superiore. Le vecchie tracce sono mangiate dal sole e dal maltempo di fine agosto e, di fatto, dobbiamo affrontare una paretina di ghiaccio inclinata almeno a 60° sopra una enorme voragine.

La Barre des Écrins (a sinistra) e il Dôme de Neige  (a destra) da quota 3300 m circa. Foto: Giorgio Giua.

Mi faccio coraggio, meno un gran fendente con la picca e mi affido alla sua presa sul ghiaccio spugnoso; aggiro con circospezione una spalletta che agevola il passaggio di un muretto quasi verticale e affronto la rampa piuttosto inclinata, di una decina di metri, che mi conduce finalmente al tratto meno ripido dove infilo l’unica vite di cui dispongo. Le gambe mi tremano, la spalla mi fa male e sono emotivamente provato. Mi stramaledico per la pigrizia che mi impedisce di fare le cose difficili se non in vista di un obiettivo importante; mai una goullotte per allenamento o una esercitazione per imparare bene la progressione e le manovre. “Sono proprio un demente!”, mi ripeto sottovoce, mentre mi accorgo che la vite traballa e la becca non tiene per niente.

Qui a quattromila metri, sotto la facile cupola tondeggiante del Dôme de Neige, senza fittoni e senza traccia, trovare un posto buono per girare la vite, sotto un palmo di neve fresca, non è affatto facile. Salgo ancora un po’, levo la neve nuova con le mani e pulisco un po’ con la paletta della piccozza finché non trovo uno strato di consistenza decente. Infilo tutta la vite da 20, pianto bene anche la picca per avere due punti di ancoraggio, attrezzo la sosta e faccio il mezzo barcaiolo per far salire Stefano. Mi faccio mentalmente anche il segno della croce perché il mio compagno, con lo zaino e gli scarponi invernali, pesa quasi cento chili e spero proprio che non abbia tentennamenti. Tutto bene, snobbiamo il Dôme de Neige e scendiamo alla Brêche de Lory a mangiare un boccone. Nel frattempo si sono fatte le 9, ci è voluta più di mezzora solo per passare la maledetta terminale. Ma c’è il sole, niente vento e, grazie all’ora legale, avremo luce almeno fino alle sette di sera. Valuto che potremo essere in vetta alle 11 e di nuovo alla Brêche de Lory per le 13. Alle 15,00 sotto al rifugio, dove recupereremo i sacchetti con il cambio nascosti tra le pietre, e a valle prima di notte. La corda da 30 metri basterà sia per la doppia dal molare alla Brêche de Lory, sia per superare la terminale, appena un po’ stiracchiata, forse, ma basterà. Dovremo sacrificare le nostre 2 uniche viti da ghiaccio, ma non abbiamo alternativa, sarà comunque un prezzo modesto da pagare per la salita superba che ci attende. Ora tocca a Stefano prendere l’iniziativa, la roccia è materia sua, ma non si muove.

“Vai tu”, mi dice, “non sono abituato ad arrampicare con gli scarponi pesanti e i ramponi”.

Lo strangolerei, ma lo guardo in faccia e mi accorgo che è stanco, più di me, non ha avuto l’opportunità di acclimatarsi e ultimamente il suo stile di vita non è stato molto regolare. Inoltre la Barre des Écrins è una mia fantasia, Stefano non è un collezionista, probabilmente avrebbe preferito andare ad arrampicare al caldo su qualche bella parete in Dolomiti. È venuto per me, gli piace l’alta montagna e l’esplorazione, non disdegna affatto l’idea di scoprire nuovi luoghi con rinnovata emozione, ma principalmente è venuto perché io gliel’ho proposto e lui si è fidato.

La Breche de Lory, il Molare e la cresta della Barre des Écrins dal Dôme de Neige. Foto: Giorgio Giua.

Non gli posso chiedere di più; in una frazione di secondo comprendo che l’onere della vetta sarà tutto mio, è giusto così, sono io che ci tengo e mia sarà la responsabilità della riuscita. Attacco la parete buia con un senso di nausea e la consapevolezza di assomigliare più a Paperino che a uno scalatore. Arranco sui vecchi spezzoni di corda molla graffiando con i ramponi la parete finché non ne vengo a capo. Trovo la sosta e sono sollevato nel constatare che la calata al ritorno sarà al massimo di 10 metri, come da relazione. Il cordino è già doppiato e in buono stato, aggancio un moschettone e assicuro Stefano col mezzo barcaiolo.

“Ma quanto diavolo ci mette?”. Mi sembra che sia addirittura più lento di me che sono passato da primo! È stanco Stefano, decisamente, forse un po’ scombussolato dalla quota, vorrebbe procedere ancora con qualche tiro, ma non possiamo; il tempo scorre inesorabilmente e la cresta nord-ovest è ancora lunga, sebbene il dislivello modesto. Lo convinco a procedere di conserva, passando la corda intorno agli spuntoni di roccia ogni volta che ne abbiamo l’opportunità. Siamo lenti, ma andiamo, la cresta è praticamente asciutta, i ramponi sono più che altro di intralcio, ma non li possiamo levare per via di quei pochi metri di ghiaccio duro che ogni tanto incontriamo. Procediamo così, con la piccozza infilata nello spallaccio e la mani sulla roccia fino al Pic Lory, l’anticima di 4088 m, solo di 14 metri più bassa della cima. La concentrazione ad ogni passo è massima, la tensione nervosa mi consuma le energie più di una corsa estenuante in salita. Proprio pochi metri prima del Pic Lory sto per abbandonare la partita, l’esposizione è bestiale e la cresta, affilata, nera con striature rossicce, irta di punte e di piccoli gendarmi, mi ha stremato. “Fanculo alla vetta”, penso, “anche il Pic Lory è un Quattromila; al diavolo la Barre des Écrins e la sua assurda, insufficiente gradazione PD+. Non faremo mai in tempo a tornare indietro.

Andiamo come bradipi azzoppati in un ambiente da leopardo delle nevi”. Ma Stefano, dietro di me, calmo e sicuro, ha superato la crisi; sulla distanza è un grande guerriero, non diciamo una parola e tiriamo avanti. Vediamo i quattro militi sbucare in vetta dalla cresta nord-est, la piccola croce li accoglie materna. Hanno fatto una via di ghiaccio difficile, ma è lo stesso rassicurante vederli arrivare solo pochi minuti prima di noi.  Alle 11,45 siamo in vetta, abbraccio Stefano commosso e tutti ci stringiamo le mani sorridendo. Gli alpini, oltre ad essere in gamba, sono anche simpatici, scambiamo quattro parole in francese, forse in inglese, un po’ in italiano, tanto in montagna ci si capisce sempre. Tiro fuori il telefono per fare almeno una foto ricordo, ma la batteria si è esaurita, dovrò ricordarmi un power-bank la prossima volta che vengo da questi parti. Ora il tempo dei festeggiamenti è finito, i quattro si rimettono in marcia per la via che abbiamo appena percorso, noi ingoiamo una barretta e li seguiamo dappresso. Temo il ritorno ancora più della salita, siamo in marcia da sette ore, consumati nell’anima e logorati nel fisico. La discesa è un calvario di un’altra ora e mezza in cui la distanza con gli alpini aumenta, di poco, ma aumenta. Non li voglio mollare, percepisco istintivamente che se avremo un problema, loro ci aiuteranno a superarlo. Sono brave persone, preparati e molto più forti di noi.

L’autore sul lungo traverso, sopra i seracchi, verso il Dôme de Neige. Foto: Giorgio Giua.

Alle 13,30 siamo quasi al molare, gli alpini si stanno calando, ma non sulla Brêche de Lory, come avremmo fatto noi, bensì, avendo giuntato le loro corde da 60 metri, direttamente sul ghiacciaio oltre la crepaccia terminale. Una doppia di 55 metri che ci farebbe risparmiare almeno un’ora di tempo e le due preziose viti da ghiaccio che avremmo dovuto abbandonare sotto al Dôme de Neige per superare la terminale. “Speriamo che ci diano un passaggio”, penso mentre affretto il passo. Arriviamo all’ancoraggio mentre si sta calando il terzo soldato. Il graduato, rimasto ultimo, controlla la situazione. Sotto, i due alpini già scesi appaiano minuscoli in confronto alla enorme bocca nera del crepaccio: una voragine immensa, già in ombra, buia e cavernosa.

“Voulez vous? …” il sergente di ferro indica la corda con fare bonario. “Sì, grazie! Mercì!” … gli darei un bacio in fronte a quest’uomo tutto d’un pezzo, ma così affabile! Ormai sono cotto, le ombre che si allungano sul ghiacciaio mi deprimono, non ne posso più, voglio la neve molle sotto i piedi e correre giù fino alla sicurezza della morena, al sentiero a tornanti che conduce a valle! Senza rispettare l’etichetta lascio Stefano per ultimo e scendo in doppia. Ma sbaglio la traiettoria. Nella foga di andarmene da questo posto, per me adesso orrendo, e nella confusione mentale che mi pervade ormai completamente, invece di dirigermi verso la parte strapiombante della parete, che mi avrebbe permesso di superare direttamente in verticale il crepaccio, vado giù dritto, in appoggio, verso la grande caverna, larga tre o quattro metri, che sta per risucchiarmi come la bocca della balena! Fortunatamente il militare, che tiene la corda da sotto, ha compassione e mi viene in soccorso tirandola dalla parte giusta e tendendomi la mano.

È andata, ho fatto una figura di merda, ma non me ne frega niente.

Mi raggomitolo sul bordo della traccia di discesa e provo ad addentare qualcosa. Lo stomaco è chiuso, ma almeno bevo. Stefano arriva con il suo solito aplomb, sulle manovre è molto più preparato di me, e aiuta i militari a recuperare le corde. Quelli ripartono come treni e anche noi ci avviamo, come pesci bolliti, giù per il ghiacciaio in ombra. Ci tengono d’occhio e scompaiono definitivamente dalla nostra vista solo dopo aver controllato che siamo al sicuro, sul piatto Glacier Blanche, al sole finalmente, dopo aver superato la parte ripida e crepacciata.

“Grazie soldati, non vi ho mai amato così tanto come oggi!”

I giorni successivi scaliamo anche la Pointe Puiseux al Pelvoux e decidiamo di rimanere a dormire un’ultima notte al refuge du Pelvoux, a due ore di discesa da Ailefroide. Pigramente attendiamo la cena e ci capita in mano la guida Glenat della zona. Riguardiamo le nostre ascensioni e, mentre scorriamo la “Voie normale a la Barre des Écrins – Arête nord-ouest”, sgraniamo gli occhi: la guida classifica l’itinerario AD-, non PD+! Che diavolo di relazioni avevamo letto? Mai fidarsi del web!

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